2
delle nostre imprese e la forte dipendenza dalle banche del sistema produttivo. La
riforma Visco segue la direzione delle riforme attuate dagli altri Paesi, seppure
con un ritardo di diversi anni. L’introduzione dell’imposta regionale sulle attività
produttive (Irap) e della Dual Income Tax (Dit), assicurano una neutralità al
nostro sistema fiscale in precedenza sconosciuta, tassando in maniera eguale il
capitale proprio e quello di debito, per mezzo dell’Irap, e garantendo un
trattamento fiscale agevolato agli utili prodotti da una parte del capitale proprio
attraverso la Dit.
Il presente lavoro si articola in quattro capitoli ed è diretto essenzialmente
all’analisi degli effetti fiscali del sistema duale e regionale sulla struttura
finanziaria, patrimoniale e reddituale delle imprese.
Nel primo capitolo dall’esame delle imposte gravanti sulle società di capitali,
si confrontano i difetti e le distorsioni della vecchia normativa composta da
IRPEG e ILOR, con la nuova normativa introdotta dalla riforma Visco,
comprendente l’IRAP e la DIT, senza tralasciare i possibili sentieri di riforma:
modelli ideali analizzati in dottrina come la Comprehensive Business Income Tax
e l’Allowance for Corporate Equity; e sistemi di tassazione che realmente hanno
avuto applicazione: Tassazione degli utili reinvestiti e normativa sulla Thin
Capitalization. Saranno poi presentati gli obiettivi della riforma stessa e le ragioni
della sua introduzione nell’economia italiana: IRAP e DIT, diverse tra loro nei
presupposti, hanno finalità ed obiettivi, se non simili, almeno complementari e
sinergici.
3
Gli obiettivi della riforma IRAP- DIT erano stati individuati in sostituire il
finanziamento del sistema sanitario secondo il metodo contributivo con un sistema
a carattere generale; dotare le regioni di un tributo proprio, non solo per finanziare
le spese sanitarie; razionalizzare e semplificare il prelievo sulle imprese e sul
lavoro mantenendo invariata la pressione fiscale; ridurre la discriminazione tra le
fonti di finanziamento delle imprese: la diminuzione dell’aliquota sui profitti, sia
l’inclusione degli interessi passivi nella base imponibile dovrebbero favorire il
capitale di rischio e l’autofinanziamento rispetto all’indebitamento, è segnalato un
importante fine generale della riforma che è quello di raggiungere un maggior
ricorso al capitale di rischio portando le imprese a patrimonializzarsi, con un
incentivo alla quotazione in borsa che potrebbe contribuire alla crescita del
mercato azionario nazionale.
Nel secondo e terzo capitolo si presenta la descrizione delle imposte
segnalandone gli aspetti fondamentali, quali presupposto, periodo di imposta,
soggetti passivi e base imponibile. Nell’ultimo capitolo, infine, si valutano le
conseguenze dell’imposta sul conto economico delle società di capitali al fine di
stimare i risparmi d’imposta ed i maggiori oneri relativi alla riforma fiscale. La
maggior neutralità dell’Irap in materia di scelte di finanziamento è esaminata
congiuntamente all’introduzione della Dit. La parte conclusiva infine, considera la
riforma nel suo complesso, considerando le aspettative degli autori della riforma,
gli errori di calcolo e di previsione, lo scostamento fra gli obiettivi sperati e i
risultati realmente raggiunti.
4
Capitolo I
La tassazione delle imprese: i difetti del sistema e le
necessità di una riforma
1. Premessa
Il sistema impositivo sulle imprese nato dalla riforma degli anni settanta non
è in alcun modo adeguato né a sostenere lo sviluppo né a rafforzare le imprese
italiane in un contesto di crescente competitività internazionale. La sua
irrazionalità non deriva solo dall’elevato numero d’imposte prelevato sulle
imprese (Ilor, Irpeg, Irpef, patrimoniale, Ici ed Iciap) e dall’elevato livello di
molte aliquote. Dipende, anche e soprattutto, dalla sua mancanza di neutralità
1
dal
suo accentramento e dalla sua complessità.
