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Introduzione
Le scienze cognitive hanno dimostrato come la memoria sia un fenomeno
dinamico e largamente ricostruttivo che consta di diversi processi (percezione,
codifica, immagazzinamento e recupero) su ciascuno dei quali possono agire fattori
di distorsione cognitivi, emotivi, relazionali e culturali. Tra tali fattori di distorsione
del ricordo, un ruolo centrale è giocato dal livello di suggestionabilità del testimone.
Lo studio della suggestionabilità ha interessato gli studiosi già dal secolo scorso:
Binet, Stern, Varendonck, Lipmann e MacDougall furono tra i primi ad approcciarsi
a questa tematica. Successivamente Gudjonsson ha concettualizzato un tipo
particolare di suggestionabilità strettamente legata ai contesti interrogativi, la
suggestionabilità interrogativa (Gudjonsson e Clark, 1986), costruendo uno
strumento in grado di fornirne una sua misura oggettiva: la Gudjonsson
Suggestibillity Scale1 (GSS1), strumento principale utilizzato all’interno del presente
lavoro.
Il presente lavoro di tesi, pertanto, prende spunto dagli studi di questi e di altri
autori, con il duplice obiettivo di esplorare le proprietà psicometriche della GSS1
(Gudjonsson, 1984), osservarne la relazione esistente tra queste e quelle della scala
della versione italiana per verificarne l’affidabilità e osservare la relazione esistente
tra i punteggi di suggestionabilità interrogativa, così come misurati dalla GSS1, e i
punteggi di intelligenza ottenuti con la somministrazione delle Advanced Progressive
Matrices (APM Raven, 1969), ipotizzando, in linea con la letteratura esistente, la
presenza di una correlazione negativa tra i due costrutti (Gudjonsson, 1983).
La volontà di approfondire tali tematiche nasce dal bisogno di ampliare la
riflessione scientifica sulla complessità e la multidimensionalità della testimonianza
(specie quando essa riguarda la rievocazione di eventi traumatici) e cercare di
mettere appunto validi strumenti che possano aiutare gli esperti in questo complicato
e delicato lavoro.
Il presente lavoro si propone di offrire una rassegna di studi scientifici in
tema di rievocazione del ricordo ponendo l’attenzione sui molteplici fattori
(individuali o contestuali) che possono suggestionare in qualche modo il testimone.
Questi temi sono stati oggetto di discussione negli ambienti scientifico-professionali
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della psicologia giuridica sia internazionali (si vedano le recenti Guidelines on
Memory and the Law della British Psychological Society, 2008), che nazionali (come
ad esempio le recenti Linee Guida Nazionali sulla Testimonianza del minore,
6.11.2010). Il lavoro è pertanto diviso in due parti: una prima parte teorica ed una
seconda parte, sperimentale, in cui troverà ampio spazio la descrizione della ricerca.
Il primo capitolo si propone di dare una definizione globale di cosa sia la
memoria mettendo insieme le teorie più autorevoli che hanno cercato di spiegare il
suo funzionamento a partire dalle prime teorizzazioni sulla Memoria a Lungo
Termine di Tulving (1972) e sulla Working Memory di Baddeley e Hitch (1974), per
arrivare alle più recenti definizioni di cosa sia e come funzioni, invece, la Memoria
Autobiografica. L’ultima parte di questo capitolo è invece dedicata all’influenza che
le emozioni possono avere sulla memoria dell’uomo e quindi sulla sua capacità di
rievocazione di eventi passati. Proprio quest’ultimo fondamentale tema viene
approfondito nel secondo capitolo, dove si è cercato di definire cosa sia il processo
testimoniale e quali siano i molteplici fattori ai quali prestare attenzione nel momento
in cui ci si avvicina a raccogliere una testimonianza, specie se ci si trova in un
contesto giuridico. A tale proposito verranno descritte le principali cause di
distorsione del ricordo e le tecniche che possono ridurre tali fonti d’errore. Il terzo
capitolo è interamente incentrato sul problema della suggestionabilità e cerca di
spiegare quali sono i diversi fattori individuali e situazionali che possono rendere la
persona più suscettibile alla suggestione, sostenendo come spesso è l’incontro
particolare tra determinate caratteristiche del testimone, dell’intervistatore e della
situazione d’intervista a determinarla. Presenta altresì una spiegazione dettagliata
dello strumento utilizzato all’interno di questa ricerca (la GSS1), sottolineando come
possa essere un valido strumento d’ausilio nei contesti psico-forensi. Nel quarto
capitolo verranno presentati i dati, così, ottenuti con le relative interpretazioni.
