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1. INTRODUZIONE
1.1 Lo sviluppo dell’approccio analitico ai Beni Culturali
L’analisi scientifica di materiali archeologici inizia nel Regno Unito nel XVIII sec., con analisi di
spade irlandesi dell’età del Bronzo. Klaproth, chimico (1798) pubblica analisi di vetri romani e
specchi di bronzo; Davy (1878-1929) analizza il blu egiziano e il vetro opaco rosso chiamato smalto
rosso.
Solo nel 1970 la necessità di un alto livello di accuratezza e di procedure adeguate di
campionamento micro o non distruttivo si fanno più pressanti, non dimenticando il grande
problema della rappresentatività del campione.
Recentemente vi sono stati molti miglioramenti in questo campo: si è sviluppata la tecnologia dei
detector, sono nate nuove interfacce strumento-computer, le componenti ottiche si sono
rinnovate e si fa ormai uso di sorgenti di radiazioni che coprono gran parte dello spettro
elettromagnetico. Fondamentale, poi, è stata la possibilità di miniaturizzare tutte queste
componenti e renderle quindi utilizzabili in strumenti portatili; le conseguenze positive sono state:
aumento della sensibilità, della risoluzione spaziale e della applicabilità di metodi nuovi all’analisi
dei Beni Culturali e infine la possibilità di misurare un grande numero di proprietà indipendenti
simultaneamente [1].
Le tecniche maggiormente usate oggigiorno per l’analisi di Beni Culturali sono le spettroscopie
atomiche e molecolari, usate con lo scopo di determinare:
natura chimica di parti di manufatti e materiali per determinarne la provenienza.
stato di alterazione degli oggetti per esposizione ad agenti ambientali (a breve, medio e lungo
termine).
efficacia di conservazione e restauro.
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1.2. Importanza delle tecniche non invasive per lo studio dei Beni Culturali
L’uso di metodologie analitiche per lo studio dei Beni Culturali risulta molto utile per la possibilità
di caratterizzare i materiali presenti in un’opera d’arte e di comprendere il modus operandi
dell’artista, così da cogliere aspetti tecnico-stilistici che inquadrino meglio l’opera nel contesto
artistico del suo tempo.
L’applicabilità delle tecniche analitiche ai problemi archeometrici dipende però da alcuni
importanti parametri:
distruttività: necessità o meno di prelevare e consumare il campione
informazione fornita: elementi, composti, parametri chimico-fisici, ecc.
trasportabilità: possibilità di effettuare analisi in situ, ovvero sul posto con strumentazioni portatili
risoluzione: capacità di differenziare punti della superficie del campione vicini tra di loro
porzione del campione analizzata: l’area o il volume di campione che dà la risposta analitica
espressione dei risultati: in concentrazione, in percentuale
materiali analizzabili: tipi di campioni per i quali la tecnica è idonea
costo della strumentazione e delle analisi
Le tecniche di indagine analitiche e diagnostiche applicabili alle opere d’arte vengono di solito
distinte in due grandi classi: invasive e non invasive.
Le tecniche invasive sono quelle che richiedono il prelievo di un campione, cioè l’asportazione di
quantità minime di materia dell’opera, da sottoporre ai vari esami. A sua volta questo insieme si
suddivide in altre due categorie: analisi distruttive e non distruttive. Le analisi distruttive
prevedono il prelievo di parte del campione e la distruzione dello stesso durante le procedure di
analisi. Le analisi non distruttive, invece, consentono di conoscere le caratteristiche strutturali dei
materiali sottoposti a indagine senza alterarne l’integrità.
Come esempi di analisi distruttive si possono elencare le tecniche di datazione (
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C, Spettrometria
di massa ultrasensibile AMS, Termoluminescenza) oppure la tecnica TXRF Total X-Ray
Fluorescence analysis che richiede la polverizzazione di un campione (10
-7
÷10
-15
g) e la deposizione
su un supporto riflettente del film ottenuto, sul quale si fanno poi misure di fluorescenza X. Per le
analisi non distruttive si citano le tecniche microscopiche (SEM, a luce polarizzata in
trasmissione,… ) e la FTIR in trasmissione.
