6
CAPITOLO 1
SVILUPPO MORALE
1.1 QUADRO INTRODUTTIVO
Nel Medioevo l’idea di infanzia non era psicologica, ma giuridico-sociale e implicava il
concetto di subordinazione (le stesse parole designavano sia i bambini che i servi); il bambino
era infatti concepito come un adulto miniaturizzato (cfr. S. Tommaso in De Magistro).
Questo, però, solo a partire da una certa età. Lo svezzamento avveniva molto tardivamente,
anche dopo i due anni, e anche se in seguito il bambino era considerato autosufficiente e
inserito nella vita comune con gli adulti, almeno fino ai sette anni, non gli era riconosciuta
una vera attività mentale ed era ritenuto indifferente alla sessualità e irresponsabile (Ariès,
1960; de Mause, 1974; Wirth Marvick, 1974). Come si vede, l’infanzia veniva distinta sì dalla
maturità, ma in termini di difetto piuttosto che di qualità specifiche. Il concetto psicologico di
infanzia nel senso moderno, appassionatamente ed eloquentemente sostenuto da Rousseau, si
fa strada nei secoli XVII e XVIII e si afferma nel secolo XIX (Ariès, 1960). Si riconosce che
il bambino non solo ha specifiche esigenze, ma anche specifiche potenzialità di
autorealizzazione nei tempi e nei modi propri che gli adulti debbono favorire e non soffocare
con imposizioni, secondo i dettami della “pedagogia negativa”, simbolizzata dalla bella
metafora del Pestalozzi dell’educatore come bravo giardiniere che si limita ad avere cura della
pianta. Con il Romanticismo e il Positivismo evoluzionistico si concorre invece ad accreditare
un orientamento puerocentrico, che non consiste soltanto nell’annettere grande importanza
affettiva e sociale ai bambini e nel porre la massima cura nella loro educazione, ma ben di più
nel riconoscere la necessità di mettersi dal punto di vista del bambino (la scoperta
dell’infanzia) fino a recuperare come valore il mondo soggettivo infantile e la tipica attività
infantile, il gioco, in quanto attività liberatoria e creativa. In questo senso il poeta romantico
7
Wordsworth poteva dire che il bambino è il padre dell’uomo. Il XX secolo è stato
profeticamente chiamato da Ellen Key “il secolo del bambino”, in un libro pubblicato
nell’anno 1900. L’età evolutiva si è sempre più allungata ed è stata articolata in fasi sempre
più numerose. Queste differenze nel considerare l’età evolutiva dal Medioevo ai giorni nostri
è chiaramente anche in relazione alle straordinarie trasformazioni socio-economiche e
culturali occorse nella storia dei paesi occidentali. Certamente il sorgere delle scienze
dell’infanzia (pediatria, puericultura, psicologia dell’età evolutiva, neuropsichiatria infantile,
pedagogia), non sarebbe stato possibile se non si fossero costituiti una quantità di servizi e di
operatori specializzati per l’infanzia (ginecologi, pediatri, psicologi, psichiatri, assistenti
sociali, educatori, insegnanti) che avevano l’interesse, le occasioni e gli strumenti per
osservare i bambini e riflettere sulle loro osservazioni (Battacchi e Giovanelli, 1988).
Secondo Piaget (1975) la maturità funzionale dell’intelligenza (nella sua terminologia
stadio operatorio formale) si raggiunge nell’adolescenza. Tuttavia, vi sono sufficienti dati per
affermare che questo stadio non è necessariamente raggiunto nemmeno in età adulta e che può
essere raggiunto in certi settori specifici di applicazione del pensiero senza essere raggiunto in
altri (de Ribaupierre e Pascual-Leone, 1979). Questo fa pensare che lo sviluppo cognitivo non
dipenda unicamente dalla crescita di un’ipotetica capacità intellettuale, ma da molti fattori.
Per esempio, si è trovato che bambini con molte conoscenze specifiche per un’area, come ad
esempio quella artistica, superavano degli adulti che avevano invece scarsa familiarità (Chi,
1978).
Lo sviluppo cognitivo può infatti continuare nell’età adulta, in funzione dell’aumento di
conoscenze, dell’esercizio intellettuale connesso allo svolgimento di un’attività professionale
e della conseguente elaborazione di tecniche di lavoro mentale. Si può essere a questo
proposito anche più precisi. Horn (1982) ha individuato nei test d’intelligenza due tipi
principali di prestazioni intellettive: l’intelligenza fluida e l’intelligenza cristallizzata.
8
L’intelligenza fluida concerne i processi di base dell’elaborazione dell’informazione e della
soluzione dei problemi, come estrarre delle relazioni, mantenere il controllo cosciente dei
processi mentali, formare concetti astratti.
L’intelligenza cristallizzata non si differenzia per il tipo di attività cognitiva, ma per l’ambito
di applicazione, ambito cioè in cui l’individuo ha un’esperienza consolidata di conoscenze e
di procedure (esperienza culturale, istruzione scolastica, specializzazione professionale, ecc.).
Ora, entrambi i tipi di intelligenza crescono con l’età cronologica fin nell’età adulta ma,
mentre l’intelligenza fluida comincia a declinare a partire dagli anni centrali dell’età adulta
(con grande variabilità individuale), l’intelligenza cristallizzata continua ad aumentare per
tutto il corso dell’età adulta e anche di quella senile (Horn, 1982). Questa caratterizzazione
differenziale appare però troppo schematica. Se si considera infatti lo sviluppo cognitivo
come capacità di adattamento e non la si valuta unicamente mediante test intellettivi si trova
un miglioramento delle prestazioni nella maturità nei domini dell’intelligenza pratica e delle
abilità di rapporto sociale (Kramer, 1986).
