9
INTRODUZIONE
Rincasando, una sera di qualche anno fa, trovai la mia
famiglia assorta davanti al televisore, catturata ed
ammaliata da un programma che la Rai trasmetteva in
diretta dall’Arsenale di Venezia. Un uomo sulla quarantina,
insieme ad alcuni musicisti, stava raccontando, un po’ in
dialetto e un po’ in italiano, la vita della laguna, tramite la
ricostruzione di luoghi e personaggi. Senza nemmeno
accorgermene sono stata immediatamente catturata a mia
volta da quella storia, che sembrava quasi una fiaba, e, pur
non essendo mai stata molto entusiasta nei confronti di
quelli che avevo sempre considerato “programmi culturali”,
sono rimasta incollata allo schermo fino alla fine della
trasmissione, provando una sempre maggiore ammirazione
per quell’uomo, che poi scoprii essere un attore, e per le sue
grandi doti di narratore. Io Venezia così non l’avevo mai
vista, anzi mai sentita! Con il solo uso delle parole, senza
dialoghi o scene d’azione, era riuscito a farmi rivivere le
sensazioni che si provano in barca sulla laguna e l’odore
salmastro del mare; l’emozione che prova uno che è ‘di
terra’ quando arriva nella ‘città d’acqua’; il suono della mia
lingua. Colpita dall’effetto che aveva suscitato in me quel
racconto, cercai altri lavori di quel Marco Paolini,
sconosciuto ai più, e trovai Il racconto del Vajont ed i
Bestiari, e con loro iniziai a riconciliarmi con la mia terra, il
Veneto, quella regione che avevo sempre considerato,
10
negativamente, terra grezza di contadini, di campagna e di
dialetto. Nelle parole di quell’attore, nei suoi racconti,
ritrovavo le sensazioni vissute da bambina, quando,
partendo da Verona, attraversavo la pianura veneta per
arrivare a Treviso, dai parenti di mio padre, e poi più su,
fino a Pordenone dai parenti di mia madre. Ritrovavo, in
quei racconti, i paesaggi, i volti, le storie, la lingua di quei
luoghi, che, pur non appartenendomi quotidianamente,
sentivo fortemente miei. Riscoprii allora il valore di essere
parte di una comunità, di un popolo e, pur non amandone
molti tratti, capii che, nel bene o nel male, lì avevo le radici
e che, in qualche modo, mi sarei dovuta riconciliare con
esse. La forte riscoperta di avere un’identità precisa mi
stimolò nella ricerca delle sue componenti: storie, tradizioni,
usi quotidiani e linguistici, memorie. Le mie nonne
funzionarono da enciclopedia vivente per questo,
raccontandomi, come solo i nonni sanno fare, la loro
gioventù, le vecchie filastrocche, la quotidianità della
campagna, la guerra, espressioni linguistiche della loro
terra.
Nel momento in cui ho dovuto pensare ad una tesi di
laurea, quindi, avendone la possibilità, ho voluto
approfondire questo mio percorso tramite una lettura del
teatro di Marco Paolini (artefice inconsapevole di quella mia
riconciliazione) e del suo aspetto più significativo: la
memoria. Proprio il riaffiorare, nella mia di memoria, di
quelle sensazioni forti di appartenenza, mi aveva reso
11
consapevole che ciò che conserviamo dentro di noi, del
nostro passato, del nostro ambiente e delle nostre relazioni
con gli altri, caratterizza fortemente la nostra identità. Ma
una domanda sorgeva spontanea: come aveva fatto
quell’attore, attraverso il teatro, a riportarmi tutto questo?