1
Per neutralità s’intende la non interferenza delle norme tributarie sulle scelte dei contribuenti (in
special modo degli investitori). Per rendere il sistema tributario neutrale occorre che il rendimento
netto di forme alternative di investimento, sia assoggettato allo stesso onere fiscale. A conferma
che la legislazione fiscale modificava la convenienza economica delle diverse forme di
finanziamento delle imprese, stime OCSE indicano che un’impresa italiana che, nel 1991, avesse
voluto ottenere da investimenti finanziati con fondi interni un rendimento pari almeno a quello dei
titoli di Stato avrebbe dovuto aggiungervi (a causa del cuneo Fiscale) un ulteriore rendimento
lordo (del 4,5 per cento nell’ipotesi di autofinanziamento con utili pregressi, e del 2,9 per cento nel
caso di aumento di capitale) mentre avrebbe potuto addirittura ribassarlo (dello 0,8%) qualora si
fosse indebitata all’esterno.
COMMISSIONE PARLAMENTARE CONSULTIVA IN MATERIA DI RIFORMA FISCALE; “Attività
conoscitiva sull’Irap”, sito internet della Camera dei Deputati.
5
Per le società di capitali, l’aumento progressivo dell’aliquota legale
complessiva (Irpeg + Ilor) e l’introduzione di un’imposta commisurata al
patrimonio netto, ha comportato sia una sottocapitalizzazione delle imprese
italiane, sia una dilatazione del tutto sproporzionata del vantaggio concesso dal
sistema tributario italiano al finanziamento con debito rispetto al finanziamento
con nuovi apporti di capitale od utili reinvestiti. E’ evidente che un sistema di
tassazione così congegnato, ha finito per condizionare la scelta della forma
attraverso cui esercitare l’attività d’impresa, la politica di distribuzione dei
dividendi, le scelte allocative dei fattori produttivi, le scelte di localizzazione e le
fonti finanziarie da utilizzare nell’attività d’impresa.
2
Il sistema fiscale, è poi talmente accentrato da non consentire un rapporto
soddisfacente sul piano fiscale tra imprese, da una parte, e regioni ed enti locali,
dall’altra; e ciò nonostante che le imprese stesse operino sul territorio, beneficino
di servizi locali ed abbiano interesse che tali servizi siano ad un livello almeno
paragonabile ai servizi prestati all’estero alle imprese concorrenti.
3
Compito della riforma fiscale è anche quello di semplificare il sistema fiscale.
Il sistema tributario italiano è fatto di 392 imposte, oltre 3.000 leggi e decreti
vigenti per l’ambito fiscale, quasi 400 modifiche in meno di dieci anni, al TUIR.
La numerosità degli adempimenti, la ristrettezza delle basi imponibili, l’entità
eccessiva delle aliquote, sono tra i fattori che contribuiscono a rendere vessatorio
2
G. D’ABRUZZO; “La nozione di patrimonio aziendale tra imposta sul reddito ed imposta
patrimoniale diretta”, Rivista di diritto tributario, n.12, 1997, pp. 772 ss.
3
F. GALLO; “La tassazione dei redditi d’impresa: i difetti e le proposte di modifiche” Rassegna
Tributaria, n.1, 1997, pp.121 ss.
6
il sistema fiscale italiano. Si tende perciò a ridurre l’erosione della base
imponibile e soprattutto l’evasione, che è ampia in corrispondenza di alte aliquote
marginali, causando perdite di gettito rilevanti.
4
In conclusione, il sistema fiscale delle imprese appare complesso e distorsivo,
denso di eccessivi obblighi contabili, che aggiungono costi rilevanti alle imprese.
