2
quali questioni e quali implicazioni esso sollevi, soffermandoci in
particolar modo nell’ambito strettamente penale.
Ciò che compete in primo luogo al medico-legale è la diagnosi
differenziale tra morte naturale e violenta e in particolar modo tra
omicidio e suicidio. Se infatti nel suicidio consumato esiste un fatto
obiettivo ed indiscutibile che è la morte, la valutazione circa la
ascrivibilità di questa a suicidio o a disgrazia risulta in certi casi molto
difficile ed i casi dubbi, non raramente, rimangono tali per mancata
esecuzione di approfondite indagini medico-legali, “indulgendosi ad
etichettature di comodo per ragioni religiose o di costume”.
1
Altre questioni di interesse medico-legale e giuridico di cui ci
siamo occupati sono i delitti di istigazione all’altrui suicidio e di
omicidio del consenziente ed il suicidio come conseguenza del reato di
maltrattamenti.
A ciò aggiungiamo la possibilità di dissimulazione nei confronti
dei suicidi per opera di persone che, per interessi familiari e più spesso
assicurativi, attribuiscono la morte di un determinato soggetto ad una
causa patologica comune (problema questo che tra l’altro ridimensiona
notevolmente il reale significato e la validità delle statistiche) e, non da
ultimo, il problema dell’accertamento della imputabilità del soggetto che,
dopo avere compiuto un omicidio, abbia tentato il suicidio.
Degne di rilievo sono inoltre le questioni relative alla necessaria
distinzione tra tentativi teatrali di suicidio e tentativi genuini e alla
eventuale responsabilità professionale del medico.
1
PORTIGLIATTI BARBOS, Manuale di Medicina Legale e delle Assicurazioni,
vol.II, p.1171, Vallardi, Milano, 1976.
3
Anche in materia civile e soprattutto assicurativa il medico legale
è chiamato a volte ad esprimere il suo parere su quesiti attinenti al
suicidio. Si pensi al problema della validità del testamento del suicida,
alla eventuale dichiarazione di inabilitazione o di interdizione nei
confronti di soggetti che abbiano ripetutamente tentato il suicidio, e
soprattutto al suicidio dell’assicurato compiuto prima del termine di
franchigia.
§.2 E’ molto difficile tentare di dare una definizione di ciò che si
intende per suicidio e se andiamo a vedere quanto è stato detto in
letteratura ci accorgiamo che il comportamento suicida è suscettibile di
rappresentazioni e spiegazioni molto diverse tra loro.
Secondo E.Durkheim, autore nel 1897 del più importante saggio
mai scritto sull’argomento - Le suicide, ètude de sociologie - “si chiama
suicidio ogni caso di morte che direttamente o indirettamente debba
essere ricondotto a un’azione o a un’omissione della vittima, la quale
conosceva in anticipo il risultato del proprio comportamento”.
2
Questa ampia definizione, al contrario di quella dell’Halbwachs
secondo la quale si chiama suicidio ogni caso di morte che deriva da un
atto compiuto dalla stessa vittima con l’intenzione di uccidersi e che non
sia sacrificio, permette quindi di considerare suicidio non solo l’atto
disperato, personalmente motivato e non sanzionato dalla società, ma
anche l’autouccisione ammessa da una determinata cultura, ad esempio
appunto il sacrificio della propria vita per un bene ritenuto di maggiore
valore.
2
E.DURKHEIM, Il suicidio, studio di sociologia, p.168, Biblioteca Universale
Rizzoli, Milano, 1987.
4
Ad ogni modo una definizione di suicidio può valere unicamente
agli scopi prefissati dall’indagine che si intende intraprendere e sarà di
conseguenza diversa a seconda che il fenomeno venga affrontato
prevalentemente sotto il suo aspetto sociologico, statistico, religioso,
psichiatrico, giuridico, medico... .
Sotto il profilo medico-legale, che a noi interessa più da vicino, il
suicidio è la morte dell’uomo
3
conseguita ad una sua azione od
omissione indirizzata a tale specifico fine. Il tentativo di suicidio si ha
invece quando, indipendentemente dalla volontà dell’autore, la morte
non si è verificata.
