1
1 Introduzione
1.1 I solfuri aromatici come inquinanti di carburanti e possibili
sistemi per la desolforazione
I composti solforati sono presenti nel petrolio greggio in un'ampia gamma di forme,
sia alifatiche sia aromatiche, concentrate nella parte pesante del greggio
[1]
. Per
soddisfare la domanda di carburanti per autotrazione, i processi di cracking catalitico
sono utilizzati industrialmente per convertire questi tagli pesanti di basso valore in
prodotti di alto valore (benzina e diesel), i quali devono sottostare ai limiti di legge
per quanto riguarda il contenuto di zolfo. Negli Stati Uniti d’America dal 2006 il
tenore di zolfo ammesso nei gasoli è di 15 ppm, mentre dal 2009, 10 ppm é quello
stabilito dalle norme europee
[2] [3]
.
I derivati del tiofene contribuiscono per più dell’80% allo zolfo totale contenuto nel
gasolio e il 70% di questi é composto da benzotiofene (BT) e dibenzotiofene (DBT).
[4]
Figura 1.1
Durante i processi di cracking, i principali composti solforati vengono rimossi
tramite processi di idrogenazione catalitica (idrodesolforazione, HDS). Il fine
principale della desolforazione è di ridurre le emissioni di biossido di zolfo (SO
2
),
che deriva dall’utilizzo di tali combustibili nei mezzi di trasporto, nelle centrali
elettriche a gas o a olio combustibile, nelle caldaie civili e industriali, e che provoca
in atmosfera il fenomeno delle piogge acide attraverso conversione ad acido
solforico.
Altra ragione per cui è necessario rimuovere i composti solforati dagli idrocarburi è
la facilità con cui i derivati dello zolfo possono avvelenare catalizzatori a base di
metalli nobili (platino e renio) che si trovano nelle unità di reforming catalitico,
utilizzate per aumentare il numero di ottano nella nafta. Infine, i composti solforati
possono determinare la corrosione di strutture metalliche (oleodotti e metanodotti).
2
In un’unità d’idrodesolforazione industriale di una raffineria, la reazione di
desolforazione avviene in un reattore a letto fisso ad alte temperature, comprese tra
300 e 400 ° C, e pressioni elevate che vanno dalle 30 alle 130 atmosfere, tipicamente
in presenza di un catalizzatore costituito da cobalto e molibdeno adsorbiti su
allumina (di solito chiamato catalizzatore CoMo). Occasionalmente, una
combinazione di nichel e molibdeno (chiamato NiMo) viene utilizzato, in aggiunta al
catalizzatore CoMo, per miscele difficili da trattare, come quelle contenenti un alto
livello di composti azotati. L'alimentazione di liquido viene pompato all’alta
pressione richiesta assieme ad un flusso di gas, ricco d’idrogeno di riciclo. La
risultante miscela gas-liquido viene preriscaldata passando attraverso uno
scambiatore di calore. L’alimentazione preriscaldata scorre attraverso un riscaldatore
a fiamma, dove la miscela viene completamente vaporizzata e portata alla
temperatura richiesta prima di entrare nel reattore e scorrere attraverso il letto fisso
di catalizzatore dove ha luogo la reazione di idrodesolforazione, con di rilascio di
acido solfidrico (H
2
S).
[5]
Schema 1.1 HDS del BT
Queste severe condizioni operative (idrogeno ad alta pressione, temperatura e
velocità di flusso elevate) riducono la durata di vita del catalizzatore, soprattutto se è
richiesto un sostanziale consumo d’idrogeno per l'idrogenazione di olefine e
aromatici al fine di raggiungere le specifiche fissate per i carburanti. Inoltre questo
processo di hydrorefining é efficace nella rimozione di tioli alifatici e disolfuri, ma la
sua efficienza è compromessa quando si tratta di tiofeni aromatici, dibenzotiofeni
soprattutto alchilati, che risultano stericamente impediti e di conseguenza più
refrattari all’HDS.
3
Inoltre, gran parte dello zolfo si trova nella benzina proveniente dal cracking
catalitico a letto fluido (FCC), la quale contiene circa 15-25% in peso di composti
olefinici che contribuiscono in modo significativo all’aumento del numero di ottani.
La saturazione delle olefine non solo riduce il numero di ottano della benzina, ma
aumenta significativamente il consumo di idrogeno e la pressione parziale di
idrogeno richiesta per raggiungere i limiti di zolfo residuo.
[6]
Pertanto, sostanze come dibenzotiofene, 4 – metildibenzotiofene e 4,6-
dimetildibenzotiofene diventano l’obiettivo principale nella rimozione di solfuri
inquinanti, quindi, per cercare di rientrare nelle rigorose specifiche in materia di
zolfo è necessario combinare nuove opzioni di processo con il convenzionale
processo HDS, in modo da arrivare ad una soluzione economicamente sostenibile ed
efficiente. Tra i possibili trattamenti troviamo la desolforazione ossidativa microbica
e la desolforazione chimica ossidativa. La desolforazione ossidativa microbica è
progredita in modo significativo e ha le potenzialità per essere implementata su
ampia scala, sebbene sia utilizzabile facilmente per combustibili solidi e sia limitata
dal lento processo di biodegradazione. La base di quest’approccio è di convertire
biocataliticamente i composti organici dello zolfo a solfossidi o solfoni
corrispondenti. In Figura 1.2 è riportata la sequenza di reazioni promosse dagli
enzimi desulfinasi contenuti nei batteri del ceppoo Rhodococcus.