L’originalità di questo lavoro sta proprio nell’aver utilizzato per la prima
volta su un campione italiano, normale, vasto ed eterogeneo, uno strumento in grado
di fornire una misura oggettiva di suggestionabilità, infatti, il presente studio si
inserisce all’interno di un lavoro più ampio di validazione della Scala di Suggestionabilità di
Gudjonsson nel contesto italiano.
LA MEMORIA
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CAPITOLO I
La memoria
1.1 Linee teoriche generali
La memoria è quella capacità cognitiva di ognuno di noi che ci permette
di conservare informazioni di varia natura per poterle, al momento del bisogno,
rievocare. Una definizione più operativa la intende come il susseguirsi di tre fasi
successive (Eysenck, 2006):
1) fase di codifica, durante la quale l’informazione da apprendere viene
elaborata in diversi modi;
2) fase di immagazzinamento, durante la quale alcune delle informazioni
elaborate nella fase di codifica vengono trasferite in memoria;
3) fase di recupero, durante la quale alcune delle informazioni
immagazzinate nel sistema di memoria vengono recuperate o ricordate.
Pioniere degli studi sperimentali sulla memoria “pura” non influenzata, cioè, dalla
conoscenza o dalla capacità dell’individuo di riorganizzare le esperienze, è
Ebbinghaus (1885) che attraverso la tecnica di apprendimento per coppie associate
effettuò ricerche sullo span di memoria e il processo di affinità delle informazioni,
affermando che la mente umana si presenta come una tabula rasa modificabile solo
dall’ambiente. Secondo questo approccio, quindi, l’uomo sarebbe come un passivo
recettore di stimoli e la memoria come un semplice contenitore. Negli anni successivi
William James (1890) postulò l’esistenza di due tipi di memoria: la memoria
primaria, in cui l’informazione è contenuta fino a quando rimane nella coscienza, e la
memoria secondaria che immagazzina le informazioni divenute ormai inconsce.
Nella seconda metà degli anni sessanta si diffuse l’approccio cognitivista che
sosteneva un modello di memoria multi-magazzino così come definito da Atkinson e
Shiffrin (1968) basato sull’assunto fondamentale dell’esistenza di tre tipi differenti di
magazzini di memoria:
LA MEMORIA
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i magazzini sensoriali (uno diverso per ogni modalità sensoriale, per esempio
quello iconico per le informazioni visive e quello ecoico per le informazioni
acustiche), mantengono l’informazione per brevissimo tempo e la perdita
delle stesse (oblio) avviene per decadimento, quindi è spontanea;
il magazzino a breve termine, a capacità molto limitata (contiene circa 7 item;
Miller, 1956), in cui le informazioni in entrata sono mantenute per pochi
secondi grazie ad un processo di tipo attentivo e la perdita delle stesse
avviene a causa di uno spostamento dell’attenzione o di un’interferenza;
il magazzino a lungo termine, in grado di mantenere l’informazione per un
lungo periodo di tempo per effetto della reiterazione e in cui le stesse
vengono perse a causa della loro inaccessibilità.
Negli anni successivi sono state mosse diverse critiche nei confronti di tale modello,
per esempio per l’eccessiva importanza attribuita al ruolo svolto dalla reiterazione
nel registrare le informazioni nel magazzino a lungo termine, tecnica che
evidentemente è più funzionale in contesti di laboratorio che non nella vita
quotidiana, dove viene scarsamente utilizzata. Tuttavia, la critica principale mossa a
tale teoria è che fornisce una visione troppo semplificata della memoria umana,
infatti essa assume che esista un solo tipo di magazzino a breve termine e uno solo a
lungo termine, presupposto smentito, per esempio, dalle evidenze dell’esperimento di
Shallice e Warrington (1970) in cui i due autori analizzarono il caso di K. F., un
uomo che presentava una scarsa memoria a breve termine per quanto riguardava
stimoli di tipo verbale, ma una buona memoria a breve termine per stimoli acustici.
Per far fronte, quindi, ai problemi presentati dal modello multi-magazzino si è
cercato di formulare una teoria più adeguata sia della memoria a breve termine sia
della memoria a lungo termine. Baddeley e Hitch (1974) e Baddeley (1986)
riconcettualizzarono la teoria della MBT in un sistema più complesso che
chiamarono Working Memory, che permetterebbe il mantenimento temporaneo e la
manipolazione delle informazioni durante l'esecuzione automatica di alcuni compiti
cognitivi, come la comprensione, l'apprendimento e il ragionamento (Baddeley,
1986); mentre Tulving (1972) postulò l’esistenza di due diversi tipi di MLT, ossia, la
memoria episodica e la memoria semantica. Ancora oggi queste riformulazioni sono
le più accreditate.
