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Capitolo 2. La collisione fra sostenibilità nel diritto internazionale e sovranità
interna degli Stati
2.1 La natura giuridica dello sviluppo sostenibile
Nel capitolo precedente è emerso con chiarezza come il principio dello sviluppo
sostenibile sia ancora oggi in fase di formazione. Il carattere multiforme del principio e
l’ampiezza del suo campo d’azione, che si estende dal livello locale a quello globale, non
impediscono allo stesso di essere, in assoluto, il principio più importante del diritto
ambientale. Per questo motivo è fondamentale riflettere sulla rilevanza che il concetto ha
assunto nel contesto giuridico internazionale attraverso una codificazione del principio
dello sviluppo sostenibile nel diritto internazionale
90
.
Un aspetto interessante è rappresentato dal fatto che il concetto di sostenibilità si sia
evoluto, in primo luogo, a livello internazionale mediante la formulazione di principi
vaghi e indefiniti, la cui normatività è difficilmente individuabile anche a causa della forte
connotazione etica del principio
91
. Sono due le condizioni fondamentali dalle quali
dipende la natura giuridica di un principio: la sua portata giuridica e la sua penetrazione
all’interno di una delle fonti del diritto internazionale. È indubbio che perché una
proposizione abbia una natura legale debba avere una portata legale, ovvero produrre
effetti legali. La proposizione, affinché sia riconosciuta come norma positiva di diritto
internazionale, deve soddisfare tre requisiti essenziali: deve essere riconosciuta come
vincolante, come norma di diritto valida e, di conseguenza, deve essere emanata da una
delle fonti riconosciute del diritto internazionale.
La questione è complessa per diverse ragioni. Se da un lato la nozione di sviluppo
sostenibile ha trovato spazio, dal Rapporto Brundtland in poi, in diversi documenti non
vincolanti di portata internazionale
92
(non in grado di produrre una norma giuridica
internazionalmente riconosciuta in materia di sviluppo sostenibile), dall’altro lato la
grande coesione della CI nel riconoscere al principio notevole rilievo è dimostrata dalla
90
F. Fracchia, Cambiamento climatico e sviluppo sostenibile: lo stato dell’arte, in G.F. Cartei (a cura
di), Cambiamento climatico e sviluppo sostenibile, Torino, 2013, p. 15.
91
V. Rubino, op. cit., p. 210.
92
Si vedano, a tal proposito, le Dichiarazioni, i programmi d’azione, i Piani etc. citati nel capitolo
precedente.
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sua inclusione in più di 300 trattati internazionali (sebbene, come osservato da diversi
giuristi internazionali, il principio dello sviluppo sostenibile sia spesso espresso
all’interno del preambolo, che per natura non è vincolante).
L’aspetto più rilevante delle disposizioni in materia di sviluppo sostenibile contenute
all’interno di trattati internazionali vincolanti è la loro flessibilità: la loro formulazione è
spesso poco chiara e precisa, con la conseguenza di convertire le disposizioni in uno
strumento di appello più che in strumenti in grado di dar vita a norme di diritto
internazionale giuridicamente vincolanti. Rispetto a ciò, ci sono due differenti opinioni:
c’è chi ritiene che tali disposizioni, per via della loro flessibilità e morbidezza, non
possano effettivamente produrre norme giuridicamente vincolanti e chi, a sua volta,
considera la flessibilità degli obblighi previsti dalle disposizioni di un trattato come
irrilevante ai fini della sua validità e natura giuridica. Secondo quest’ultima corrente,
quindi, la flessibilità di diverse disposizioni convenzionali in materia di sviluppo
sostenibile non intacca la loro validità di proposizioni normative, permettendo loro di
imporre agli Stati, non di progredire integralmente in modo sostenibile, ma, piuttosto, di
promuovere la sostenibilità dello sviluppo. L’obbligo dello sviluppo sostenibile
diverrebbe così un obbligo di mezzi e, comunque, capace di conservare il proprio
carattere normativo
93
: questo, però, non sembra essere sufficiente a far sì che il diritto
internazionale sia in grado di dar seguito a quei cambiamenti indispensabili perché si
possa, nel futuro, parlare di sostenibilità dello sviluppo. Tale difficoltà è legata al fatto
che, ancora oggi, è in atto uno scontro tra la sovranità che gli Stati esercitano sulle risorse
naturali interne e l’esigenza di gestire globalmente le risorse ambientali. In questo senso,
solamente la possibilità di riconoscere l’esistenza di una regola giuridica consuetudinaria
in materia di conservazione e protezione delle risorse naturali e di analizzare la sua natura
giuridica potrebbe permettere al diritto internazionale di reagire rapidamente alla crisi
ambientale in corso
94
.
