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INTRODUZIONE
Le soluzioni ottiche comportamentali a scopo preventivo rappresentano al giorno d‟oggi
quello che in realtà dovrebbero essere normali metodi applicativi, delle normali
procedure di routine quotidiana o nell‟insieme, un qualcosa che meglio descrive il
rapporto con il sistema visivo e quello che in verità rappresenta, ovvero: non una
struttura a sé stante bensì un‟estroflessione del cervello.
Esse devono essere considerate nella risoluzione del deficit come il prodotto concepito
dalla pratica olistica e dall‟approccio funzionale, entrambi maturati negli anni grazie ai
contributi multi-disciplinari nell‟ambito delle ricerche psicologiche e fisiologiche, ma
soprattutto alla presa in considerazione, cosa impensabile per le vecchie filosofie
professionali, delle variabili socio-economiche e culturali (passo di notevole
autorevolezza) che possono essere coinvolte o influenzate dal deficit visivo stesso. Il
grado di attenzione che si deve avere nei confronti dell‟individuo nel suo insieme,
nell‟ambito dell‟approccio funzionale, è importante e indispensabile innanzitutto per
enfatizzare il ruolo della prevenzione e della rieducazione e per indirizzare il
trattamento al fine di ottenere un miglioramento della performance globale piuttosto che
il solo miglioramento dello stato di salute dello specifico organo.
L‟evoluzione e lo sviluppo delle varie scuole di pensiero, da quella empirista sino a
quella cognitivista, ha permesso lo svecchiamento di preconcetti dogmatici, messo in
discussione metodiche troppo ortodosse e fornito le conoscenze e i saperi che hanno
inciso maggiormente nel corso del tempo sulla concreta attività di coloro che si
occupano di processi visivi nei vari settori dell‟attività sociale, culturale e professionale;
tutto questo infine è culminato nel radicale cambiamento di vedute, punto decisivo
notevole che ha garantito l‟affermazione e la diffusione del modello Optometria
comportamentale.
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1. LO SVILUPPO DELL’OPTOMETRIA COMPORTAMENTALE E LA
PERCEZIONE VISIVA
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Oggi il processo della visione viene sempre più considerato come un continuum che
origina nell‟occhio e, attraverso i complessi meccanismi della neurofisiologia e della
neuropsicologia della percezione, si completa nel cervello; ciò mette in evidenza il
concetto fondamentale del cervello come vero organo della visione e la visione come
funzione non innata bensì appresa.
In un bambino appena nato sono presenti solo una serie di riflessi che devono
garantirgli la sopravvivenza: i riflessi innati. Inizialmente il cervello di un neonato
potrebbe apparire come l‟hard disk di un nuovo computer che contiene solo le
informazioni ad accendersi e rimanere in attesa di tutte quelle informazioni (software)
che gli consentiranno di funzionare come elaboratore. I suoi primi sei anni di vita sono
considerati fondamentali per il suo futuro sviluppo psico-cognitivo durante i quali
esperienze esplorative di tipo gustativo, olfattivo, tattile per il mondo prossimale e,
uditivo e visivo per l‟esplorazione del mondo distale, alimentano il cosiddetto
“software gestionale” del cervello affinché si vada incontro a un processo di
apprendimento e consolidamento dell‟azione. Procedura riferita a un mutamento nel
modo di comportarsi o di eseguire attività in conseguenza dell‟esperienza.
Tutte le caratteristiche e le capacità che una persona acquisisce e tutti i mutamenti che si
hanno con lo sviluppo risultano da due processi fondamentali che agiscono quasi
sempre in sinergia: l’apprendimento definito come il mutamento nel modo di
comportarsi o di eseguire attività in conseguenza dell‟esperienza, nel cui contesto gioca
un ruolo fondamentale la motivazione e il rinforzo che accelereranno il processo stesso;
la maturazione ovvero l‟elaborazione delle esperienze per assimilare e integrare
esperienze di tipo più evoluto. Essi sono il risultato dell‟elaborazione degli stimoli
afferenti integrati dalla percezione. La vita percettiva di un essere vivente è
assolutamente legata all‟azione, infatti il movimento è esso stesso apprendimento,
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Silvio Maffioletti, la professione optometrica: dalla verifica rifrattiva all’analisi visiva integrata, luglio-agosto
2009
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ovvero nel caso della visione apprendiamo a vedere attraverso un processo di
maturazione seguendo un lento percorso di apprendimento motorio e visivo.
La visione che nella fase più evoluta dello sviluppo del neonato prenderà il posto della
manipolazione per dare informazioni sull‟ambiente circostante, rappresenta il processo
d‟interpretazione e d‟integrazione di quello che si è visto con le informazioni che sono
state ricevute attraverso il tatto, l‟udito e il gusto al fine di garantire la partecipazione
visiva in ciascuna attività e di divenire il collegamento tra l‟attività e la comprensione.