Proprio da qui parte la mia analisi, che si articola in
cinque capitoli e che vuole portare allo scoperto i
meccanismi che questo teatro, che definiremo di
narrazione, utilizza nel riportare la memoria sociale a chi
l’ha prodotta: la collettività. I primi due capitoli hanno un
carattere più generale e mirano a fornire, a tutti i lettori,
alcune conoscenze di base sul teatro di narrazione: il primo
capitolo si occupa di contestualizzare, dal punto di vista
storico-artistico, il lavoro di Marco Paolini, mostrando come
egli si collochi al termine di un processo di evoluzione
teatrale durato più di un secolo; il secondo si occupa
invece, più nel dettaglio, della memoria, secondo una
prospettiva sociologica, di come si possano distinguere
diversi tipi di memorie (individuale, collettiva, sociale), della
connessione tra memoria e identità, del suo rapporto con la
storia, della modernità come potenzialmente distruttiva del
ricordo, dell’oblio. I restanti tre capitoli entrano più nel
merito della produzione paoliniana: nel terzo capitolo,
Memoria e responsabilità, tengo ad evidenziare il ruolo
fondamentale della narrazione per trasmettere la memoria
di generazione in generazione e le possibili funzioni del
teatro e dell’attore in questo ambito; nel quarto capitolo si
12
procede verso un’analisi più sistematica degli aspetti di
memoria contenuti in ogni singolo lavoro di Marco Paolini;
infine, nel quinto capitolo, si parla della relazione
indissolubile e vitale tra memoria, attore e spettatori.
Lungo il cammino molti aspetti sono stati privilegiati a
discapito di altri: l’analisi della memoria qui proposta si
sviluppa secondo percorsi che privilegiano lo sguardo della
sociologia e delle scienze umane a discapito di quelli
proposti dalla neurobiologia e dalla medicina.
Più approfondivo l’indagine, tra amore e odio verso
l’oggetto del mio studio, più mi appassionavo nel ritrovare,
attorno a me, le memorie contenute nella mia terra. Questo
lavoro quindi, oltre al tentativo di dimostrare la stretta
connessione che esiste fra teatro, memoria ed identità, vuol
essere anche uno stimolo a fermarsi, per reimparare a
leggere il proprio ambiente, la propria stagione ed a
tramandarne l’unicità e la significatività. Sarà compito dei
posteri giudicarne il valore. A noi, per il momento, è fatto
obbligo di ricordare.
13
CAPITOLO PRIMO
IL TEATRO NEL ‘900: UN’INTRODUZIONE
15
1.1 CONTESTO STORICO-ARTISTICO
“E’ possibile esprimere il mondo d’oggi
per mezzo del teatro?”
1
Nel 1957, con la redazione dei suoi Schriften zum
Theater, Bertold Brecht ripropone un’annosa questione,
sorta sul finire del diciannovesimo secolo: è ancora possibile
per il teatro rappresentare la realtà contemporanea?
Secondo lo stesso Brecht molti, a quel tempo, lamentavano
l’incapacità del teatro di trasmettere nuove esperienze, ma
soltanto pochi si rendevano conto “della sempre maggiore
difficoltà di esprimere il mondo moderno”
2
. Negli anni ’50 e
’60 il dibattito si accende fortemente attorno a questa
questione così sentita e dibattuta e molti sono coloro che
tentano di dare una risposta, sia pratica che teorica, alla
crisi del ‘dramma’.
Ma come si può esprimere il mondo d’oggi? Sono
ancora applicabili le distinzioni di genere (commedia,
tragedia) che erano rimaste valide fino a metà
dell’ottocento? E’ ancora possibile che forma e contenuto del
‘dramma’ rimangano in un rapporto dualistico (come nella
tradizione aristotelica), ignorando la categoria storica?
3
A
cavallo del secolo, il perno attorno a cui ruota il dibattito
diviene quindi la forma. Chi si occupa di fornire una teoria
organica del ‘dramma’, pur non concordando sempre nei
1
Brecht B., Scritti teatrali, Torino, Einaudi, 2001, p. 19.
2
Ibidem
3
“Il considerare la forma drammatica come non legata alla storia implica che il
‘dramma’ dev’essere sempre possibile, e che le poetiche possono esigerne la
presenza in qualunque tempo”, in Peter Szondi, Teoria del dramma moderno,
Torino, Einaudi, 2000, p. 4.
16
giudizi di merito, concorda sul fatto che non esista più una
forma drammatica, dai caratteri riconoscibili, che permetta
di raccogliere sotto un unico genere la produzione teatrale
contemporanea.