Le tecniche non invasive, cioè quelle che non richiedono prelievi di nessuna entità dall’oggetto in
esame, sono per loro natura specificatamente adatte nel campo dei beni culturali. Possono essere
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non invasive alcune tecniche ottiche, atomiche e nucleari. Per tecniche ottiche si intendono quelle
che utilizzano le proprietà ottiche della radiazione elettromagnetica nell’interazione con la
materia: la trasparenza, la riflessione, la diffusione, l’assorbimento e l’eccitazione-assorbimento
dei livelli energetici molecolari. Ne sono un esempio esempio la radiografia, la riflettografia
infrarossa, l’osservazione in fluorescenza UV. Le tecniche atomiche sono basate, invece,
sull’esame delle radiazioni X emesse dagli atomi come conseguenza di una transizione elettronica
in un livello energetico interno (elettrone espulso da un urto con raggio X, o protone o elettrone)
da uno più esterno. E’ la categoria di tecniche che ha a che fare con la fluorescenza X, XRF (X Ray
Fluorescence), PIXE (Proton Induced X-ray Emission). Le tecniche nucleari sono basate sull’esame
delle radiazioni γ emesse dai nuclei per effetto del bombardamento del campione con ioni
accelerati (PIGE, Proton Induced Gamma Emission). La caratteristica di non distruttività delle
analisi atomiche nucleari qui considerate dipende dal fatto che le transizioni elettroniche, per gli
atomi, e nucleari, per i nuclei, riguardano livelli della struttura interna dell’atomo che dunque non
interferiscono con i legami molecolari del composto. Si riescono quindi ad ottenere radiazioni di
energia sufficientemente elevata da essere captare efficacemente dal rivelatore, in combinazione
con un’intensità inviata sul campione priva di effetti distruttivi [2].
Risulta di fondamentale importanza che, nel momento in cui ci si avvicina ad un’opera, sia sempre
preferibile ottenere informazioni nella più totale non invasività e, solo nel caso in cui persistano
dei dubbi circa la corretta identificazione di alcuni materiali, sarà allora necessario ricorrere ad
altre tecniche di natura invasiva.
Tra le metodologie di indagine che non prevedono il prelievo di frammenti dell’opera, le tecniche
spettroscopiche forniscono dati utili alla caratterizzazione dei materiali presenti, in particolare per
quelli di natura inorganica.
Per quanto riguarda il mio lavoro, si è deciso di utilizzare la tecnica di Spettrofotometria in
Riflettanza Diffusa nell’intervallo spettrale UV-Vis-NIR, la quale consente di effettuare indagini sui
materiali e sul colore di opere d’arte e sulle eventuali variazioni che si verificano a seguito di
operazioni di restauro o invecchiamento naturale. La tecnica è del tutto non invasiva e innocua
per le opere in esame.
Con la strumentazione portatile al momento disponibile, si possono acquisire spettri di riflettanza
nell’intervallo 350-1700 nm.
Le misure solitamente sono effettuate con geometria 0°/2x45° ovvero, la luce viene inviata
mediante un fascio di fibre ottiche a illuminare perpendicolarmente la superficie d’indagine (0°),
mentre altri due fasci laterali, posti a 45° rispetto al precedente, raccolgono la radiazione riflessa
diffusamente e la inviano al reticolo di diffrazione e al rivelatore. Per ottimizzare la metodologia di
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acquisizione degli spettri, è impiegata una sonda semisferica con cui è possibile investigare
un’area di circa 2 mm di diametro.
Appare cruciale, quindi, anche la possibilità di svolgere le analisi in situ. Però purtroppo le
strumentazioni cosiddette portatili hanno quasi sempre caratteristiche tecniche inferiori rispetto
a quelle da laboratorio.
In più, per quanto riguarda l'analisi di oggetti di interesse storico, artistico o archeologico la non
distruttività della tecnica scelta spesso non permette di soddisfare le esigenze di precisione,
accuratezza e sensibilità necessarie per l'analisi, oppure è ottenibile solo attraverso l'utilizzo di
strumentazioni difficilmente accessibili.
Ne consegue che l'esecuzione delle indagini è subordinata alla possibilità di trovare un
compromesso tra l'esigenza di preservare completamente il reperto archeologico e l'esigenza
dell'analista di porsi nelle condizioni di eseguire correttamente l'analisi.
Talvolta tale compromesso si realizza procedendo al campionamento di un minuscolo frammento
dal reperto archeologico, prelevato in modo da non danneggiarne la valenza estetica; altre volte
risulta possibile portare l'oggetto in laboratorio e, senza effettuare alcun prelievo, eseguire
l'analisi sull'oggetto in condizioni molto più vantaggiose rispetto a quelle che si avrebbero
portando lo strumento di analisi fuori dal laboratorio.
Nel presente lavoro si è preferito però affidarsi a tecniche portatili e non invasive, a causa della
natura stessa dei reperti: non era infatti possibile trasportare le opere in laboratorio e tantomeno
prelevarne piccole porzioni.
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Figura 1: Due utilizzi in situ della strumentazione FORS
E’ da sottolineare che comunque la non invasività e la trasportabilità degli strumenti usati
consente un’ampia applicazione alle opere artistiche e l’acquisizione di una grande quantità di
dati; anche se in alcuni casi i dati ottenuti non sono sufficienti ad una completa caratterizzazione
del campione in esame, l’uso di tecniche non invasive è comunque auspicabile come diagnostica
preliminare a tecniche più specifiche che comportino il prelievo di frammenti dall’opera.
L’avanzamento tecnologico degli ultimi anni, sia per quanto riguarda i rivelatori che il set-up
strumentale sempre più compatto e portatile, ha reso, in effetti, possibile realizzare indagini non
invasive in situ.