Figura 1.2: Percorso metabolico per la desolforazione del DBT. Il DBT è desolforato a HBP tramite due
monossigenasi (DszC=DBT monooxygenase e DszA=DBT sulfone monooxygenase) e desulfinasi (DszB=2'-
idrossibifenil-2-sulfinato desulfinasi). Questo percorso richiede condizioni ossidative con l’aiuto della
flavina mononucleotide ridotta (FMNH
2
).
[7]
Un’interessante tecnologia alternativa per raggiungere le specifiche richieste è il
processo di desolforazione ossidativa (ODS), chiamato anche ossidesolforazione.
Composti di zolfo, essenzialmente quelli HDS-refrattari, come dibenzotiofeni,
4
vengono ossidati ai corrispondenti solfoni (Fig. 1.3), i quali possono essere rimossi
mediante estrazione. I composti di zolfo sono leggermente più polari rispetto agli
idrocarburi con simile struttura, pertanto i composti ossidati quali solfoni o
solfossidi, possono essere rimossi selettivamente dagli idrocarburi, tramite estrazione
con solvente (es: metanolo) o adsorbimento su fase solida.
[8]
Figura 1.3 DBT, DBTO, DBTO2
Questo processo combinato è in grado di rimuovere in frazioni di petrolio fino al
99% dei composti di zolfo con rendimenti accettabili; senza che il processo di
ossidazione abbia effetti deleteri sulle caratteristiche delle frazioni di distillati medi.
Più recentemente, lo sviluppo di tecniche di ossidazione ha determinato una
maggiore efficienza nella rimozione dello zolfo dagli idrocarburi. In genere, i relativi
processi comportano due fasi principali: nella prima fase, i composti contenenti lo
zolfo (presente nel carburante idrocarburico) sono ossidati da ossidanti quali
perossiacidi organici, idroperossidi con catalizzatori, perossiacidi inorganici o sali
perossidici. Nella seconda fase del processo, i prodotti ossidati (che sono più
polarizzati) possono essere facilmente estratti dal combustibile idrocarburico usando
un solvente polare.
[6]
Esistono anche esempi in cui è possibile utilizzare l’ossigeno molecolare come
ossidante
[9]
il quale è conveniente dal punto di vista economico, è facilmente
disponibile e non forma sottoprodotti. L’O
2
presenta però una barriera cinetica
(dovuta allo stato fondamentale di tripletto) e per tanto deve essere attivato
chimicamente (tramite catalizzatori o agenti sacrificali che formano radicali organici)
o fotochimicamente (con sensibilizzatori organici che promuovono la formazione di
ossigeno di singoletto) in modo da poter reagire con i substrati che generalmente si
trovano in stato di singoletto. Questa è la ragione per cui continuano a essere
convenienti anche altri ossidanti; oltre a quelli già citati, si riscontra l’uso degli ossidi
di azoto (NO, NO
2
, N
2
O
3
, N
2
O
4
, N
2
O
5
) combinati a solventi estraenti come
metanolo, dimetilformammide, butirrolattone.
[10]
Diverse ricerche riportano inoltre
l’uso di sistemi di desolforazione diversi dall’ODS, come ad esempio:
5
- trattamenti elettrochimici con elettrodi di platino;
- desolforazione mediante l’impiego di sodio, che porta alla formazione di
solfuri, e successiva rigenerazione elettrochimica dello stesso;
- trattamenti con solfidrati di metalli alcalini, con formazione di solfuri di
metalli alcalini e H
2
S;
- Impiego di H
2
SO
4
come desolforante
- Desolforazione per estrazione con BF
3
o SO
2
liquida
Tutte queste tecniche sono state testate senza prendere in considerazione i problemi
associati all’applicazione su larga scala, e al momento sono antieconomiche, nel
senso che non incrementano il valore del carburante sufficientemente da giustificare i
necessari investimenti di capitale.
[10]
Tra i catalizzatori più interessanti, per l’attivazione degli ossidanti di natura
perossidica, si trovano sia complessi solubili che ossidi solidi a base di metalli di
transizione d
0
.
[11].
Nel corso del lavoro di tesi, in particolare, sono stati utilizzati
complessi poliossometallati, dalle caratteristiche intermedie tra questi composti, e
che verranno presentati nei prossimi paragrafi.
1.2 Descrizione generale dei poliossometallati
Lo studio dei poliossometallati (POM) risale all’inizio del XIX secolo,
[12]
quando si
scoprì che molti metalli dei periodi iniziali della serie di transizione (come niobio,
vanadio, tantalio, molibdeno e tungsteno) in elevato stato di ossidazione
(configurazioni d
0
o d
1
), in soluzione acquosa a pH controllato e in particolari
condizioni di temperatura e concentrazione, possono formare osso anioni
polinucleari di dimensioni variabili fra pochi Å e alcune decine di nanometri.
[13] [14],
[15] [16], [17]
I POM possono essere classificati sulla base della loro composizione
chimica; riconducibile a due formule generali:
[18], [19], [20], [21], [22]
a. [M
m
O
y
]
p
b. [X
x
M
m
O
y
]
q
dove M è il metallo di transizione principale che costituisce il poliossometallato
(“addendo”), O è l’ossigeno e X può essere un altro metallo di transizione, un non
metallo come fosforo, silicio, arsenico o antimonio o un altro elemento del gruppo p.