4
Forse gli anni ’50 non permettevano uno sguardo
sufficientemente distaccato da poter giudicare
obiettivamente ciò che era accaduto in epoche così recenti.
Oggi, a cinquant’anni di distanza, è sicuramente più
semplice seguire l’evoluzione di un teatro in crisi e sempre
alla ricerca di nuovi mezzi per esprimere ed interpretare la
realtà circostante. Ciò nonostante, è inevitabile concordare
ancora con i critici dell’epoca sul fatto che, nel nostro
secolo, non esiste un’omogeneità bensì una grande
eterogeneità di esperienze, che hanno come unico intento
quello di dare una risposta formale al vuoto generatosi
nella drammaturgia del ‘900. Il numero e l’autorevolezza
degli studiosi che si sono occupati di questa questione,
rendono difficoltoso il tentativo di esporre in modo chiaro e
sintetico un problema così articolato e complesso. Vorrei
solamente ripercorrere i momenti salienti dell’evoluzione
della drammaturgia novecentesca che hanno reso possibile
oggi l’esperienza di un nuovo teatro: quello di Marco
Paolini.
4
Per un approfondimento della questione si veda Peter Szondi, Teoria del dramma
moderno 1880-1950, Torino, Einaudi, 2000 e George Steiner, La morte della
tragedia, Milano, Garzanti, 1999.
17
1.2 CRISI DEL ‘DRAMMA’ MODERNO
Parigi. 10 dicembre 1896. Théâtre de l’Oeuvre. Alfred
Jarry debutta con la sua pièce Ubu roi
5
e segna lo
spartiacque tra due modi completamente differenti di fare
teatro: rifiuta il Teatro Naturalista, ormai cristallizzatosi nei
canoni della riproduzione mimetica del salotto borghese, e
si pone come punto di riferimento per le Avanguardie, che
faranno della provocazione e della frantumazione degli
stilemi tradizionali, il loro credo. Le ragioni di questa
rottura non sono certamente da attribuirsi alla sola
rappresentazione dell’Ubu roi, bisogna piuttosto leggere, in
questo sovvertimento di canoni, la materializzazione di
conflitti sociali ben più complessi e diffusi nel vivere civile
di fine secolo. La rivoluzione francese e la rivoluzione
industriale, nel giro di pochi decenni, modificano
radicalmente gli stili di vita di migliaia di persone. La
nascita del sistema fordista e la catena di montaggio, lo
sviluppo delle teorie marxiste e la lotta al capitalismo
stravolgono valori e modi di vivere radicati da secoli. La
borghesia entra in crisi e con lei i punti di riferimento di
tutte le classi sociali. Il continuo e rapido mutare della
società rende impossibile la comprensione dei suoi nuovi
meccanismi, creando spaesamento. Si percepisce una
5
Rivisitazione simbolista, e quindi anti-naturalista e sintetica, del Macbeth
shakespeariano, in cui Padre Ubu, istigato da Madre Ubu, si lancia alla conquista
del regno compiendo crimini sempre più efferati. L’opera si vuole collocata in un
registro basso: stravolgendo parole e scena, Jarry conferisce alla sua pièce tono e
linguaggio da teatro dei burattini.
18
sempre maggiore difficoltà nel comunicare, poiché la lingua
comune non è più in grado di esprimere il mondo moderno
nel suo incessante divenire. Entra in crisi il linguaggio, che
si trasforma nel nuovo linguaggio della modernità.
Ciò che avviene a livello sociale si riflette anche in
campo artistico. L’Arte, in quanto specchio della vita, mira
a rappresentare un mondo fatto di valori assoluti
6
, lontani
dal tran-tran quotidiano, ma l’universalità dell’esperienza
ora non è più visibile: ciò che si riesce a focalizzare è solo il
particolare.
