2
specifici cambiamenti nelle proprietà legate alla dimensione e alla geometria,
ed effetti estrinseci che riguardano effetti di superficie.
Come detto precedentemente la nascita della chimica dei colloidi si può far
risalire al 1860, grazie agli studi del chimico inglese Thomas Graham, che
coniò il termine “colloidi” per classificare sistemi dispersi di particelle, le cui
dimensioni sono abbastanza ridotte. Numerosi furono i fisici che attorno al
1900 si dedicarono allo studio della materia allo stato colloidale; fra questi
Tyndall, Helmholtz, Lord Rayleigh ed Einstein. Il primo ad elaborare alcune
speculazioni teoriche organicamente impostate sulle proprietà fisiche e
chimico-fisiche delle piccole particelle metalliche fu Fröhlich nel 1937 [4].
R. Kubo [5] è stato uno dei primi studiosi, attorno agli anni sessanta, ad
enunciare una teoria secondo cui le ridotte dimensioni di questi monocristalli
avrebbero dovuto rendere osservabili peculiarità derivanti sia da “effetti di
superficie”, dovuti al non più trascurabile rapporto superficie/volume [6], sia
da “effetti di bulk”, intrinseci del cluster, principalmente imputabili alla
marcata rilevanza degli effetti quantici in vista dell’ordine di grandezza delle
differenze di energia elettronica tra livelli successivi rispetto ad altre energie
in gioco come quella termica o quella di Zeeman (“quantum size effects”).
Tutte le idee a cui stiamo accennando sono state fino agli anni ’70
essenzialmente frutto di speculazioni teoriche, soprattutto per la difficoltà di
disporre di microcristalli controllati su cui lavorare sperimentalmente. E’ solo
da relativamente poco, con l’affinarsi delle tecniche di produzione e di
3
controllo delle dimensioni di queste particelle, che è divenuto possibile
affiancare al complesso delle speculazioni teoriche un insieme di informazioni
sperimentali progressivamente crescente.
Dal punto di vista delle applicazioni queste particelle metalliche ultrafini
hanno già incontrato numerose utilizzazioni in campo tecnologico, dalla
catalisi chimica [7] all’ingegneria spaziale. Le loro proprietà magnetiche,
ottiche, di conducibilità elettrica [8] vengono sfruttate per la realizzazione di
coloranti, materiali resistenti alle alte temperature, registrazione magnetica ed
altro.
Inoltre l'esigenza di produrre strutture solide sempre più piccole nelle
applicazioni tecnologiche ha convogliato l'attenzione di molti studiosi in
questo settore. La miniaturizzazione nei dispositivi elettronici è un esempio di
questa tendenza. I progressi compiuti nel campo indicano che il confinamento,
ottenuto con i punti quantici (quantum dots), che sono essenzialmente clusters
depositati su una superficie, conduce ad effetti simili a quelli osservati nei
clusters. Risulta, quindi evidente la necessità crescente di acquisire
informazioni su tali sistemi, frequentemente chiamati mesoscopici. Questa
connessione evidenzia i forti legami tra le ricerche che studiano le superfici
dei solidi e quelle che si occupano degli aggregati metallici.
L'impiego di clusters metallici appare più che una promessa in
microelettronica, non soltanto per la necessità di miniaturizzare dispositivi
elettronici. Di fatto dovremmo assistere ad un grande salto verso un nuovo
4
tipo di tecnologie, viste le proprietà, in particolare quelle ottiche, che la
materia esibisce su questa scala. Proprio le proprietà ottiche lineari e
soprattutto quelle non lineari [9] di questi aggregati atomici, sono oggetto di
innumerevoli studi teorici e sperimentali, che mirano a verificare la possibilità
di utilizzazione per realizzare dispositivi ottici da impiegare in dispositivi
ottici di nuova generazione.