Esso va, pertanto, semplificato eliminando imposte che colpiscono severamente la
realtà produttiva e decentrato per renderlo coerente al progetto di federalismo, ma
soprattutto il sistema tributario deve essere ricondotto ad un ambiente di
neutralità, di non ingerenza su due fondamentali aspetti della politica d’impresa:
1. la politica di distribuzione dei dividendi;
2. le scelte finanziarie, soprattutto nella discriminazione tra il finanziamento con
capitale proprio e quello con capitale di credito.
4
N. SARTOR; “I sistemi tributari dei paesi industrializzati: tendenze, problemi prospettive”,
Economia italiana, n.1, 1998, pp. 61 ss.
7
1.1 Mancanza di neutralità fiscale e politica di distribuzione degli utili
La discriminazione fiscale appare evidente con riguardo alla relazione tra le
diverse forme giuridiche con cui l’impresa decide di organizzarsi e l’imposizione
degli utili societari. Il sistema fiscale tassa diversamente le società di capitali, da
un lato, e le società di persone e le imprese individuali, dall’altro.
Il reddito prodotto dalle società di persone e dalle imprese individuali non è
soggetto ad alcuna autonoma imposizione, ma compreso nel reddito complessivo
Irpef dei soci e tassato progressivamente nei loro confronti.
Il reddito prodotto dalle società di capitali è sottoposto a tassazione in base
all’Imposta sul reddito delle persone giuridiche con aliquota proporzionale del
37%. L’imposta sul reddito delle persone giuridiche (IRPEG) pagata dalla società
sugli utili da essa prodotti è considerata come un acconto dell’imposta personale
dovuta dal socio sulla quota di utili a lui distribuiti. Il socio nel momento in cui
percepisce il dividendo acquisisce un credito d’imposta corrispondente alla quota
d’imposta che ha già colpito quegli utili in capo alla società.
Si contesta la disparità di trattamento tra redditi prodotti dalle società di
persone tassati direttamente in capo ai soci (indipendentemente dalla
distribuzione) e redditi prodotti dalle società di capitale, tassati in capo alle
società, ed in capo ai soci, con il credito d’imposta solo in caso ed in occasione
della distribuzione. La tassazione del reddito d’impresa non dovrebbe
condizionare la scelta tra forme giuridiche alternative di costituzione in società,
8
per rispetto del principio di uguaglianza tra chi esercita individualmente e chi
esercita collettivamente un’attività economica, a norma dell’articolo tre, primo
comma, Costituzione.
5
Il sistema fiscale, inoltre, sottopone a tassazione i redditi di capitale e di
impresa in maniera disuguale e distorsiva. I profitti pagano più imposte degli
interessi. L’applicazione del meccanismo del credito d’imposta, comporta che
l’onere gravante sugli utili distribuiti è sempre uguale all’aliquota marginale Irpef
del socio. Esso può variare fra il 19% ed il 45%. Gli utili non distribuiti restano
invece assoggettati all’Irpeg del 37%. In ogni caso tale onere è sempre maggiore
rispetto a quello riservato ai rendimenti di altre forme di impiego finanziario
assoggettati a regimi sostitutivi secondo aliquote che raggiungono al massimo il
27%.
L’onere fiscale sugli utili distribuiti non è stato ridotto, neppure dalla
normativa introdotta con la L. n.489/94 con cui è stato consentito ai soci di società
quotate in borsa di optare, nel caso di distribuzione degli utili, per una cedolare
secca del 12,5%, invece che per l’inclusione dei dividendi nel reddito imponibile
Irpef con la contestuale concessione del credito d’imposta.
5
G. ZIZZO; “Imposta sul reddito delle persone giuridiche”, Rivista di diritto tributario, 1994,
p.622.
9
L’opzione per la cedolare secca diventa, infatti, conveniente quando
l’aliquota marginale del contribuente è pari almeno al 45%, in altre parole per
azionisti con redditi imponibili superiori ai 135 milioni
6
. Per porre sullo stesso
piano il costo fiscale delle diverse fonti finanziarie bisogna agire, in modo
coordinato sia sulla tassazione in capo alle società sia su quella in capo ai
detentori dei titoli emessi dalle imprese per le proprie esigenze di finanziamento.
