4
Premessa
Grazie soprattutto agli ultimi trent’anni di studi ed ai più recenti ritrovamenti, l’attuale
grado di conoscenza del ceppo linguistico osco-umbro, anche se con gravi –e a volte
insuperabili- lacune, è nettamente superiore a quello delle altre lingue dell’Italia
preromana, fatta eccezione per il latino ed il greco. Ormai è possibile non solo leggere
quasi perfettamente tutti gli alfabeti utilizzati dalle popolazioni dell’Italia centrale, ma
(soprattutto per quanto riguarda le testimonianze più recenti) il livello di comprensione
della lingua è nettamente superiore a quello dell’etrusco: ad un minor numero di testi a
disposizione (poco più di 2000 a fronte di 10000 e oltre)
1
si contrappone la possibilità di
uno studio etimologico e dell’applicazione del metodo comparativo per la pertinenza al
ceppo linguistico indoeuropeo. La struttura sintattica delle iscrizioni, inoltre, è spesso
talmente simile a quella del latino che non di rado il confronto con il formulario latino ha
fornito indicazioni preziose per la comprensione della funzione e della destinazione delle
iscrizioni
2
. Per le lingue più antiche, come il cd. “sudpiceno”, non esiste ancora una
traduzione precisa ed univoca di una parte dei termini, ma si conosce la sfera semantica di
molte parole, sebbene sfugga, in molti casi, il senso complessivo dei testi.
Da tempo si è giunti alla conclusione che tutte le lingue di questo gruppo (compresi il
sabino ed il sudpiceno, nei confronti delle quali si nutrivano dubbi, giungendo a postulare
fantasiosi confronti con il germanico e perfino con l’illirico
3
) sono pienamente
indoeuropee, strettamente imparentate tra loro ed ascrivibili al raggruppamento italico
(tav. I): è stato pertanto possibile ricostruire, sebbene spesso a grandi linee, la
distribuzione geografica e cronologica delle evidenze, ma –fatto più rilevante- anche
utilizzare questo insieme di dati per integrare quelli archeologici ed ampliare così in modo
sensibile la comprensione dei fenomeni etnici, socio-politici ed economici pertinenti alle
popolazioni di riferimento.
Questa grande quantità di nuovi dati si è a sua volta sovrapposta a quella, più scarna,
fornita dalle fonti degli autori classici latini e greci; è solo dagli anni ’70 del ‘900 che è
stato possibile ridimensionare il portato degli scritti di Livio, Strabone, Plinio, Dionisio,
1
Tale era il dato trasmesso in LEJEUNE- BRIQUEL 1989; da allora non c’è stato un sensibile aumento
delle testimonianze, mentre molte sono state le riletture e riscoperte.
2
Soprattutto –come si vedrà nella sezione dedicata alle epigrafi di epoca ellenistica e romana- quando è
presente un formulario fisso, di ambito sacrale o pubblico; in questo senso sono state di grande aiuto le leges
sacrae di Gubbio, di Rapino (CH) e di Bantia.
3
Cfr. il paragrafo successivo.
5
Varrone, Festo (per citare solo i più importanti), che in precedenza erano pressochè le
uniche fonti di informazioni sulle popolazioni italiche orientali prima della conquista da
parte di Roma
4
, nel caso più fortunato con uno scarto di uno o due secoli. Alcune delle
testimonianze di questi storici ed eruditi hanno invece trovato piena conferma attraverso le
scoperte archeologiche e l’epigrafia.
È insostituibile, per la ricostruzione della storia complessa dell’Italia preromana –e
soprattutto per la definizione dei processi di sviluppo sociale, politico ed economico-
l’aiuto che può provenire dal dato epigrafico e linguistico; ma soprattutto è indispensabile
inserire coerentemente tali dati nell’insieme organico, in senso tanto sincronico che
diacronico, che sembra profilarsi. Questo perché si fa sempre più strada la convinzione che
non abbiamo a che fare con gruppi di popolazioni imparentate tra loro alla lontana, ma con
un gruppo che tutti gli elementi –archeologici, epigrafici, linguistici, geografici, con la
conferma delle fonti storiche e mitistoriche in latino ed in greco- concordano per definire,
almeno in origine, unitario.