Secondo la cosiddetta concezione “dualistica”, sono due gli elementi che
caratterizzano questa fonte: la diuturnitas e l’opinio juris sive necessitatis
95
. Rispetto
93
V. Barral, op. cit., pp. 383-384.
94
Ivi, pp. 210-211.
95
Si ricordi che diversi autori hanno criticato la concezione “dualistica”. Essi hanno ritenuto che la
consuetudine sia costituita dalla sola prassi, in quanto ammettendo la necessità dell’opinio juris la
consuetudine poggerebbe sull’errore.
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all’elemento della diuturnitas è da considerare che il tempo di formazione della
consuetudine non conosce soluzioni chiare e definite. Nonostante il tempo possa essere
minore quanto più diffuso è un certo contegno tra i membri della comunità
internazionale
96
, l’elemento del tempo resta, di per sé, un fattore imprescindibile nella
formazione della consuetudine. Dal momento in cui, quindi, tanto più è diffuso un certo
comportamento tanto minore sarà il tempo necessario perché questo assuma il carattere
di consuetudine, l’opinio juris sive necessitatis si identifica come il criterio prioritario:
esso consiste nella diffusa convinzione che tale comportamento sia non solo moralmente
e socialmente ma anche giuridicamente necessario
97
. L’unico criterio possibile per
ricavare dalla prassi convenzionale una norma consuetudinaria che obblighi tutti gli Stati
consiste nel verificare l’esistenza dell’opinio juris
98
.
Nel dibattito accademico, alcuni considerano sufficienti le prove dell’opinio juris al
punto da riconoscere l’esistenza di una norma consuetudinaria, molti altri sostengono che
la rilevanza dello sviluppo sostenibile non si riscontri nella sua natura giuridica ma
nell’impatto che esso esercita sul diritto internazionale. Altri ancora, invece, ritengono
che lo sviluppo sostenibile non solo non abbia ancora raggiunto lo stadio di norma
consuetudinaria ma non sia, effettivamente, in grado di farlo: tra questi, Lowe rappresenta
il principale oppositore alla possibilità di raggiungimento dello statuto consuetudinario
da parte del principio dello sviluppo sostenibile. Egli ritiene, sulla base del presupposto
che i trattati e le disposizioni relative al principio sono prive di carattere normativo, che
il concetto di sviluppo sostenibile non sia capace di raggiungere lo status tanto di norma
diretta agli Stati quanto di norma atta a condizionarne il comportamento. Lowe, infatti,
nella sua ricerca rispetto al carattere normativo dello sviluppo sostenibile lo definisce
come meta-principio e non come norma consuetudinaria
99
. Secondo questa linea di
pensiero, la sostenibilità costituirebbe un concetto legale operante come norma
interstiziale ovvero come norma modificativa, volta a regolamentare il rapporto tra le
96
B. Conforti, M. Iovane, op. cit., cit., p. 43.
97
Ivi, cit., p. 40.
98
Ivi, p. 42-45.
99
V. Lowe, Sustainable Development and Unsustainable Arguments, in A. Boyle, D. Freestone,
International Law and Sustainable Development: Past Achievements and Future Challenges, in Oxford
University Press, 1999, p. 19.
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norme primarie (le norme che, a loro volta, regolano la condotta delle persone
giuridiche)
100
. In base a questa analisi lo sviluppo sostenibile non sarebbe altro che uno
strumento giudiziario ermeneutico, non vincolante, e incapace di regolare la condotta dei
soggetti giuridici
101
.
Al contrario, il fatto che non esista un obbligo generale di sviluppo sostenibile secondo
Virginie Barral non significa, necessariamente, che lo sviluppo sostenibile non trovi
riflesso nella consuetudine
102
. L’esistenza di un obbligo generale di promuovere lo
sviluppo sostenibile sarebbe, secondo questa visione, sufficiente ad elevare il principio
ad obbligo di mezzi piuttosto che di risultato, ponendo in secondo piano la questione
relativa alla natura giuridica del concetto.