A Gustav Mie (1908) risalgono le prime ricerche sulle proprietà ottiche di
cluster metallici in relazione alla loro struttura. Oggi il fine ultimo della
ricerca nel campo è divenuto quello di capire in che modo la loro struttura
elettronica dipenda dalle dimensioni.
L’avvento dei laser ha permesso di mettere in evidenza effetti ottici di tipo
non lineare, impercettibili alle basse intensità. La ricerca qui si prefigge di
realizzare dispositivi che possano agire come interrutori ottici, come
miscelatori di frequenze in grado di generarne di nuove, come modulatori di
luce per il controllo della fase e dell’ampiezza del raggio, logiche ottiche e
tutto ciò che è necessario per trattare dati e immagini.
Il pregio dei clusters metallici come sistemi interessanti per l'ottica non
lineare è di essere dotati di una risposta rapidissima alle sollecitazioni del
campo esterno applicato (dell’ordine di 5 ps, a fronte di quella fornita dai
migliori dispositivi a QW, maggiore di 10 ps), accanto alla stabilità rispetto
alle alte intensità di campo applicato e alla variazione delle condizioni
ambientali.
5
INTRODUZIONE
Come già detto in precedenza, gli aggregati molecolari noti come clusters
non rappresentano uno stato uniforme della materia. Infatti, numerosi risultati
teorici e sperimentali dimostrano chiaramente la loro dipendenza dalle
dimensioni dell’aggregato. Se accettiamo una classificazione dei clusters in
funzione del numero di atomi, come proposto da Kreibig [1], possiamo dire
che il campo di studio di questo lavoro di tesi si limita a considerare piccoli
cluster, per i quali il numero di atomi può variare dalla decina a qualche
centinaio.
I clusters possono essere prodotti come particelle libere, o inglobati in
matrici. Se sono liberi, offrono il vantaggio di poter essere analizzati a
prescindere da perturbazioni esterne. Se, invece, sono supportati da matrici,
allora un vantaggio notevole è dato dal fatto che la loro vita media è
praticamente infinita, ragion per cui si possono produrre dispositivi con un
numero elevato di clusters.
I metalli allo stato massivo (bulk) presentano la tipica struttura a bande, con
elevata densità di stati elettronici in prossimità del livello di Fermi. Se però
riduciamo le loro dimensioni, fino a raggiungere quelle tipiche dei clusters, si
presentano come già detto in precedenza, delle caratteristiche del tutto nuove,
che non si accordano con un comportamento metallico.
6
Un primo ordine di effetti è di tipo “intrinseco” e si manifesta in relazione
al fatto che le proprietà elettroniche e strutturali del cluster (potenziali di
ionizzazione, energia di legame, reattività chimica, proprietà ottiche, struttura
cristallografica) variano in funzione delle sue dimensioni e della sua
geometria. A causa del basso numero di atomi presenti nel cluster e del suo
volume ridotto, nella struttura elettronica si evidenzia una discretizzazione dei
livelli, la cui spaziatura dipende dalle dimensioni del cluster, caratteristica
questa conosciuta come “quantum size effect”.
Il secondo ordine di effetti, di tipo “estrinseco”, è legato essenzialmente alla
presenza di “effetti di superficie”, in particolare all’ammontare della superficie
totale esposta, alla rugosità superficiale del cluster, al materiale con cui la
superficie del cluster è a contatto, in definitiva alle condizioni al contorno
della particella metallica in esame. La cosiddetta “risonanza di Mie”, dovuta a
eccitazioni elettroniche di tipo collettivo, è un esempio esplicito di questo tipo
di effetti [11].
Lo sviluppo dei primi modelli in grado di descrivere le proprietà di questi
aggregati atomici risale agli anni ’60. Questi modelli erano caratterizzati dal
ricorso a metodi statistici [10] per il calcolo dei livelli energetici, nella
convinzione che l’approccio risultasse quello ideale, in vista della superficie
fortemente irregolare assunta da questi sistemi e dell’incertezza sulla loro
struttura.