Ogni volta che la visione è il meccanismo di guida per l‟azione del bambino, i suoi
movimenti visivamente diretti gli forniscono un‟esperienza più ricca di comprensione.
In sostanza la visione è dunque un processo intelligente di visualizzazione del
percepito dove:
Processo intelligente sta per decodificazione tramite i meccanismi evoluti della
mente;
Visualizzazione sta per costruzione mentale dello spazio oggettivo percepito
attraverso gli organi sensori periferici;
Percepito sta per espressione, in termini di vissuto soggettivo, del contatto
dell‟individuo attraverso gli apparati recettivi con l‟ambiente fisico.
Un importante contributo alla conoscenza dello sviluppo della visione è emerso dagli
studi del “Gesell Institute of Child Development” nel New Heaven. I suoi ricercatori
hanno svolto (attorno alla metà del Novecento) approfondite osservazioni circa lo
sviluppo della fissazione oculare, la capacità accomodativa e la funzione binoculare,
mettendo a punto nuove tecniche per la valutazione dello sviluppo visivo dei bambini e
sviluppando specifici regimi terapeutici per potenziare le capacità visive dei bambini
normodotati e per svilupparle nei bambini con ritardi o carenze.
I ricercatori del Gesell Institute hanno attribuito grande rilevanza agli aspetti motori
della funzione visiva e al ruolo della visione nello sviluppo delle funzioni motorie
generali e del comportamento complessivo. Le loro ricerche hanno rafforzato nel mondo
scientifico la consapevolezza che la visione rappresenta molto di più di un semplice
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sistema di raccolta di immagini con un funzionamento raffinato e complesso che non è
riducibile al diffuso e semplicistico modello che la paragona a una videocamera.
L‟uomo in ogni momento è il risultato psichico e biologico dell‟interazione tra più
elementi costitutivi che funzionano in maniera sincrona e collegata; in passato si sono
fronteggiati due modelli teorici che cercavano di spiegare l‟origine e la natura della
percezione e della conoscenza :
Il modello empirista
Il modello innatista
Gli empiristi sostenevano che non esiste conoscenza innata. Tutta la conoscenza si
realizza attraverso i sensi, lo sviluppo percettivo procede mediante l‟esperienza
associativa e, nel tempo, le associazioni tra le singole sensazioni grezze si trasformano
in percezioni dotate di significato. All‟interno dell‟approccio empirista, nel tempo, si
sono diversificate due linee di pensiero:
1. la prima è sintetizzata dal pensiero di John Locke (1632-1704), secondo il quale la
mente dell‟infante è una tabula rasa e soltanto l‟esperienza è alla base della sua
progressiva comprensione del mondo.
2. La seconda è espressa da William James (1842-1910) secondo il quale il mondo del
bambino è una terribile e rumorosa confusione che viene superata grazie all‟esperienza
che produce ordine e conoscenza.
L‟approccio empirista è evolutivo in quanto presuppone che i bambini dapprima siano
esseri percettivamente immaturi e divengano gradualmente più completi e organizzati.
Gli empiristi ritengono che la visione si sviluppi prevalentemente grazie all‟accumularsi
delle esperienze; attribuiscono quindi notevole importanza alle esperienze precoci
considerate la base delle future capacità del bambino. A tale quadro teorico fa
riferimento, per esempio, il modello dei <<Quattro cerchi di Skeffington>> (figura 1),
che descrive la visione come parte dell‟intero sistema d‟azione del corpo e sottolinea
come la qualità della visione del soggetto dipenda dallo sviluppo corretto e
dall‟interazione di tutti i suoi sottosistemi operativi che traggono impulso
dall‟esperienza. Nel modello dei Quattro cerchi di Skeffington gli aspetti essenziali della
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visione vengono gradualmente acquisiti dal bambino; la visione è appresa e rappresenta
un processo emergente dato dalla totalità delle esperienze dell‟organismo. Nella
definizione di Skeffington la visione viene utilmente scomposta in 4 sub sistemi
maggiori:
Figura 1 La zona 5 delineata dalla parziale sovrapposizione dei cerchi è quella che Skeffington
definisce Visione
Il processo antigravità (consapevolezza della propria collocazione all‟interno dello
spazio visivo; fornisce risposta all‟interrogativo: dove sono io?)
Il processo di centratura (l‟atto generale dell‟organismo di scelta e mantenimento
dell‟immagine di un qualsiasi oggetto presente nell‟ambiente; fornisce risposta alla
domanda: dov’è l’oggetto?)
Il processo di identificazione (la definizione e discriminazione di un‟immagine per
ottenere un dato che soddisfi l‟organismo; fornisce risposta alla domanda: cosa è
l’oggetto?)
Il processo verbo-uditivo (sub-sistema della visione che riguarda i concetti del
linguaggio e comprensione e concerne l‟uso della logica nella strutturazione della
risposta visiva).