Questo tipo di qualificazione ci permette quindi, da una parte, di
distinguere il suicidio dall’omicidio e dall’evento accidentale ma,
dall’altra, non fa differenza rispetto al suicidio degli alienati e alla morte
per sacrificio. Ovviamente sul piano della valutazione psicologica ed
etica del fenomeno sarà necessario considerare separatamente il suicidio
quale sintomo morboso di una vera e propria malattia mentale, quello dei
soggetti almeno apparentemente normali e quello eroico od altruista di
chi sceglie di morire per un particolare e nobile valore.
Nel concetto di suicidio da noi delineato non rientrano però i casi
di morte causata indirettamente, in virtù cioè dell’omissione volontaria
di una azione volta a conservare la vita (ad.es. la morte per anoressia) o
del compimento di una azione che abbrevia la vita stessa
4
e la ragione di
3
Nella nostra definizione si parla quindi solamente di “atto umano” escludendo in tal
modo dalla discussione quei fenomeni che si verificano tra gli animali altamente sviluppati e
che potrebbero essere interpretati come suicidio. Si pensi al caso delle balene che muoiono
perchè si lasciano trascinare in acque poco profonde e che potrebbe ricordare alcune
particolari forme passive di suicidio nell’uomo, anche se non è stata scientificamente provata
una identificazione tra le due condotte.
4
K.A.Menninger considera, a tal proposito, l’alcoolismo una forma di suicidio
parziale che viene praticato per evitare una autodistruzione ancor più grave.
5
ciò risiede soprattutto nel fatto che, dal punto di vista della tecnica di
rilevazione, si incontrerebbero delle difficoltà insuperabili.
5
§.3 Nella seconda parte della ricerca abbiamo cercato di toccare con
mano la reale entità del fenomeno del suicidio fornendo, in primo luogo,
un contributo statistico relativamente all’andamento di esso e alle sue
caratteristiche nella città di Milano nel decennio compreso tra il 1989 e il
1998 e occupandoci, in secondo luogo, di quanto è stato fatto e
soprattutto di quanto si può ancora fare, a livello preventivo, per
diminuire la diffusione di un comportamento che peraltro risulta essere
da sempre presente in ogni tipo di società.
Dal punto di vista statistico ricerche di questo tipo certamente non
mancano e sono proprio l’enorme quantità di queste unitamente alla loro
diversità di impostazione e di risultati gli indici delle difficoltà che
l’analisi del fenomeno comporta; un fenomeno tipicamente individuale
ma inscindibilmente legato a variabili di natura sociale.
Ovviamente la difficoltà se non addirittura l’impossibilità di capire
fino in fondo l’atto del suicidio si ripercuote negativamente sulla
possibilità di prevenirlo, tenendo conto inoltre del fatto che in questo
caso, a differenza che in altri settori della patologia, si può raramente
contare sulla diretta collaborazione del soggetto interessato il quale
frequentemente dissimula il suo stato patologico lottando con astuzia nei
confronti di chi cerchi di dissuaderlo dal commettere tale gesto
autolesivo.
5
Si pensi al caso-limite dell’incidente automobilistico provocato con intenzione
suicida.
6
Risulterà a tal fine necessario sviluppare una rete organizzativa in
grado di sottoporre immediatamente ad indagini psico-sociali, in ambito
ospedaliero o fuori da esso, chi ha cercato il suicidio, anche nei casi in
cui si tratti di soggetti assolutamente normali il cui gesto risulti essere la
logica (o quasi) conseguenza di tragiche circostanze.
7
CAPITOLO PRIMO
IL SUICIDIO NELLA STORIA
1.1: Linguistica del suicidio; 1.2: Il suicidio presso i popoli
antichi; 1.3: Il suicidio nel mondo greco; 1.4: Il suicidio nel
mondo romano; 1.5: Il suicidio nel diritto canonico e nelle
consuetudini medioevali; 1.6: La depenalizzazione della morte
volontaria.
1.1: Linguistica del suicidio
La morte volontaria è presente da secoli presso tutti i popoli del
mondo ed è oggi universalmente affermato che non è esistito periodo
nella storia in cui essa non si sia manifestata.