1.2 Mancanza di neutralità fiscale e decisioni di imprese
Il sistema fiscale poi non è neutrale neanche nei confronti delle decisioni
finanziarie e di investimento delle imprese. Basti pensare al favore da esso
garantito alle politiche aziendali di indebitamento ed al trattamento diverso dei
redditi di capitale a seconda che la scelta di finanziamento avvenga con debito o
con capitale proprio. Quanto al vantaggio fiscale concesso all’indebitamento, esso
deriva dai seguenti aspetti patologici della normativa:
a) deducibilità degli interessi passivi e cioè deducibilità del costo del debito
dal reddito imponibile delle imprese, a cui non corrisponde un’analoga
deducibilità del costo del finanziamento con capitale proprio: la deducibilità degli
interessi passivi dal reddito imponibile riduce il costo dell’indebitamento in diretta
proporzione alle aliquote d’imposta vigenti.
6
BOSI P., GUERRA M.C. (1998), I tributi nell’economia italiana, Il Mulino, Bologna, pp. 125 ss.
10
Il vantaggio fiscale dell’indebitamento si traduce in un risparmio d’imposta
pari al prodotto tra aliquota d’imposta ed oneri finanziari deducibili. Gli interessi
passivi remunerazione del capitale di debito comportavano un recupero fiscale
pari al 53,2% del loro ammontare perché deducibili sia ai fini Irpeg (37%) che Ilor
(16,2%). La deducibilità fiscale degli interessi dal reddito imponibile oltre ad
incentivare l’impiego del debito a danno del capitale proprio, ha altresì indotto gli
operatori economici a dissimulare apporti di capitale sotto la veste formale del
debito all’unico scopo di godere del vantaggio fiscale da esso derivante.
7
La prassi elusiva era la seguente: le persone fisiche, cui sono riconducibili
imprese (solitamente operanti in forma di società di capitali), depositavano
liquidità o titoli a pronta liquidità (il cui provento era soggetto a ritenuta al 12,5%)
a garanzia di finanziamenti concessi all’attività imprenditoriale, da essi
mediatamente esercitata, ritraendone interessi passivi deducibili al 53,2% e
lucrando quindi la differenza.
8
L’effetto complessivo è duplice: si è favorito
l’utilizzo reale del capitale di debito; si sono poste le condizioni per mascherare
sotto forma di debito anche quelle risorse finanziarie investite permanentemente
nell’impresa.
7
R. LUPI; “Il prelievo del 20% sui frutti dei valori in garanzia: pregi e difetti di un intervento
ambizioso”, Rassegna tributaria, n.6, 1996, pp. 1301 ss.
8
Per prevenire tale prassi la legge 8 agosto 1996, n.425, ha introdotto una sorta di sovrimposta del
20% sui depositi (di contanti, valori mobiliari o titoli diversi dalle partecipazioni sociali) a
garanzia di finanziamenti a favore d’imprese residenti, posti in essere da persone fisiche, società di
persone, enti non commerciali e soggetti non residenti.
11
b) la presenza di un’imposta patrimoniale
ad aliquota dello 0,75%,
contribuisce ad ampliare la forbice nel trattamento fiscale delle fonti finanziarie
proprie o di terzi. Per le imprese a contabilità ordinaria la base imponibile è
commisurata al patrimonio netto civilistico; un finanziamento con versamento di
nuovo capitale sociale o con accantonamento di utili provoca, pertanto, un
aumento dell’onere dell’imposta, mentre ciò non accade se il finanziamento
aumenta le passività verso terzi dell’impresa. Si penalizzano le imprese con
patrimonio di ampie dimensioni.