In questo lavoro si tenterà di delineare, soprattutto attraverso i dati epigrafici, il ruolo
delle popolazioni stanziate nell’attuale Abruzzo in quella che è stata definita koiné
centroitalica
5
: la connessione linguistica dei gruppi umani – di cui un’eco è rappresentata
dall’utilizzo, ancora in pieno V sec. a.C., dell’etnico safino-
6
nella valle del Vomano - e gli
aspetti della lenta e continua evoluzione, i cui estremi sono documentati epigraficamente
tra il VII e il I secolo a.C., che porta alla diversificazione progressiva dei caratteri e delle
lingue dei popoli locali (Sabini, Marsi, Marrucini, Peligni, Vestini, Frentani; saranno
riservati degli accenni ai documenti pertinenti a popoli strettamente imparentati, quali i
Picenti, gli Equi, i Volsci e i Sanniti Pentri e Carecini) che, al momento della conquista
romana, occupavano parte del territorio poi compreso nella Regio IV augustea, e che oggi
appaiono, al contrario che in passato, frutto di una trasformazione, di cui è possibile
seguire le tappe, senza soluzione di continuità.
4
Molte glosse e notizie linguistiche sono trasmesse da Varrone, attraverso autori più tardi. Notizie relative
all’ethnos sabino ed agli stanziamenti di popolazioni picene, discendenti dei sabini, si trovano in Plin, Nat.
Hist. III, 18, 110-112; Zenod. apud Dion. Hal. II, 48-49. Altri riferimenti specifici alle fonti antiche saranno
forniti di volta in volta, soprattutto per quanto riguarda Livio, Strabone e Festo. Per una visione d’insieme
delle conoscenze sulla lingua è ancora indispensabile il già citato LEJEUNE- BRIQUEL 1989.
5
Cfr. BONOMI PONZI 1996.
6
LA REGINA 1986; MARINETTI 1985 b. Tale definizione ha suscitato perplessità, ma non bisogna
omettere il fatto che si tratta di un’auto-definizione ed ha quindi molta più autorevolezza e credibilità di
qualsiasi altra.
6
Storia delle scoperte e degli studi
Lo studio delle comunità stanziate nell’Abruzzo odierno prima della conquista romana,
sia dal punto di vista archeologico che linguistico ed epigrafico, è una disciplina
relativamente recente. Come si è accennato, anche gli storici romani e greci si erano
interessati a questo territorio, ma sempre in ottica “romanocentrica” (Livio, Dionisio di
Alicarnasso, Virgilio nell’Eneide), con ampio uso di materiale attinto dalla mitologia,
oppure con interesse per lo più etnografico e geografico (Plinio, Strabone); spesso i
racconti di commentatori e storici di epoca tarda (Festo, Gellio) risentirono profondamente
di quest’ottica, traendo le proprie informazioni proprio dagli autori più antichi.
Eruditi e storici, inoltre, tra cui il più importante è Varrone, hanno tramandato dati
molto esigui circa la lingua, le cosiddette “glosse”, traduzioni di singole parole dalle
lingue italiche in latino. Queste, e alcuni nomi propri –osci, soprattutto- riportati dagli
stessi eruditi come provenienti dall’ambito teatrale
7
, hanno rappresentato, fino al XVIII
secolo, l’unica fonte abbastanza attendibile sull’argomento.
Una conoscenza effettiva delle popolazioni definite dai Romani “sabelliche” è riuscita
a progredire, molto spesso, grazie alle riscoperte, che hanno permesso, in tempi
recentissimi, di riconsiderare in un’ottica più scientifica (e soprattutto non viziata da
pregiudizi) materiali e documenti già conosciuti da lungo tempo.
Ritrovamenti di oggetti ed iscrizioni in territorio abruzzese, infatti, sono documentati
fin dal XVI secolo: Michelangelo Buonarroti trasmise la notizia di un elmo iscritto
rinvenuto a Canosa (BA)
8
, ma molto spesso queste scoperte non ricevevano l’adeguata
attenzione o davano origine ad idee errate.
Tale fenomeno si intensificò dopo il 1700, con il generale risveglio dell’interesse per
l’archeologia, che però fu focalizzato, soprattutto all’inizio, sul mondo classico ed in
misura marginale su quello etrusco; per questo motivo eruditi come Scipione Maffei
(XVIII sec.) e Luigi Lanzi (XIX sec.), pur trasmettendo preziose notizie sui materiali
ritrovati, non riuscirono a dare un’adeguata impostazione al problema degli italici, che
vennero considerati genericamente un “sottoprodotto” degli etruschi, quando non ne venne
ipotizzata una provenienza esterna (germanica o illirica).