Baddeley e Hitch (1974) condussero un esperimento in cui alle persone
LA MEMORIA
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veniva chiesto di svolgere un compito di ragionamento verbale, contemporaneamente
all’attività di ripetere ad alta voce una sequenza casuale di numeri, fondato
sull’ipotesi che la memoria di lavoro fosse divisa in più componenti e che quindi non
sarebbe stato difficile per i partecipanti svolgere entrambi i compiti. L’esperimento
confermò le ipotesi e i due autori postularono l’esistenza di un modello di memoria
articolato in tre componenti relativamente separate:
il sistema esecutivo centrale: è il sistema sovraordinato, a capacità limitata
coinvolto nella pianificazione e nella presa di decisione, è quindi un sistema
di memoria intenzionale, svolge funzioni di coordinamento e di integrazione
delle informazioni provenienti dalle altre due componenti della memoria di
lavoro;
il circuito articolatorio o fonologico: elabora e mantiene l’informazione
verbale e acustica. A seguito di ulteriori evidenze sperimentali (Baddeley,
1990) viene a sua volta diviso in un magazzino fonologico e in un processo di
controllo articolatorio. Secondo l’autore quando le parole stimolo vengono
presentate acusticamente esse entrano automaticamente nel magazzino
fonologico, mentre quando lo stimolo è visivo esso entra nello stesso
magazzino solo in maniera indiretta, cioè attraverso il processo di controllo
articolatorio;
il taccuino visuo-spaziale: elabora e mantiene l’informazione visiva e
spaziale; nella vita quotidiana, per dirla come Baddeley: “sembra che sia
importante per l’orientamento geografico e per compiti di pianificazione
spaziale” (Baddeley, 1990, pag. 113-14).
Il modello della memoria di lavoro di Baddeley rappresenta, così, un passo
avanti rispetto al modello del magazzino a breve termine di Atkinson e Shiffrin. Esso
si applica bene ai compiti di ragionamento verbale, aritmetico, lettura, oltre che a
quelli di pura memoria, a differenza del modello di memoria a breve termine che è
stato applicato quasi esclusivamente a quest’ultimi (Eysenck, 2006).
Per quello che riguarda il magazzino a lungo termine di Atkinson e Shiffrin è
stato riformulato in un modello di memoria a lungo termine da Tulving (1972), come
già detto in precedenza, diviso in due tipi:
la memoria episodica: fondamentalmente autobiografica in quanto ingloba le
esperienza personali avvenute in un tempo e in un luogo precisi; Wheeler,
LA MEMORIA
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Stuss e Tulving (1997) aggiungono la definizione di “coscienza autonoetica”
(conoscenza di se stessi) mettendo in luce come la caratteristica distintiva
della memoria episodica sia proprio una certa consapevolezza che gli esseri
umani sperimentano quando ricordano uno specifico evento del loro passato,
o gli stati d’animo provati in un determinato momento, in maniera del tutto
consapevole. Detto in altre parole una consapevolezza di sé nello spazio e nel
tempo, che permette alla mente umana di fare quelli che Tulving e i suoi
collaboratori hanno definito “viaggi mentali nel tempo”, cioè esperienze
soggettive di continuità e di coerenza del proprio senso di sé in un particolare
momento del passato, nella realtà del presente e in un futuro immaginario
(Wheeler e al.,1997).
la memoria semantica: che memorizza fatti e conoscenze generali su ciò che
ci circonda, manca quindi, del carattere personale che invece contraddistingue
la prima. Collins e Quillian (1969) aggiungono che essa si organizza in
gerarchie di diverse reti in cui i concetti principali, di cui l’individuo è a
conoscenza, sono rappresentati da nodi ai quali si collegano diverse proprietà
o caratteristiche proprie del concetto principale. questa teoria è evidentemente
basata sul concetto di economia cognitivista. Tuttavia questo tipo di
organizzazione sembrava troppo rigida, per cui successivamente si parlò di
teoria “della propagazione dell’attivazione” (Collins e Loftus, 1975) secondo
la quale ogni volta che pensiamo ad un concetto si attiva il nodo
corrispondente e non solo, questa attivazione si propaga poi ad altri concetti,
specialmente quelli più vicini, accelerando così i processi cognitivi. Secondo
Barsalou (1982, 1989), però, la definizione della memoria semantica si basa
su un assunto del tutto erroneo e cioè che tutti i concetti immagazzinati siano
recuperati in forma fissa; infatti l’autore parla di “informazione dipendente
dal contesto” per riferirsi al fatto che l’informazione che noi attiviamo è
rilevante per quel determinato contesto semantico per cui è stata sollecitata,
affermando altresì, che i concetti sono rappresentati in modo diverso a
seconda dei contesti.