7
Un primo modello che si mosse nella direzione di introdurre stati quantici
elettronici espliciti immaginava un gas di elettroni confinato in uno spazio
cubico, con barriere di potenziale infinito e teneva conto della presenza di ioni
positivi tramite una distribuzione uniforme di carica positiva (modello a
“jellium” [12]). Questo modello, pur prevedendo un picco di assorbimento di
plasma, posizionava quest’ultimo nel violetto. La scoperte di Smitland et al.
nel ’73 [13] che particelle di argento in matrice vetrosa presentavano un picco
di assorbimento spostato verso il rosso, fece sì che il modello venisse
accantonato.
Nel ’74, Cini ed Ascarelli [16], rivolsero esplicita attenzione al ruolo degli
effetti di superficie. Tra i modelli più recenti, facciamo riferimento a due
apparsi nei primi anni ’80. Il primo di questi, sviluppato da Ekardt [14], è
ancora un modello a “Jellium”, nel quale è stata eliminata la semplificazione
delle barriere di potenziale confinanti infinitamente alte. Il secondo modello,
sviluppato da Bachelet, Bassani et al. [15], è invece un modello del tipo “tight-
binding”, nel quale è interessante il rilievo che si dà alle interazioni della
particella metallica con il materiale circostante, col quale si assume che questa
sia in contatto.
Anche in questo lavoro di tesi è stato utilizzato un modello di tipo tight-
binding, ovviamente modificato poiché non è più possibile ricorrere
all’impiego delle funzioni di Bloch, a causa della perdita della simmetria di
traslazione. E’, inoltre, importantissimo tener conto della posizione di ogni
8
atomo nella particella, rendendo conto del fatto che gli atomi sulla superficie
risentono di un potenziale differente rispetto a quello sentito dagli atomi
interni, visto il diverso numero di primi vicini. Nel modello è stato supposto
che gli atomi interagiscano solo con i loro primi vicini.
La peculiarità di questo lavoro di tesi è dato dal modo in cui sono ricavati i
parametri che descrivono le interazioni tra gli atomi, dedotti tramite calcoli ab-
initio condotti su sistemi biatomici con l’utilizzo di appropriati potenziali, detti
potenziali di core effettivi[17,22,24,25], che hanno permesso di ridurre il
problema elettronico a quello dei soli elettroni di valenza. Tali potenziali sono
derivati direttamente dalle equazioni di Hartree-Fock, per mezzo di opportune
trasformazioni. Il vantaggio derivante dal loro utilizzo consiste nella
possibilità di utilizzare un set di base abbastanza ristretto, definito solo per gli
elettroni di valenza, in grado sia di descrivere in maniera soddisfacente il
sottospazio di valenza, sia di eliminare dai calcoli la valutazione degli integrali
bielettronici tra gli stati di core e di valenza.
Gli atomi a cui appare naturale applicare una simile descrizione sono
innanzi tutto quelli appartenenti al primo gruppo della tavola periodica, per il
fatto di possedere un solo elettrone di valenza. Di fatto, la nostra attenzione è
stata rivolta ad aggregati formati da atomi di Litio, Sodio e Potassio.
Importanza particolare è stata data allo studio delle proprietà ottiche, sia per
analizzare le caratteristiche peculiari che la materia esibisce a queste
9
dimensioni, sia per testare la bontà del modello utilizzato, visto il diverso
modo di ricavare i parametri rispetto a precedenti lavori di tesi.
Infatti, tra i modelli di tipo tight-binding, questo a nostra conoscenza è il
primo nel quale i parametri energetici necessari alla descrizione di questi
sistemi, sono stati dedotti a partire da calcoli ab-initio, senza ricorso all'analisi
di bande energetiche.