7
LEJEUNE-BRIQUEL 1989, pp. 435- 436.
8
MARINETTI 1985b, p. 254.
7
Quest’ultima ipotesi, definita “invasionista”, ha mantenuto il suo prestigio fino al
pieno XX secolo, avallata da personalità quali C. Pauli
9
ed E. Pais (fine ‘800), che
propendevano per l’illiricità della cultura “picena” (termine che includeva anche le
manifestazioni del territorio abruzzese). Persino i primi abbozzi di traduzione del
sudpiceno (l’iscrizione del Guerriero di Capestrano, quella di Crecchio, alcuni cippi dalle
province di Ascoli Piceno e Macerata) ad opera di F. Ribezzo (1935) ed E. Vetter (1943)
risentono in maniera decisiva del pregiudizio rispettivamente “etrusco” e “germanico”.
Lo stesso Ribezzo, in seguito (1950), ebbe il merito di smentire la tesi dell’invasione
illirica, postulando l’esistenza di un “sostrato mediterraneo” comune alle due sponde
dell’Adriatico; continuò comunque a sostenere che, in un’area “così arretrata”, qualsiasi
forma d’arte, per prima la statuaria in pietra, poteva spiegarsi solamente con un massiccio
influsso esterno, la cui fonte individuò nell’Etruria. Ciò ha influenzato pesantemente anche
la considerazione del valore dell’arte italica, in particolare nell’ambito degli studi storico-
artistici, sulle manifestazioni sabelliche, se nel 1965 G. Becatti, in L’Arte dell’età classica,
dà ancora un giudizio molto negativo circa la scultura medio-adriatica (allora
rappresentata dal solo Guerriero di Capestrano)
10
, mostrando una totale incomprensione
per il valore comunicativo di una forma che si discosta profondamente tanto dallo stile
classico quanto da quello etrusco, per il tipo di messaggio veicolato e per l’effettiva
modalità di trasmissione di esso.
Oltre a questa lunga serie di sviste e pregiudizi, però, alcuni archeologi, storici e
linguisti hanno dato un contributo notevole ad una più equilibrata considerazione del
problema, non di rado con intuizioni poi confermate a distanza di secoli.
È il caso di Melchiorre Delfico (inizi ‘800), che fu il primo storico ad avanzare
l’ipotesi che i popoli sabellici fossero di origine autoctona
11
; Niccolò Palma (1777-1840);
Domenico Guidobaldi (1811-1902), che illustrò il cippo di S. Omero e le epigrafi di
Bellante (TE) e fu anche uno dei primi a segnalare l’esistenza di un kardiophylax, “disco-
corazza” (su tale categoria di reperti, da allora, si avanzarono le ipotesi più disparate,
considerandoli di volta in volta cerchioni di ruota o morsi per cavalli) nel territorio di
Civitella del Tronto (TE)
12
. Importanti contributi in quell’epoca provennero da Felice
9
PAULI 1891.
10
BECATTI 2000, p. 154.
11
DELFICO 1824, soprattutto pp. 6- 21.
12
DELFICO in NotSc 1876, pp. 90-91.
8
Barnabei (1842-1922), Concezio Rosa (1824-1876), che esplorò la valle del fiume Vibrata
ed il villaggio preistorico di Ripoli, e, nel chietino, Vincenzo Zecca (1832- 1915).
Decisivi per la conoscenza della storia di questo territorio, e per lo sviluppo successivo
delle ricerche, furono gli scavi condotti ad Alfedena e Corfinio (AQ) da Antonio De Nino
(1836-1907), che può essere considerato il fondatore dell’archeologia moderna in
Abruzzo. Al De Nino si deve l’introduzione delle metodologie di studio dei contesti che,
nelle loro linee essenziali, sono tuttora valide, ed una quantità impressionante di scoperte e
pubblicazioni (più di 400); ebbe anche intuizioni notevoli circa la reale funzione dei
dischi-corazza e –fatto ancor più degno di nota- comprese per primo l’importanza dei
centri fortificati nell’assetto del territorio.
Un non trascurabile impulso fu quello che offrì alla linguistica, in particolare alla
conoscenza del peligno, come egli stesso annotò
13
.
Le necropoli di Vasto e Villalfonsina (CH) furono esplorate a fondo da Innocenzo
Dall’Osso tra il 1910 e il 1914. Il primo a pubblicare i materiali di Villalfonsina (1935)
14
fu G. Moretti, che curò, subito dopo la scoperta (1934), anche la pubblicazione della statua
di Capestrano (1936). In questi stessi anni iniziò l’esplorazione della necropoli di Comino
presso Guardiagrele (1913), ad opera di F. Ferrari.