Questa distinzione funzionale viene inoltre confermata da una distinzione di
tipo anatomico, infatti, studi successivi mettono in luce una localizzazione
prefrontale per la memoria episodica e una localizzazione parietale e occipitale per la
LA MEMORIA
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memoria semantica (Tulving, 1989). Negli anni successivi Graf e Schacter (1985)
hanno postulato un’ulteriore distinzione della memoria a lungo termine in memoria
esplicita e memoria implicita sostenendo che: “La memoria esplicita si manifesta
quando un compito richiede un ricordo cosciente di esperienze precedenti […], la
memoria implicita si manifesta quando un compito è facilitato in assenza di ricordo
cosciente” (Graf e Schacter 1985, pag. 501). Detto in altre parole: quando di fronte
ad un determinato problema, o situazione, ci comportiamo in un modo piuttosto che
in un altro, perché “per esperienza” ricordiamo che è il più funzionale, abbiamo
attivato la memoria esplicita. Se invece ad una situazione, o problema, rispondiamo
in maniera automatica, senza cioè fare riferimento all’esperienza personale, abbiamo
attivato la memoria implicita. La memoria episodica e quella semantica coinvolgono
entrambe la memoria esplicita.
Roediger (1990) ha dato una spiegazione più precisa di quali tipi di processi
siano elaborati dalla memoria implicita e quali invece dalla memoria esplicita
affermando che la prima elabora processi interamente determinati da stimoli esterni e
sono guidati dai dati. La seconda elabora processi che originano dall’individuo e
sono guidati dai concetti. Choen e Squire nel 1980, parlarono di conoscenza
dichiarativa e conoscenza procedurale per riferirsi alla distinzione di un “che cosa” e
di un “come”. Più precisamente i due autori sostengono che la conoscenza
dichiarativa si riferisce alla conoscenza di “cosa”, è una conoscenza esplicita e
coinvolge la memoria episodica e quella semantica (entrambe facenti parte della
memoria esplicita). Mentre la conoscenza procedurale riguarda la conoscenza di
“come”, comprende abilità motorie e altre competenze ed è, quindi, una conoscenza
di tipo implicita (Choen, 1984).
Gli studi fin qui considerati si sono posti il problema di come, più o meno,
funzioni la memoria, vale a dire di come le nostre esperienze vengono
immagazzinate e come vengono richiamate alla coscienza nel momento del bisogno,
ossia per poter rispondere al meglio ad una data situazione piuttosto che ad un
problema o per poterci adattare all’ambiente circostante. Esiste un altro ampio filone
di studi, che cerca di approfondire come funzioni la memoria rapportata al sé, cioè
come vengono immagazzinati i ricordi di episodi personali e come vengono
rievocati, non per adattarci all’ambiente, ma per avere una continuità della propria
identità (del proprio sé) nel tempo e nello spazio, sono proprio gli studi sulla
LA MEMORIA
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memoria autobiografica che verrà trattata più nello specifico nel paragrafo seguente.
1.2 La memoria autobiografica
La memoria autobiografica è definita come la funzione umana che più di
tutte permette l’incontro tra cognizione e personalità, in cui si intersecano cioè le
funzioni cognitive, le componenti del sé, le capacità narrative e di regolazione
affettiva dell’individuo (Conway e Rubin, 1993). Dal punto di vista teorico tale
concetto presenta diverse sfaccettature le cui definizioni sono state riviste e rivisitate
da orientamenti e modelli diversi: la neuropsicologia si è occupata, ad esempio, dei
correlati neuro-anatomici e neurobiologici del funzionamento autobiografico
(Wheeler e al., 1997; Conway e Fthenakl, 2000; Schachter e Scarry, 2000). I
cognitivisti, invece, hanno concentrato le loro ricerche sull’analisi dei contenuti, sulle
rappresentazioni dei ricordi e sulla loro disponibilità nel corso della vita (Conway,
1990a, 1990b; Conway e Pleydell-Pierce, 2000; Conway e Rubin, 1993; Pillemer,
2001). Gli studiosi della psicologia evolutiva, dal canto loro, studiano la qualità dello
sviluppo di memoria nel bambino e il cosiddetto fenomeno dell’amnesia infantile
(Fivush, 1993; Habermas e Bluck, 2000; Nelson, 1993; Pillemer e White, 1989), e un
ulteriore filone di ricerca, che sarà approfondito più avanti, indaga la relazione tra
memoria ed emozioni (Levine e Safer, 2002; Reisberg e Heuer, 2004).