Fra le proprietà ottiche di tipo lineare è stata analizzata la parte immaginaria
della funzione dielettrica, che è in grado di evidenziare fenomeni di
assorbimento tipici della materia a queste dimensioni, nettamente differenti da
ciò che si riscontra a livello di bulk.
Come proprietà ottica non lineare è stata studiata la generazione di seconda
armonica in approssimazione di quadrupolo (poiché negli aggregati centro-
simmetrici il contributo alla iperpolarizzabilità in approssimazione di dipolo
elettrico è nulla).
Inizieremo la nostra esposizione fornendo un po' di dettagli sui potenziali di
core effettivi, che, come detto precedentemente, hanno rappresentato un
elemento fondamentale nel ricavare i parametri energetici dei sistemi
esaminati.
10
CAPITOLO 1
I potenziali ab-initio effettivi
11
INTRODUZIONE
La definizione di potenziale effettivo nasce dall’osservazione, fatta da
chimici e fisici, che molte delle proprietà chimiche e fisiche degli atomi sono
determinate per lo più dagli elettroni di valenza. La stessa tavola periodica è
stata costruita su questa idea. Passando a descrivere la natura dei legami
chimici in molecole, l'attenzione deve essere focalizzata su un numero ristretto
di elettroni per ogni elemento. Sfortunatamente gli elettroni sono
indistinguibili, per cui in un calcolo atomico o molecolare è necessario in linea
di principio tenere conto di tutti quanti. Tuttavia appare ragionevole supporre
che, se riusciamo a rimpiazzare l'effetto degli elettroni del core con appropriati
potenziali effettivi (EP), gli atomi possono essere descritti come un problema
ristretto a pochi elettroni (quelli di valenza), con conseguente diminuzione
della complessità dei calcoli da svolgere. D'altra parte, se l’esigenza di ridurre
le dimensioni del set di base da utilizzare nei calcoli è evidente, condizione
che viene senz’altro facilitata se restringiamo la nostra attenzione ai soli
elettroni di valenza, al contempo è necessario garantire, cosa altrettanto
importante, una descrizione accurata di tale sottospazio.
I potenziali effettivi sono fatti per andare incontro a tutte queste esigenze. E’
evidente che essi non possono semplicemente contenere la repulsione
Coulombiana del core, ma devono incorporare anche gli effetti del principio di
esclusione di Pauli.
12
Per prima cosa cerchiamo, partendo dalla funzione d’onda multi-elettronica,
di ridurre il problema elettronico ai soli elettroni di valenza.
E' noto che la funzione d’onda complessiva può essere scritta
approssimativamente sotto forma di determinante di Slater di spin-orbitali. In
questo modo viene garantito che tale prodotto soddisfi il principio di
antisimmetria (che comporta il principio di esclusione di Pauli). Per N
elettroni,
()()
() () ()
() () ()
() () ()
NkNjNi
kji
kji
N
XXX
XXX
XXX
NXXX
ρ
Λ
ρρ
ΜΜΜ
ρ
Λ
ρρ
ρ
Λ
ρρ
ρρρ
χχχ
χχχ
χχχ
222
111
2/1
21
!,.....,,
−
=Ψ
dove {}ω,rX
ρ
ρ
= e ()
()( )
() ( )
=
ωβϕ
ωαϕ
χ
r
r
X
ρ
ρ
ρ
or . Secondo questo formalismo, un
elettrone è descritto non soltanto dalle tre coordinate spaziali r
ρ
, ma anche
dalle coordinate di spin ω .