Nonostante i notevoli progressi già compiuti, nel periodo tra le due guerre le ricerche
subirono un arresto, fatta eccezione, appunto, per la scoperta –di importanza senza pari-
della statua di guerriero da Capo d’Acqua presso Capestrano (PE) e per l’inizio
dell’esplorazione a Villamagna (CH); a causa dell’estrema rilevanza dei risultati di queste
operazioni, nel 1939, fu istituita la Soprintendenza Archeologica degli Abruzzi, diretta da
G. Annibaldi. Ulteriori scavi furono aperti solo dopo la fine della guerra, a Pretoro (CH).
Tentativi di quegli anni di sistematizzare le conoscenze sui popoli sabellici e sannitici
furono compiuto da G. Devoto (Gli antichi italici, 1956) e, tempo dopo, da E. T. Salmon
(Samnium and the Samnites, 1967), mentre una silloge linguistica fu tentata da Vetter
(Handbuch der italischen Dialekte, 1953)
15
, seguito da V. Pisani (Le lingue dell’Italia
antica oltre il latino, 1953). Alla luce delle attuali conoscenze, però, tutte queste opere
hanno una pura importanza storica e sono ormai superate come tipo di impostazione e
13
DE NINO 1906.
14
Benché molti materiali siano ancora inediti, come osservato in FAUSTOFERRI 2003, è opportuno
menzionare la pubblicazione di una parte di essi, allora nel Museo di Ancona, in PAPI 1979.
15
Molto tempo dopo Paolo Poccetti pubblicherà le nuove iscrizioni non comprese nella raccolta di Vetter:
POCCETTI 1979.
9
come effettivo contenuto di dati: proprio dopo quegli anni, infatti, si verificò una ripresa
repentina dell’interesse tanto per l’archeologia che per la linguistica in questo territorio e
portò a risultati che avrebbero modificato in modo irreversibile la prospettiva sulla
protostoria abruzzese.
La svolta decisiva, con cui l’archeologia abruzzese acquisì una sua autonomia
scientifica ed in cui notevoli scoperte e studi, anche linguistici ed epigrafici, permisero di
impostare in modo sostanzialmente corretto la base delle attuali cognizioni sui popoli
sabellici, si ebbe dopo il 1959, anno dell’istituzione del Museo Archeologico Nazionale di
Chieti, a cura del soprintendente V. Cianfarani, in carica dal 1947; egli si adoperò
alacremente per il rientro dei reperti smistati nelle altre regioni e condusse scavi ad Alba
Fucens, Sepino, Amiterno e Sulmona (AQ). Collaboratori di Cianfarani furono A. M.
Radmilli, che esplorò i maggiori siti preistorici abruzzesi, e G. Leopardi, che si concentrò
sulle necropoli vestine di Loreto Aprutino e Montebello di Bertona (PE).
Tra le scoperte più significative di quegli anni si possono annoverare le sculture in
pietra di grandi dimensioni, o i frammenti di esse, da Guardiagrele (CH), Rapino (CH),
Atessa (CH), Collelongo (AQ), Pallano (CH), che hanno permesso di stabilire che la statua
di Capestrano non è un unicum ma si inquadra in una forma artistica peculiare dell’area
adriatica (successivamente è stato rinvenuto un ulteriore frammento di statua, la cosiddetta
“testa di Manoppello”); notevoli inoltre furono i risultati degli scavi, che fino a tutti gli
anni ’70 interessarono pressoché unicamente le necropoli, e che portarono a comprendere
come in epoca orientalizzante ed arcaica le società abruzzesi avessero carattere
aristocratico e guerriero, con un’élite nelle cui mani si accentravano ricchezza e potere, e
con un grado di complessità ed articolazione interna prima insospettati.
Si giunse a sintesi di grande interesse, quali la mostra Antiche Civiltà d’Abruzzo, del
1969, che però si limitava ad illustrare un ambito cronologico ristretto (VII-V sec. a. C.),
senza prospettare una continuità con le epoche precedenti e successive; alcune intuizioni
erano non prive di fondamento, quali l’impronta inconfondibilmente locale della statuaria
di grandi dimensioni, di cui già venivano abbozzati dei possibili lineamenti evolutivi, che
hanno trovato recente conferma
16
.