Nonostante ciò il fatto di darsi la morte, che noi indichiamo con il
termine ”Suicidio”, ha avuto molto tardivamente una sua precisa
connotazione linguistica e per un lungo periodo di tempo lo stesso
concetto venne espresso in modi diversi: ”autothanatos” (autouccisione)
di Plutarco, ”thanatao” (desiderio di morire) di Platone, ”interremptor”
(uccisione) di Seneca, “mors voluntaria” di Cicerone, “autocheiria” (il
gesto di chi si uccide di proprie mani). In alcuni casi, per esempio nella
lingua ebraica, esso non aveva alcuna espressione tipica e il termine
generico impiegato era quello di “uccidere se stesso”.
1
Secondo alcuni il termine “Suicidium” che, nonostante la sua
1
D.DE MAIO, Il suicidio: compendio storico, clinico-casistico, biologico e
8
chiara assonanza latina, non è di origine romana, sarebbe stato impiegato
per la prima volta dall’abate gesuita Pierre Francois Guyot Desfontaines
nel 1737, adottato da Voltaire nel 1739 nel saggio ”Suicide” (anche se,
secondo molti studiosi, l’origine del termine andrebbe fatta risalire
proprio a quest’ultimo), ed inserito nel Dizionario Francese nel 1752.
Secondo altri invece, in particolare il Daube, il termine in questione
sarebbe stato coniato per la prima volta da W.Charleton nel 1668, e solo
successivamente adottato dal Desfontaines.
2
In Italia si trova per la prima volta la parola “Suicidio” nel 1761
nell’opera “Historia sul suicidio” di Agatopisto Cromaziano ma è
soltanto con la pubblicazione del “Suicidio” di E.Morselli nel 1879 che
il termine in questione entra definitivamente a far parte della letteratura
scientifica.
3
1.2: Il suicidio presso i popoli antichi
Per quanto riguarda le manifestazioni della morte volontaria
presso i popoli più antichi è opportuno, innanzitutto, distinguere il vero e
proprio suicidio da manifestazioni tradizionali, politiche, sociali o
religiose tramandatesi di gens in gens, che vanno fatte rientrare nel
concetto di eutanasia. Il sacrificio dei vecchi e degli inabili era infatti una
consuetudine consacrata dalla tradizione (vedi gli scritti di Erodoto in
particolare) che portava a riconoscere al suicidio un senso di necessità e
di utilità per la società.
4
terapeutico, p.1, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1997.
2
L.TOMASI, Suicidio e società: il fenomeno della morte volontaria nei sistemi
sociali contemporanei, p.45, Franco Angeli Libri, Milano, 1989.
3
D.DE MAIO, op.cit., p.5.
4
D.PALAZZO, Il suicidio sotto l’aspetto psicopatologico, sociale e giuridico, p.9,
Ed.Jovene, Napoli, 1953.
9
Fatte queste premesse non possiamo che confermare quanto detto
nel paragrafo precedente, il fatto cioè della presenza di tale fenomeno,
pur con implicazioni diverse, già presso i popoli più antichi e remoti.
Ovviamente più andiamo a ritroso nel tempo, meno sono le possibilità di
accertamento vista la scarsa conoscenza della vita di quelle genti.
Possiamo affermare però con certezza l’enorme presenza,
nell’antichità, di suicidi collettivi e di stampo religioso e la quasi
irrilevanza del fattore economico tra le cause di questi.
5
In linea generale comunque la tendenza era verso una non
opposizione al suicidio, specialmente negli stati orientali e, in particolar
modo, in India, dove era radicato il costume della vedova che si
suicidava per seguire il marito morto, e nel Tibet ed in Cina dove si
distinguevano due tipi di suicidi: quello di chi tendeva alla perfezione e
quello di chi fuggiva davanti al mondo. Era inoltre diffuso, pressoché in
tutti i popoli primitivi, il suicidio impiegato come mezzo per
ricongiungersi con la persona morta.
Fra gli antichi popoli soltanto gli Ebrei avevano una assoluta e
generale riprovazione del suicidio e, nonostante la scarsità di esempi, si
apprende dallo storico Giuseppe Flavio che era prevista la negazione
della sepoltura per il suicida.