E’ conveniente introdurre una notazione più semplice per scrivere il
determinante di Slater normalizzato, che includa la costante di
normalizzazione e mostri soltanto gli elementi diagonali del determinante
[23]:
()()()()
NkjiN
XXXXXX
ρ
ΚΚ
ρρρ
ΚΚ
ρρ
χχχ
2121
,,, =Ψ (1)
13
Supponendo, per semplicità, che il sistema considerato sia composto da n2
elettroni di core ed uno solo di valenza, possiamo scrivere la corrispondente
energia totale come segue (in unità atomiche, 1===
e
me η ):
() Ψ+Ψ=
∑∑∑
+
=
12
1
1
ˆ
n
ijij
ij
r
ihE
>
(2)
dove,
∑
−
−∇−=
A
A
A
Rr
Z
h
2
2
1
ˆ
. (3)
Minimizzando l’espressione (2) rispetto agli spin orbitali ed imponendo
come unica condizione sulla funzione d’onda la sua normalizzazione, per spin-
orbitali ortogonali otteniamo il seguente sistema di equazioni accoppiate, note
come equazioni di Hartree-Fock [23]:
() () () () ()111
ˆ
1
ˆ
1
ˆ
12
1
b
n
b
bii
ib
bb
KJh χεχ
∑∑
+
=≠
=
−+ (4)
() () ( ) () ()12
1
211
ˆ
12
2 ibbib
r
rdJ χχχχ
=
∫
∗
ρ
e
() () ( ) () ()12
1
211
ˆ
12
2 bibib
r
XdK χχχχ
=
∫
∗
ρ
Se il core è costituito da orbitali doppiamente riempiti, l'eq. precedente
diviene:
() () () () () ()1111
ˆ
1
ˆ
21
ˆ
c
n
c
cvvvv
n
c
cc
KJh ϕεϕεϕ
∑∑
+=
−+ (5)
Dove con ϕ indichiamo la parte spaziale degli spin-orbitali.
14
Nell’espressione (5) si osserva che l’operatore mono-elettronico h
ˆ
è
modificato dall’aggiunta del potenziale Coulombiano (
c
J
ˆ
) e di scambio (
c
K
ˆ
)
generati dagli elettroni di core.
L’energia totale appare adesso scomposta in due termini:
valcore
EEE += (6)
dove ()
∑∑∑
′
′′
−+=
n
c
n
c
cccc
n
c
cccore
KJhE
ˆˆ
2
ˆ
2 ϕϕ , ha la tipica forma che si
ottiene per un sistema a gusci chiusi.
L'impostazione qui presentata rappresenta soltanto una premessa verso la
possibile riduzione del problema multi-elettronico ai soli elettroni di valenza,
a cui ora rivolgeremo la nostra attenzione.
15
GENERAZIONE DEI POTENZIALI EFFETTIVI E DEGLI PSEUDO-
ORBITALI ASSOCIATI
Riprendiamo in esame l’equazione di Hartree-Fock per l’orbitale di valenza
nell'intento di ridurla ad una forma più semplice da gestire.
Definiamo () () ()
∑
≡
c
cc
iiiP ϕϕ
ˆ
, l'operatore di proiezione sugli stati di
core del sistema. Se operiamo con il suo complemento P
ˆ
1
ˆ
− sull'eq. di H.F.
(5) otteniamo:
() ( )
vvv
c
cc
KJhP ϕεϕ =
−+−
∑
ˆˆ
2
ˆ
ˆ
1 (7)
Introduciamo adesso gli pseudo-orbitali
v
χ , in accordo a
∑
+≡
c
ccvv
a ϕϕχ (8)
In base a questa definizione,
v
χ [17] risulta una combinazione di orbitali di
core e dell’orbitale di valenza. Per una qualsiasi scelta dei coefficienti
c
a vale
sempre la relazione ( )
vv
P χϕ
ˆ
1 −= .
Ne segue che a partire dalle eqq. (7) e (8) è possibile scrivere un’equazione
equivalente per lo pseudo-orbitale
v
χ :
( ) ( ) ( )
vvvv
PPFP χεχ
ˆ
1
ˆ
1
ˆˆ
1 −=−− (9)
dove ( )
∑
−+=
c
ccv
KJhF
ˆˆ
2
ˆ
ˆ
è l'operatore di Fock.