Sensazionale ricaduta sulla considerazione di tale tipologia monumentale, ma ancor
più per gli studi linguistici e per la considerazione dell’evoluzione politica e sociale, ebbe
16
COLONNA 1992; COLONNA 2007.
10
la scoperta nel 1973, nel territorio del comune di Penna S. Andrea (TE), di tre stele litiche,
di cui due mutile, figurate e con lunghe iscrizioni, poi riconosciute come esempi della
stessa lingua e dello stesso alfabeto –anche se in una fase successiva di circa un secolo-
dell’iscrizione della statua di Capestrano e di una serie di altri cippi e stele iscritti, il cui
areale di provenienza si estendeva dalle province di Macerata ed Ascoli Piceno ai territori
vestino e marrucino.
Vennero proposte diverse nomenclature per indicare la lingua di tali iscrizioni: A.
Marinetti, la principale studiosa italiana di tale argomento, introdusse una denominazione
convenzionale su base geografica, “piceno”, distinto nel “nordpiceno” di Novilara e nel
“sudpiceno” di queste ultime epigrafi; questa è tuttora la posizione più condivisa, ma
genera una perplessità perché accomuna due realtà che –come si è compreso- non hanno
nulla a che vedere l’una con l’altra, né per lingua ed alfabeto, né come cultura materiale.
Altre proposte furono il neutro “medio-adriatico” di A. Morandi e il “paleosabellico” o
“safino” di A. La Regina, che ha il pregio di inserire queste manifestazioni epigrafiche in
una prospettiva di continuità geografica e storica con il sabino da un lato ed il sannita
dall’altro.
Nel 1974 il Morandi pubblicò una silloge, Le iscrizioni medio-adriatiche, la prima
dedicata all’argomento specifico dell’epigrafia arcaica abruzzese e picena; tuttavia una
reale decodificazione di questa singolare scrittura, che permise anche di propendere
definitivamente per l’italicità della lingua, venne compiuta solo nel 1978, ad opera di A.
La Regina, in una scheda di Culture adriatiche antiche d’Abruzzo e Molise dedicata al
Guerriero di Capestrano. Grazie alle stele di Penna S. Andrea, lo studioso riuscì a
comprendere il valore di alcune lettere in precedenza non decifrate, e propose
un’interpretazione tuttora discussa ed al centro di dibattiti accesi. Il dato fondamentale,
tuttavia, era ormai chiaro: tutte le lingue dell’area compresa tra il fiume Esino a nord (con
l’esclusione del novilariano), l’estremo meridione del Molise e il Tevere ad occidente,
erano italiche ed indoeuropee, ed anche il sudpiceno era finalmente stato riconosciuto
come tale.
Un considerevole progresso, per studiosi come A. La Regina, fu, da quel momento in
poi, la possibilità di fare luce sull’evoluzione sociale e politica dei popoli sabellici: se
come sostenuto dal La Regina la statua di Capestrano (VI secolo a.C.) raffigura e nomina
un re (dato su cui ancora oggi non vi sono certezze assolute) e le stele di Penna S. Andrea,
11
insieme ad altre iscrizioni di V secolo, riportano menzioni di magistrati e i nomi dei popoli
e delle civitates (touta-) da cui essi hanno ricevuto il potere, le iscrizioni trasmettono la
testimonianza di un’evoluzione della società in senso “democratico” o almeno
“repubblicano”. La menzione delle touta- accompagnate dall’etnico, inoltre, è stata messa
in relazione con l’acquisizione progressiva di autoconsapevolezza da parte di queste
società.
Successivamente, gli studi di G. Colonna ed A. Morandi su altre eccezionali
testimonianze –il cippo di Cures (Fara Sabina, RI) e le iscrizioni campane
“protosannitiche”- obbligarono i linguisti a porre al centro del dibattito il problema della
ridefinizione delle lingue italiche in rapporto al sabino. Quest’ultimo fu affrontato a più
riprese da A. Marinetti (in una tesi del 1979, poi ampliata nell’edizione definitiva de Le
iscrizioni sudpicene, pubblicata nel 1985, ed in articoli del 1981 e del 1984) ed A. L.
Prosdocimi, in vari interventi (La lingua tra storia e cultura, intervento nel convegno
Sannio del 1984; Lingua nella storia e storia nella lingua, del 1987); ulteriori
approfondimenti sull’alfabeto e sulla lingua, pubblicati sulla Guida archeologica Abruzzo-
Molise (1984) e sulla rivista Documenti dell’Abruzzo teramano, sui reperti di Penna S.