I primi approcci empirici e sistematici allo studio della memoria
autobiografica risalgono a Galton e Freud, che proponevano metodi di analisi molto
differenti tra loro. Più nel dettaglio: mentre Galton si basava soprattutto su studi
sperimentali e di laboratorio, utilizzando la tecnica associativa che consisteva nel
chiedere ai partecipanti di rievocare un ricordo personale a partire da liste di parole
stimolo (Galton, 1879), Freud, invece, proponeva un metodo più autobiografico volto
al recupero del materiale conscio e inconscio dei ricordi infantili ritenuti alla base
della struttura di personalità (Freud, 1899). Successivamente l’interesse della ricerca
si spostò verso un modello più ecologico e naturalistico dello studio della memoria
autobiografica. Con Barlett (1932), infatti, cominciano i primi studi naturalistici che
portano ad una definizione costruttivista della memoria autobiografica che la
considera non più come la mera capacità di immagazzinare informazioni passate, ma
come un processo dinamico in grado di ricostruire l’esperienza umana a partire dalle
conoscenze e dagli interessi attuali e che ripristina, a posteriori, i significati degli
LA MEMORIA
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eventi. Secondo la visione costruttivista dei processi di memoria “il ricordo non è
l’effetto della riattivazione di innumerevoli frammenti di esperienze archiviate e
immodificabili, ma una costruzione o ricostruzione, basata sulla relazione tra le
nostre attitudini e un ammasso attivo di esperienze organizzate del passato [...]”
(Bartlett, 1932; p. 213). Qualche anno dopo Nesseir (1988) rivendicò l’importanza
dello studio dei ricordi autobiografici in contesti spontanei e naturalistici basato
sull’analisi dell’interazione spontanea tra le informazioni del passato e le conoscenze
attuali.
Oggi l’ipotesi teorica più accreditata è quella del modello costruttivista della
memoria autobiografica secondo cui il ricordo autobiografico si compone di elementi
dell’esperienza originale ricostruiti in base agli schemi di sé (Brewer, 1986) e ad
elementi nuovi introdotti attraverso la narrazione della rievocazione al fine di
mantenere una certa coerenza con i propri modelli culturali e personali (Barclay
1996). Brewer (1986) definisce la memoria autobiografica come “il processo di
recupero di un evento personale e specifico del proprio passato” (p. 25), composta da
ricordi personali unici e/o generici, fatti autobiografici e schemi di sé (self-schema).
Il “ricordo personale” si riferisce ad un evento unico del passato e si
caratterizza per il fatto che durante la rievocazione è vissuto con imagery, ossia
attraverso contenuti sensoriali ed immaginifici che lo rendono particolarmente vivido
nella mente dell’individuo, nella sua descrizione e nel linguaggio. Quando, invece,
l’evento non è unico ma si ripete più volte nel tempo ed è, altresì, accompagnato da
componenti immaginative durante la rievocazione, allora è un ricordo personale
generico. Nel caso in cui quest’ultime componenti mancassero si parlerebbe, invece,
di “schemi di sé”. Il “fatto autobiografico”, dal canto suo, si riferisce ad un evento
unico del proprio passato ma manca della componente di imagery (Brewer, 1986).
Come si può notare, dal modo di classificare i contenuti dei ricordi autobiografici,
l’autore mette in luce l’importanza della vividezza e del grado di specificità di un
ricordo. Infatti, come affermerà più tardi lo stesso autore, la definizione di ricordo
autobiografico implicherebbe sempre la presenza di un’esperienza di re-living del
proprio passato nel presente, in cui la vividezza e le componenti sensoriali
dell’evento riattivano i vissuti del contesto di codifica.
Qualche anno dopo, Baddeley (1990) afferma che la memoria autobiografica
è una componente della memoria dichiarativa, connotata in forma episodica e