Per quanto riguarda l’età senile, le caratteristiche dell’invecchiamento cognitivo sembrano
essere una riduzione della rapidità nei processi cognitivi, ma non necessariamente della
qualità dei risultati, e una restrizione della gamma dei processi mantenendo e talvolta anche
accentuando l’efficienza di quelli conservati (Cesa Bianchi, 1987).
Vi è poi una specifica dimensione dell’attività cognitiva, in cui la maturità è solitamente
raggiunta soltanto dopo l’adolescenza: nel giudizio morale, ovvero nella valutazione delle
azioni in base a criteri di valore. Già Piaget aveva osservato che, nel giudizio morale,
intelligenza e affettività debbono riunirsi. Lo sviluppo intellettivo continua passando
dall’intransigente applicazione rigorosamente logica di principi astratti, propria
dell’adolescenza, al giudizio più flessibile e problematico dell’età matura che tiene conto delle
conseguenze delle scelte nei singoli casi concreti (Gilligan e Murphy, 1979).
9
Secondo Piaget (1975), l’intelligenza, forma superiore dell’adattamento biologico, realizza
lungo lo sviluppo, attraverso i processi di assimilazione ed accomodamento, un equilibrio
sempre più plastico e sempre più stabile. Ciò significa che lo sviluppo comporta, per
l’individuo, la crescente capacità di compensare le perturbazioni, che provengono dalla realtà,
e di rispondervi in modo non rigidamente prefissato (Bonino, 2001).
Vi è una singolare disparità fra due discipline che riguardano il bambino: la pedagogia e la
psicologia dello sviluppo. Mentre la prima ha oltre duemila anni di storia, le prime ricerche
scientifiche sullo sviluppo psicologico hanno avuto inizio solo alla fine dell’Ottocento,
quando ci si è resi conto delle forti e precoci differenze che esistono fra individui, le quali
impediscono di generalizzare le esperienze personali (Petter, 2001).
Osservando i dati di una ricerca, l’americano G. Stanley Hall (1844-1924) fu il primo a
rendersi conto che il mondo mentale del bambino può essere assai diverso da quello
dell’adulto. Egli non osservava direttamente i bambini, ma si serviva di ricordi infantili di
adulti e di osservazioni raccolte da genitori e insegnanti, usando dei questionari che
distribuiva a questi collaboratori. Comunque questo metodo non garantiva l’attendibilità di
tali dati. In quel periodo un altro studioso, inglese, Francis Galton, pone il problema
dell’influenza da parte dei fattori ereditari e ambientali (Petter, 2001).
Lo studio del bambino compiuto in modo indiretto non caratterizza solo le ricerche dello
Stanley Hall: in forme un po’ diverse questa via fu seguita anche da altri studiosi, all’inizio
del Novecento. Di essi il più noto è certamente Sigmund Freud, il quale condusse i suoi studi
solo su soggetti adulti (Petter, 2001).
La constatazione dei limiti metodologici di queste ricerche indusse gli psicologi,
soprattutto nel periodo 1920-35, a utilizzare altri metodi, fondati su un rapporto diretto col
bambino. Uno fu quello del “diario”, steso quotidianamente osservando i propri figli o nipoti.
Le osservazioni compiute da Jean Piaget, sui suoi tre figli, riguardavano la genesi
dell’intelligenza senso-motoria, delle nozioni di oggetto, spazio, tempo e causa, e del pensiero
10
simbolico. Tuttavia riguardando uno o pochi soggetti portavano a risultati non generalizzabili;
inoltre, l’osservazione era possibile solo nei primi anni di vita, dato che in seguito il bambino,
frequentando la scuola, era esposto a sollecitazioni che l’osservatore non era in grado di
conoscere (Petter, 2001).
Un tentativo di superare questi limiti fu compiuto da Arnold Gesell, un allievo di Stanley
Hall, che con l’aiuto di osservatori ben addestrati, sottopose ad osservazione periodica alcune
decine di soggetti, seguendoli dalla nascita ai 16 anni, annotando i progressi compiuti nelle
varie aree (motricità, gioco, linguaggio, interazioni sociali, ecc.). Tuttavia ricerche fondate
sulla semplice osservazione, indiretta o diretta, permettevano solo una descrizione dei
comportamenti e del loro sviluppo, non una loro esplicazione, che ponesse in rapporto certi
comportamenti con certi fattori causali, o con altri comportamenti, o con processi maturativi
più generali. Questa esigenza di spiegare, e non più solo di descrivere le varie manifestazioni
della vita psichica infantile, ha indotto a introdurre via via la sperimentazione (Petter, 2001).
Una situazione sperimentale, permette di andare oltre la semplice descrizione di un
fenomeno e di formulare una spiegazione, in quanto rende possibile scoprire dei rapporti di
implicazione fra la presenza di certe condizioni (“variabili indipendenti”, che possono essere
controllate e anche manipolate dallo sperimentatore) e il prodursi di un certo effetto
(“variabile dipendente”). (Petter, 2001).
Tuttavia, la sperimentazione condotta in situazioni di laboratorio, ha suscitato, ad un certo
punto, preoccupazioni circa la validità dei risultati, anche nelle situazioni della vita reale,
quotidiana. Si è così venuto delineando, intorno al 1970, anche un indirizzo di ricerche di
etologia dello sviluppo, riguardanti soprattutto la prima infanzia, avviato dalla scuola inglese
di Bowlby, che ha preso in considerazione in special modo lo sviluppo affettivo precoce, i
legami di attaccamento, le conseguenze di una loro assenza o rottura. E si sono intensificati
gli studi che pongono in rapporto lo sviluppo cognitivo con quello sociale e con le condizioni
culturali e ambientali in cui esso si verifica (Petter, 2001).