Andrea si devono ad A. La Regina (1986), che si è occupato anche e soprattutto del
significato della presenza di etnici e menzioni di cariche istituzionali nelle iscrizioni di
territori ed epoche diversi.
Gli studi del linguista tedesco H. Rix, che si dedicò a più riprese nel corso di decenni
(fino al 2002) al problema più generale del ceppo osco-umbro, hanno avuto
importantissimi risultati per una comprensione più sistematica dell’evoluzione e dei
contatti tra le lingue e soprattutto nello studio delle iscrizioni più antiche (VII sec. a.C.)
provenienti dalla Sabina. Ciò nonostante hanno alimentato un dibattito, di carattere
strettamente linguistico, tra posizioni opposte: una, dello stesso Rix, secondo cui il sabino
ed il sudpiceno avrebbero tratti “umbroidi” (egli stesso definisce tali lingue come
“paleoumbre”) e una di A. Marinetti, per cui –in prospettiva esattamente opposta- è
l’umbro che partecipa di tratti sabini, poiché il sabino è la lingua-madre più antica di tutto
il gruppo.
Al momento della sintesi di M. Léjeune e D. Briquel (1989) Lingue e dialetti
dell’Italia antica, il quadro linguistico su tutto il territorio italiano era già abbastanza
definito: nello specifico, all’interno delle lingue “italiche orientali” si distinguevano ormai
12
nettamente i due grandi gruppi, settentrionale (comprensivo di umbro, sudpiceno, sabino e
dialetti minori) e meridionale (osco, sannita ed occasionali manifestazioni più meridionali,
con tratti comuni perfino in Sicilia
17
). Le differenze erano considerevoli, a cominciare
dall’alfabeto; tuttavia queste lingue –o singoli tratti di esse- erano state già riconosciute
come italiche. Il merito di aver approfondito l’interrogativo su cosa si intenda per “italico”
e quale ne è la marca inconfondibile spetta ad A. L. Prosdocimi
18
.
Restavano comunque degli interrogativi: le testimonianze epigrafiche più arcaiche,
come il sabino ed il sudpiceno, ad un certo punto sembravano estinguersi (il sabino già nel
VI secolo a.C., il sudpiceno a fine V); seguiva un periodo di vuoto apparente, della durata
di almeno due secoli, nel settentrione, mentre nell’area meridionale la produzione in
alfabeto sannitico manteneva una sua continuità; nel II secolo a.C., invece, riapparivano in
tutto il settore piceno, sabino ed abruzzese, iscrizioni in grafia latina ed in una lingua che
sembrava profondamente diversa da quelle arcaiche. Un altro problema è rappresentato,
tuttora, dalle modalità e dai tempi della latinizzazione della lingua dopo il II secolo a.C.
I successivi contributi archeologici di V. D’Ercole sui siti preistorici, sul popolamento
e sui relativi materiali, di R. Papi sulla protostoria e in particolare sui contesti funerari e
sul problema dei dischi-corazza, e di G. Grossi sugli insediamenti e la topografia nonché
sul periodo del contatto tra gli Italici e Roma (a cominciare dal volume Antica terra
d’Abruzzo pubblicato nel 1990), hanno messo in luce come alla coesione linguistica
corrisponda quella culturale e come le facies archeologiche riscontrate in diverse aree e
corrispondenti a diversi periodi storici –ora non ricostruite solo a partire dallo studio delle
necropoli, ma grazie ad analisi topografiche territoriali e ricerche in abitato
19
-, al di là
delle differenziazioni locali, segnalino un’evoluzione omogenea del popolamento e della
civiltà sul territorio, con molteplici influenze esterne, soprattutto etrusche, latine, greche e
magno-greche ed anche provenienti dall’Europa centrale. Tali influssi però non
impediscono l’espressione autonoma ed originale della cultura locale, che ha come
caratteristiche peculiari da una parte il rituale funerario a inumazione in tumulo o tombe a
circolo con corredo, dall’altra il sistema insediativo basato sui centri fortificati d’altura
(nelle iscrizioni indicati con il termine okri-) a controllo di un territorio.
17
MARCHESE 2006, pp. 60-61.
18
PROSDOCIMI 1979 e 1984.
19
Il contributo più notevole di quegli anni alla ricerca sugli abitati e sui sistemi insediativi è in GROSSI
1995.