6
Anche lo stesso E.Durkheim, autore dell’importantissima opera
già citata in precedenza, richiamandosi alla sua analisi del suicidio
altruistico (tipico, secondo questi, delle società arcaiche e più integrate),
è concorde nel ritenere probabile una certa tolleranza del diritto antico
verso la morte volontaria, basandosi però, a parere del Marra, su un
5
F.CICCIMARRA, Autokiria: il suicidio nella storia del diritto, p.16, Officina di
Arti Grafiche, Bari, 1903.
6
L.TOMASI, op.cit., p.34.
10
materiale etnografico incerto e frammentario (in particolare un articolo
di R.Steinmeitz del 1894).
1.3: Il suicidio nel mondo greco
La civiltà greca ha sempre ritenuto illegittimo il suicidio in quanto
considerato “atimia”, ossia atto ingiusto nei confronti della polis;
l’individuo-cittadino era considerato parte integrante della società a cui
non poteva ne doveva sottrarsi e il suicidio poteva essere effettuato senza
conseguenze infamanti solo a condizione di essere preventivamente
autorizzato dalle magistrature pubbliche (il “rimedio” era un veleno che
i magistrati stessi fornivano al suicidando).
Fonti attendibili a favore dell’effettiva esistenza di una tale forma
di autorizzazione statale sono poche e le incertezze riguardano anche
l’eventuale estensione di tale regola al di fuori della città di Atene. La
notizia ci giunge, in primo luogo, da un’opera del 1885 di G.Garrison il
quale però, a detta del Marra, non si basa sulla considerazione di norme
accertate della legislazione ateniese, ma si limita a riportare le riflessioni
morali dei due maggiori filosofi del tempo: Aristotele (Etica
Nicomachea), per il quale la condanna morale del suicidio discende dal
principio della subordinazione e della appartenenza del cittadino allo
Stato e Platone
7
(Leggi) che lo ammette solo in certi casi e a certe
condizioni
8
.
Sempre a favore della tesi di una possibile autorizzazione statale al
suicidio sono un’opera di K.A.Geiger del 1888, un testo di Libiano e
7
R.MARRA, Suicidio, diritto e anomia: immagini della morte volontaria nella
civiltà occidentale, p.22-26, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1987.
8
Quando si ha una disposizione naturale al crimine, per prevenire una giusta e
meritata condanna pubblica, per sottrarsi ad un evento doloroso e ad una grave vergogna.
11
delle testimonianze di Valerio Massimo ma in realtà notizie certe si
hanno solo con riferimento all’isola di Ceos e alla colonia greca di
Marsiglia.
Prendendo come vere queste affermazioni, possiamo dire che la
civiltà greca vieta il suicidio perché atto contro una società integrata ma,
poiché la società è il tutto, essa stessa attraverso il suo organo più
autorevole può derogare alle norme generali concedendo, per motivate
ragioni, il “permesso” di suicidio.
La Città-Stato inoltre negava al suicida la cerimonia della normale
sepoltura, la mano del cadavere veniva tagliata, bruciata e sepolta altrove
probabilmente come simbolo della scissione tra individuo e società.
9
In realtà quest’ultima usanza non è da considerarsi una vera e
propria sanzione repressiva quanto una misura preventiva generatasi dal
sentimento popolare di timore e di ripugnanza verso il suicidio ed avente
come fonte esclusiva le superstizioni popolari sulla trasformazione delle
anime dei suicidi in spiriti maligni (così che infierire sul corpo di chi si è
ucciso è, in qualche modo, una misura precauzionale per neutralizzare
questa entità negativa ed impedire che essa si diriga contro i viventi). Ad
ogni modo risulta chiaro che il suicidio era considerato una colpa grave,
il suicida veniva sotterrato da solo in luogo non sacro, abbandonato e
privo di onori funebri, senza nemmeno il nome sulla tomba.
10
Accanto alle scuole di pensiero che, come abbiamo visto,
condannavano, in linea di principio, il suicidio (Aristotele in primo
luogo), numerose e significative erano anche le dottrine che adottavano
una posizione più tollerante (gli Stoici)
11
, se non addirittura apertamente
9
D.DE MAIO, op.cit., p.24.
10
R.MARRA, op.cit., p.25.
11
La filosofia stoica rivendica di fronte alle avversità della vita il diritto di porre fine
12
favorevole (i Cinici), e che al pari delle prime influenzeranno le
concezioni morali successive.