Il teatro subisce lo stesso destino delle altre Arti (in
particolare della pittura, della letteratura e della musica) e
cerca, attraverso i suoi protagonisti, nuove forme che
contengano nuovi contenuti. Il principio di verosimiglianza
non appare più così primario: ciò che è fondamentale, ora,
è trovare un modo che permetta di “rendere visibile”
7
la
realtà circostante, non più di imitarla. La mera esteriorità
perde il suo valore, predominano l’indagine su se stessi e
l’espressione, più o meno rumorosa, della propria
solitudine, come frutto della modernità. Vengono meno,
quindi, le funzioni che la tradizione affidava al teatro: non
più luogo di comunicazione e di educazione sia civile che
morale, dove la società si rappresenta ed allo stesso tempo
si specchia; non più luogo in cui la comunità assiste al
6
Tale era, ad esempio, il valore della poesia per Aristotele, quando nella Poetica
afferma che “la poesia dice piuttosto gli universali, la storia i particolari.”,
Aristotele, Poetica, Milano, BUR, 2000, p. 147.
7
Per un approfondimento sul rapporto tra visione e arte si veda Maurice Merleau-
Ponty, L’occhio e lo spirito, Milano, SE, 1989.
19
racconto di storie che la riguardano e quindi non più sede
di un rito collettivo. Proprio questo è ciò che tenterà di
recuperare Marco Paolini, un secolo dopo la crisi: la
funzione civile del teatro. Ma ad inizio secolo, con la messa
in discussione dei valori tradizionali, appare chiaro che non
esiste più un modello di teatro forte e riconoscibile al quale
far riferimento. E’ l’inizio di una nuova epoca, in cui si
assiste al sovvertimento dei canoni: ciò che prima era
regola incontestabile diventa ora “la cosa da rifiutare”. La
scena rivendica la sua autonomia ed il testo non ha più il
predominio, diventa soltanto uno degli elementi dello
spettacolo; non ha più valore assoluto e si modifica a
seconda della creatività dell’unico protagonista della nuova
scena teatrale: il regista. Si assiste ad una “de-
letteralizzazione del teatro”
8
, ad una svalutazione del testo
scritto, al rifiuto della figura del drammaturgo, poeta e
letterato, che scrive per la scena senza esserne parte
integrante. Allo stesso modo, l’attore-mattatore
ottocentesco perde la sua centralità e viene sostituito da un
“attore-marionetta” privo di psicologia, mosso dai fili dei
nuovi autori. Cadendo il principio della mimesi naturalista
viene meno anche il principio di unitarietà della scena: un
nuovo procedimento è preso a prestito dal cinema e prevede
una giustapposizione di scene, che non ha la pretesa di
costruire un’opera unitaria e organica. Sarà proprio il
cinema, dal quale il teatro mutua questa nuova forma, il
8
Allegri, L., La drammaturgia da Diderot a Beckett, Bari, Laterza, 1999, p. 111
20
montaggio
9
, a farsi invece carico di una rappresentazione
mimetica e verosimile della realtà. Sostituisce il teatro in
questo, sottraendogli compiti e pubblico: esso diventa ora
un teatro d’élite, abbandona al cinema la funzione
narrativa ed imitativa e si dedica alla sperimentazione
linguistica e scenica.
In questa generale rivoluzione, le esperienze sono
molteplici ed eterogenee. Ciò che accomuna i vari tentativi
di soluzione è la ricerca di una nuova forma
drammaturgica. I piccoli passi, compiuti lungo tutto un
secolo da singoli uomini di teatro, alla ricerca di una forma
teatrale in grado di esprimere la realtà, hanno aperto il
‘dramma’ alle più ampie possibilità di espressione,
rendendo possibile, oggi, l’esperienza del teatro di
narrazione, che vede tra i suoi maggiori esponenti Marco
Paolini, Marco Baliani e Laura Curino. Questo percorso
ricostruisce, in fondo, la genesi della forma narrativa e
drammaturgica da essi privilegiata: il racconto.
9
Per un’ analisi completa del rapporto tra teatro e montaggio si veda Claudio
Longhi, La drammaturgia del Novecento tra romanzo e montaggio, Pisa, Pacini,1999.