Inoltre, in un contesto di crescente competitività internazionale alte aliquote
legali sui profitti costituiscono, un incentivo ad intraprendere operazioni volte a
trasferire i ricavi nei Paesi a più bassa aliquota ed i costi (ad esempio, gli interessi
passivi) nei Paesi ad aliquota più elevata attraverso pratiche elusive, che
comportano costi sia per le società che le mettono in atto sia per gli Stati che
devono prevenirle o sanzionarle. La tabella uno illustra le aliquote fiscali legali
dei Paesi della Comunità Europea, nel 1980 e nel 1997; nel periodo considerato
solamente l’Italia e la Spagna hanno aumentato il carico fiscale sulle imprese,
segnalandosi così come unica eccezione in ambito comunitario. In Italia
quest’incremento fu straordinariamente ampio, raggiungendo quasi i diciassette
punti percentuali: come conseguenza di questa tendenza, l’Italia detiene, con la
Germania, il primato del più alto tasso fiscale sulle imprese nella Comunità
Europea.
12
Alla giusta obiezione che ciò che rileva, per le decisioni di impresa, non sono
le aliquote legali, definite dalla normativa, ma le aliquote effettive, che tengono
conto delle componenti deducibili e di eventuali crediti d’imposta si replica che
gli introiti derivanti dal pagamento delle imposte sulle imprese crebbero dal
2,38% al 4,76% del Prodotto interno lordo, tra il 1980 e il 1993, PIL che misura in
termini reali l’accresciuta imposizione sui redditi d’impresa.
9
A dimostrazione che
la differenza tra aliquote reali e aliquote formali ormai non esiste quasi più a causa
sia dei limiti posti negli ultimi anni alle deduzioni dei costi sia dell’attenuazione
di alcuni vantaggi relativi alla determinazione del reddito d’impresa.
9
V. VISCO; Il fisco giusto. Una riforma per l’Italia europea, Il Sole 24 Ore, Milano, 2000, pp. 83
ss.
13
Tabella n.1- Carico fiscale sulle imprese.
10
Paesi 1980 1997 differenza (%)
Belgio 48% 40,17% -7,83
Danimarca 37% 34% -7
Francia 50% 41,6% -8,4
Germania 61,7%
(44,3%) (1)
55,08%
(41,05%) (1)
-6,62
(-3,25) (1)
Irlanda 45% 36%
(10%) (2)
-9
(-35) (2)
Italia 36,3% 53,2% +16,9
Lussemburgo 45,5% 39% -6,5
Olanda 46% 35% -9
Portogallo 51,2%
(44%) (1)
39,6% -11,6
(-4,4) (1)
Spagna 33% 35% +2
Regno Unito 52% 33% -19
Grecia - 35% -
Austria - 34% -
Finlandia - 28% -
Svezia - 28% -
Comunità
europea
(senza l’Italia)
46,9% 36,7%
(38,8%) (3)
-10,3
(-8,1) (3)
10
Fonti: ISTITUTO PER LA RICERCA SOCIALE; “Osservatorio fiscale Irs, Imposte sui redditi di
capitale in Europa”, Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 1997.
(1) il tasso tra parentesi si riferisce a profitti distribuiti.
(2) il tasso tra parentesi si riferisce alle imprese manifatturiere.
(3) la percentuale di 38,8% e la differenza percentuale di 8,1 punti si riferiscono solamente a quei
paesi partecipanti alla Comunità Europea nel 1980.
14
Le esigenze di una riforma fiscale sono riconducibili, oltre che alla ricerca di
neutralità fiscale e al riequilibrio della struttura finanziaria delle imprese, al
riallineamento delle aliquote legali alla media europea, volti ad una consistente
diminuzione del carico fiscale gravante sulle imprese; tutto questo mira al
contenimento della fuga di investimenti all’estero, dovuta alla crescente mobilità
della circolazione dei capitali, conseguenza a sua volta del tax planning delle
imprese, che provoca un trasferimento all’estero dei propri profitti e la
contemporanea attribuzione dei propri costi nel territorio italiano.
11
11
S.GIANNINI, M.C.GUERRA; Dove eravamo e dove siamo: Il sistema tributario dal 1999 al 2000,
La finanza pubblica rapporto 2000, L. Bernardi, Il Mulino, Bologna, 2000, pp.246 ss.