René-Jean Dupuy giunge, addirittura, a ribaltare il tradizionale processo di
riconoscimento giurisdizionale della natura consuetudinaria dei principi: data la
particolarità del principio dello sviluppo sostenibile, egli ritiene si possa verificare se esso
soddisfi i requisiti consuetudinari in modo diverso. Se tradizionalmente la nascita di una
consuetudine deriva dalla costanza di una condotta da parte degli Stati, che porta a
ritenere che tale condotta sia divenuta obbligatoria, nel caso del principio in esame la
creazione di un “wild custom”
103
può derivare dalla convinzione degli Stati di creare una
nuova norma: in altre parole, gli Stati giungono prima a riconoscere l’esigenza di creare
la norma e poi a riconoscerne l’esistenza. Secondo Dupuy sarebbe, quindi, la frequente
adozione di norme simili in materia ambientale, volte ad uno sviluppo sostenibile, a far
assumere al principio il rango di consuetudine
104
.
L’unico modo, però, per dare una risposta definitiva rispetto alla natura giuridica dello
sviluppo sostenibile è quello di analizzare seguendo un approccio tradizionale il binomio
diututrnitas-opinio juris. Rispetto al primo elemento (la diuturnitas), sono due gli aspetti
che diversi studiosi hanno sottolineato: l’approccio disorganico nell’assunzione di
interventi in materia ambientale e l’eterogeneità d’approccio in materia di sostenibilità,
100
V. Barral, op. cit., 385.
101
In questo senso v. V. Lowe, op.cit., p. 24.
102
V. Barral, op. cit., p. 386.
103
Ivi, cit., p. 387.
104
Per maggiori considerazioni v. René-Jean Dupuy, Coutume sage et coutume savage, in La
communauté: mélamnges offerts à Charles Rousseau, 1974, p. 76.
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sintomo del comportamento autonomo dei singoli Stati. Rispetto a quest’ultimo punto,
tuttavia, bisogna anche riconoscere che se da una parte l’uniformità rappresenta un
requisito indispensabile per far sì che i precedenti costituiscano una pratica statale
rilevante, dall’altra l’assoluta complessità del principio richiede inevitabilmente
l’adozione di comportamenti diversi da parte degli Stati
105
.
In aggiunta, il tentativo di ricercare elementi di prova della diuturnitas nella
propensione degli Stati a collaborare nel concludere accordi internazionali sembra
insufficiente ad elevare la regola al rango di consuetudine. Se ne deduce, quindi, che i
trattati internazionali in materia ambientale siano eccessivamente vaghi e frammentati per
ricavarne una prassi generalmente riconosciuta. Inoltre, l’impatto degli accordi
internazionali in materia, pur considerandoli, per la maggior parte, trattati “normativi”
(volti a regolare il comportamento dei singoli Stati al fine di costituire una legislazione
internazionale comune) si limita a favorire il riconoscimento nel diritto internazionale
consuetudinario di limiti allo sfruttamento delle risorse naturali sulle quali gli Stati
esercitano la propria sovranità. I trattati in materia ambientale, in aggiunta, si limitano a
considerare la cooperazione internazionale finalizzata alla tutela ambientale come un
interesse comune dell’umanità, un common concern, senza, allo stesso tempo, elevare le
risorse naturali a global commons appartenenti all’intera razza umana
106
. Ciò che si
ricava, dunque, da questi presupposti è che il diritto internazionale non sia ancora in grado
di prevedere elementi materiali che moderino la sovranità interna degli Stati.
Rispetto all’elemento dell’opinio juris, risulta difficile relazionare l’obbligatorietà
dell’obiettivo della sostenibilità o la sua preminenza rispetto alla sovranità interna alla
partecipazione degli Stati alle Convenzioni internazionali in materia. La partecipazione
governativa, infatti, non è stata sempre sinonimo di cooperazione, come dimostrato dalle
lunghe trattative tra gli Stati e dalla mancata adesione di alcuni di essi. Da questo punto
di vista, se la Dichiarazione di Stoccolma del 1972 esprime l’effettiva convinzione degli
Stati a qualificare il suo contenuto, espresso in termini obbliganti, come giuridicamente
doveroso (un’opinio juris), il riconoscimento da parte degli Stati dell’esistenza di una
105
Per un’analisi più approfondita v. G. Grasso, Solidarietà ambientale e sviluppo sostenibile, tra
Costituzioni nazionali, Carta dei diritti e progetto di Costituzioni europea, in Politica del Diritto, pp.581-
608.
106
V. Rubino, op. cit., pp. 212-217.