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L‟approccio innatista, che ha avuto come capostipiti i filosofi Descartes (1596-
1659) e Kant (1724-1804), affermava che alcune categorie percettive sono innate
(grandezza, forma, posizione, movimento, spazio e tempo) e che, assai
precocemente, la mente trasforma le sensazioni in percezioni significative.
L‟approccio innatista non è evolutivo nei confronti dell‟origine delle abilità, ma lo è
nei riguardi del loro processo di maturazione. Nello studio della visione, gli innatisti
sottolineano gli aspetti presenti alla nascita, nei confronti dei quali l‟esperienza
realizza successivamente un processo di maturazione; per esempio, dato che le
forme vengono percepite fin dal momento della nascita come distinte dallo sfondo,
il bambino non deve imparare a discriminare le forme ma semplicemente deve
apprendere il loro nome. L‟immediatezza della percezione, che si esprime nella
capacità di cogliere il dato fenomenico nella sua totalità, unità e significato, sostiene
l‟approccio degli innatisti; essi accettano l‟idea che l‟esperienza possa giocare un
ruolo nei processi percettivi (orientando tali processi verso determinate direzioni)
ma negano che l‟esperienza possa influire sui processi di base. Il loro modello non
prevede uno sviluppo della visione realizzato unicamente attraverso l‟esperienza
motoria, sensoriale e di interazione con l‟ambiente, ma descrive un‟evoluzione di
caratteri visivi innati, già presenti alla nascita.
Alla fine del Novecento, dopo secoli di discussione, si è finalmente affermata un
modello meno schematico e dicotomico. Oggi si considerano interagenti gli aspetti
legati alla natura e quelli legati all’esperienza, con diverse possibili curve dello
sviluppo prima che intervenga l‟esperienza e con diversi modi possibili in cui,
successivamente, l‟esperienza può influenzare il funzionamento percettivo. Il
programma indicato dal DNA non è portatore di un unico esito evolutivo e per ogni
genotipo vi possono essere diversi esiti o fenotipi, che sarebbero il risultato delle
peculiari caratteristiche ambientali entro cui il genotipo si sviluppa.
I due modelli che all‟inizio del Novecento hanno maggiormente influenzato lo studio
della percezione visiva sono stati il Comportamentismo negli USA e la Scuola delle
Gestalt in Europa.
La scuola psicologica della Gestalt ha avuto origine nelle ricerche di Wertheimer, il
quale nel 1912 ha pubblicato i risultati degli studi (realizzati con l‟assistenza di Kohler e
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Koffka) relativi al fenomeno del movimento apparente. I Gestaltisti hanno ipotizzato
che la percezione fosse un processo suddiviso in due fasi:
1. Fase del processo primario, attraverso il quale l‟input sensoriale viene
trasformato nelle unità segregate che costituiscono gli oggetti fenomenici con le
loro caratteristiche di forma, colore, movimento, tridimensionalità. I teorici della
Gestalt hanno approfondito lo studio di questo processo, evidenziando che non si
limita a una registrazione passiva di stimoli ma va oltre, poiché l‟organizzazione
non è insita nella stimolazione ma è ciò che viene aggiunto dall‟organismo. In
questo processo si hanno fenomeni di completamento di lacune, integrazione,
totalizzazione.
2. Fase del processo secondario, attraverso il quale l‟input viene processato dalla
mente che va oltre l‟informazione data, rendendolo significativo per il
percipiente.
Gli studiosi della Gestalt hanno affrontato l‟esame dei principali fenomeni percettivi
con particolare attenzione a quelli visivi, studiando le leggi che presiedono
all‟organizzazione dei dati fenomenici, analizzando l‟articolazione figura-sfondo e i
fenomeni di reversibilità e fluttuazione, interpretando i contesti figurativi
percettivamente anomali come le illusioni ottico-geometriche e le configurazioni con
prospettiva reversibile. Essi sottolinearono la supremazia della struttura globale (non
intesa come significato, ma come organizzazione) sulle singole parti che la
compongono, un concetto sintetizzabile con l‟aforisma: “Il tutto è più della somma delle
parti” oppure, in modo più articolato, con: “Il tutto precede le parti, che assumono
significati diversi a seconda del tutto cui appartengono”.
Il Comportamentismo si è presentato pubblicamente con un articolo di Watson del 1913,
nel quale si è autodefinito come un settore sperimentale delle scienze naturali finalizzato
alla previsione e al controllo del comportamento. L‟oggetto di studio non è la mente,
definita una scatola nera, ma il comportamento osservabile e cioè l‟insieme delle
risposte muscolari o ghiandolari. Per spiegare il comportamento animale e umano, i suoi
studiosi ricercavano (più all‟esterno dell‟organismo, cioè nell‟ambiente, che al suo
interno) le catene causali di stimoli e risposte, considerandole come le unità minimali
del comportamento.