Suicidi eccellenti nel mondo greco furono quelli di Socrate (con la
cicuta), Diogene (autosoffocamento), Temistocle (avvelenamento),
Epicuro (taglio delle vene), tutti, peraltro, ”accomunati da una certa
nobiltà di ispirazione”.
12
Possiamo infatti sostenere come presso il popolo greco il suicidio,
nonostante la sua ritenuta illegittimità e il frequente ricorso a macabri
rituali, in realtà più per superstizione che per altri motivi, fosse
sostanzialmente ritenuto atto di coraggio dettato dalle più nobili ragioni
possibili (dolore, patriottismo o per evitare il disonore) e ciò a conferma
della notevole influenza che talune concezioni e taluni filosofi
esercitavano sulla mentalità popolare.
1.4: Il suicidio nel mondo romano
Anche nel mondo romano l’accettazione del suicidio ha incontrato
più sostenitori che oppositori.
Le XII tavole, le prime vere e proprie leggi di Roma, ”non
contenevano sicuramente alcuna disposizione contraria al suicidio”
13
; di
conseguenza, il diritto in questione era quello dei pontefici (prescrizioni,
quindi, a carattere religioso) e l’unica sanzione prevista, il divieto di
sepoltura, si applicava soltanto ai suicidi per impiccagione.
14
alla vita stessa, con la più alta consapevolezza e moralità. La vita appartiene agli adiaphora,
ai beni indifferenti, la cui qualità dipende dal modo in cui sono vissuti; la sua durata è senza
importanza in quanto tutto stà nel valore e nella intensità di questa.
12
A.ALVAREZ, Il Dio selvaggio, p.66, Rizzoli Editore, Milano, 1975.
13
R.MARRA, op.cit., p.34.
14
Tarquinio Prisco, il quinto re di Roma, condannò alla crocefissione tutti coloro che
si suicidarono per sottrarsi ai faticosi lavori di canalizzazione di Roma; in realtà, anche in
questo caso e allo stesso modo di quanto abbiamo visto accadere nel mondo greco, tale
13
Questo modo di suicidarsi infatti, tipico delle classi inferiori della
società romana, era considerato infamante e, per tale motivo, le classi
superiori ne provavano una vera e propria ripugnanza.
15
In onore però
dei morti impiccati, privati di sepoltura, era stata istituita una festività, la
Parentalia, in occasione della quale, come rito espiatorio e momento di
purificazione, venivano appese delle figurine a ricordo di coloro che si
erano impiccati.
Se il diritto romano antico quindi non prevedeva alcuna
repressione della morte volontaria, allo stesso modo il diritto sacerdotale,
prescrivendo per un solo tipo di suicidio talune operazioni rituali,
adottava in realtà delle precauzioni di natura magico-religiosa e non
delle vere e proprie misure repressive.
Altre modalità suicidarie a cui i Romani ricorrevano più o meno
frequentemente erano: l’avvelenamento, tipico soprattutto degli uomini e
presente in tutte le classi sociali, stante la relativa facilità a procurarsi il
veleno; l’inanizione, preferito dai soggetti deboli e malati;
l’abbruciamento e, più raramente, l’annegamento e la precipitazione.
16
Tipici inoltre della società romana erano i suicidi indiretti, che si
realizzavano con l’aiuto di un’altra persona, in genere uno schiavo o in
caso di necessità un gladiatore, spesso ignara del ruolo cui era destinata.
Frequenti erano anche i suicidi reciproci, in auge nel periodo delle
guerre civili e nei primi tempi della Repubblica, che avevano la forma di
un duello in cui il sopravvissuto si sarebbe dovuto trafiggere sul corpo
pratica non costituiva tanto una sanzione contro i suicidi, quanto un espediente per ispirare
alle plebi superstiti, servendosi dell’orrore religioso suscitato dal suicidio per impiccagione,
il disgusto e la vergogna per quanto sarebbe capitato loro in caso di suicidio (i cadaveri
venivano, infatti, esposti al pubblico e dati in pasto agli avvoltoi).
15
Ai figli di coloro che si erano dati la “morte con il laccio” venne attribuita
l’espressione di filius homini suspensi.
16
D.DE MAIO, op.cit., p.45-48.
14
dell’avversario.
17
Secondo alcuni, Durkheim in primo luogo, la legislazione romana
più tarda, fino all’Impero, avrebbe consentito il suicidio, analogamente a
quanto abbiamo visto succedere in Grecia, solo previa autorizzazione
dello Stato, ”che precisava anche il tipo di morte
18
”. In realtà
Quintiliano, dalla cui opera giunge la notizia in questione, non dice nulla
sulla reale esistenza a Roma di tale istituzione e a conferma di ciò non ne
troviamo traccia né nel Codice ne’ nel Digesto.
19
In base a degli scritti di Valerio Massimo e soprattutto a
consistenti tracce nel Digesto, risulta invece che al tempo della
Repubblica si affermò il principio secondo il quale il suicidio di un
imputato, nel corso di un processo e prima della condanna definitiva,
comportasse, come ogni morte, l’estinzione del reato. Di conseguenza
veniva meno anche ogni possibile sanzione, compresa la confisca dei
beni, pena accessoria eventualmente prevista per il delitto
precedentemente commesso dall’imputato e che, a seguito del suicidio di
questi, andava a produrre i suoi effetti sui suoi successori.
Tale regola venne però presto modificata e, in seguito alla entrata
in vigore della augustea lex Julia de maiestate, fu stabilito che solo il
suicidio consumato prima dell’inizio della azione penale poteva garantire
all’imputato di evitare la confisca dei beni consentendo in tal modo la
successione ordinaria. Al contrario, il suicidio messo in atto prima della
sentenza ma ad azione penale già iniziata, avrebbe dato luogo al
medesimo risultato, a meno che il giudizio in corso avesse riguardato un
delitto di alto tradimento (crimen perduellionis), inteso come azione
17
D.DE MAIO, op.cit., p.44-45.
18
E.DURKHEIM, op.cit., p.172.
19
R.MARRA, op.cit., p.41.
15
militare o colpo di Stato, o un delitto di lesa maestà (crimen maiestatis).
In questo caso, infatti, il processo sarebbe proseguito regolarmente
nonostante la morte dell’imputato
20
ma ai parenti era comunque data la
facoltà di difendere l’accusato come se fosse stato ancora in vita,
conservandone l’eredità o meno, a seconda che la sentenza finale fosse
stata di assoluzione o di condanna.
21
Ulteriore e necessaria condizione per una eventuale confisca dei
beni dell’imputato suicida era che questi si fosse suicidato allo scopo
manifesto ed esclusivo di evitare la condanna e tale circostanza doveva
essere accertata con un procedimento ad hoc.
22
In presenza dunque di tutte queste condizioni, il suicidio
dell’imputato assumeva le sembianze di una sorta di confessione del
reato commesso e, come tale, e non in quanto crimen, poteva dare luogo
alla confisca dei beni.
Risulta chiaro come il delitto del suicidio, nel diritto romano,
avesse un “carattere strettamente economico”
23
;esso, infatti, non era
considerato una offesa alla moralita’ o alla religione ed era perseguito
solo nella misura in cui poteva portare nocumento alla Repubblica, allo
Stato, al fisco o ad altri.
A conferma di ciò è sufficiente ricordare le altre disposizioni, in
materia, presenti nel Digesto giustinianeo.
20
In realtà la lex Julia de maiestate prevedeva soltanto la prima eccezione; furono
l’arbitrio imperiale, le esigenze del fisco e in certi casi anche la necessità di ricompensare gli
accusatori, a spimgere verso simili deviazioni alla legge. Peraltro si ha notizia di un suicida
imputato di perduellio cui venne risparmiata, nella sentenza, la confisca dei beni.
21
A.ALVAREZ, op.cit., p.71.
22
I motivi, riportati nel Codice e nel Digesto, validi ad escludere la confisca dei beni
erano:il disgusto della vita, il dolore fisico e la malattia, l’afflizione per la perdita di una
persona cara, la vergogna per un debito insolvibile, il desiderio per una morte gloriosa, la
pazzia e la demenza. Ovviamente la confisca era possibile solo se era prevista come pena
accessoria alla sanzione stabilita per il reato commesso dall’imputato.