In questo modo, l’indagine può essere eseguita in un numero maggiore di punti o aree dell’opera
e, cosa più importante, ripetuta più volte nel tempo, garantendo così il monitoraggio delle
possibili variazioni composizionali, strutturali e cromatiche sia durante il restauro che nell'ambito
di quella auspicabile manutenzione programmata che dovrebbe interessare tutte le opere d'arte
ed i loro contesti ambientali.
Il fine di uno studio diagnostico risulta infatti duplice: conoscitivo e conservativo. Nella realtà, nel
pieno rispetto della minima perturbabilità del delicato sistema che costituisce un'opera d'arte, i
due momenti coincidono, rappresentando il restauro, il più delle volte, l'unica occasione per un
approfondimento della conoscenza del Bene culturale, attraverso questo, del modus operandi
dell'artista e, da qui, del suo contesto storico sia da un punto di vista storico–artistico che
tecnologico.
Una mirata indagine diagnostica, infatti, permette di identificare i materiali scelti dall'artista,
traendo informazioni sulla committenza, in base alla preziosità e rarità materica, sulle tecniche
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esecutive o, ancora, sulla datazione, come anche valutarne lo stato di conservazione,
individuando i segni del passaggio attraverso il tempo, riscoprendo la vita dell'opera dalla
realizzazione fino ai nostri giorni. [3]
1.3. Scopo
Lo scopo del presente lavoro, svoltosi durante il mio periodo di Tesi di Laurea Magistrale, è stato
quindi quello di indagare le potenzialità della Spettrofotometria in Riflettanza Diffusa (FORS) nello
studio di materiali inorganici di interesse nel campo dei beni culturali.
La tecnica è stata applicata a smalti champlevé, smalti cloisonné, vetri e gemme presenti in
manufatti di oreficeria medievali e in gioielli di provenienza famigliare.
Gli smalti champlevé analizzati sono presenti nella collezione di smalti limosini di Palazzo Madama
a Torino; nel Cofano del cardinale Guala Bicchieri, conservato sempre a Palazzo Madama a Torino;
nel Cofanetto di Guala Bicchieri del Museo Leone di Vercelli; nel Reliquiario del Museo del Tesoro
del Duomo di Vercelli; in 12 medaglioni del Museo del Louvre a Parigi (collezione Larcade) e in 18
medaglioni nella Chiesa di S. Sebastiano a Biella.
Gli smalti cloisonné appartengono, invece, alla legatura del manoscritto Liber Evangeliorum
conservata presso il Museo del Tesoro del Duomo di Vercelli; alla legatura nota come Pace di
Ariberto, conservata presso il Museo del Tesoro del Duomo di Milano e alla legatura nota come
Pace di Chiavenna, conservata presso il Museo Diocesano di Chiavenna (Sondrio). La tecnica FORS
è stata inoltre applicata alle lamine metalliche presenti nelle tre legature di Milano, Vercelli e
Chiavenna.
Per quanto riguarda le gemme, invece, si sono analizzate quelle presenti nelle tre legature citate
e altre di provenienza famigliare, usate come termine di paragone.
L’elaborazione dei dati ottenuti da tutti questi campioni è stata effettuata tramite metodi
multivariati, con lo scopo di testare le capacità della tecnica FORS nell’identificare materiali
inorganici, nel nostro caso divisi principalmente in due gruppi: gemme-pietre naturali, vetri-
smalti.
Il trattamento dei dati tramite il software Unscrambler ha permesso quindi di raggruppare i
differenti campioni in base ai sistemi cromofori che li caratterizzano e in base all’epoca di
produzione del manufatto.
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2. SPETTROSCOPIA NEL VISIBILE E NELL’ULTRAVIOLETTO
2.1. Introduzione
L’occhio umano funziona da spettrometro, che analizza la luce riflessa dalla superficie di un solido
o che attraversa un liquido. Sebbene si percepisca la luce solare (o una luce bianca) come
uniforme o di colore omogeneo, essa è in realtà composta da una vasta gamma di radiazioni di
lunghezze d'onda nell'ultravioletto (UV), nel visibile (Vis) e nell'infrarosso (IR). I colori che
compongono la porzione del visibile possono essere separati facendo passare la luce solare
attraverso un prisma, che deflette i raggi con angoli diversi proprio in base alla diversa lunghezza
d’onda.
La lunghezza d’onda è definita come la distanza tra due picchi adiacenti (o tra due ventri) e viene
misurata solitamente in nanometri (10
-9
metri). La frequenza è il numero di cicli d’onda che
viaggiano attraversando un punto fisso nell’unità di tempo, ed è misurata solitamente in cicli al
secondo o hertz (Hz).
Le lunghezze d’onda del visibile coprono un intervallo dello spettro che varia
approssimativamente da 400 a 800 nm. La lunghezza d’onda più lunga nel visibile è il rosso e la
più corta il violetto.
Violetto: 400 – 420 nm
Indaco: 420 – 440 nm
Blu: 440 – 490 nm
Verde: 490 – 570 nm
Giallo: 570 – 585 nm
Arancione: 585 – 620 nm
Rosso: 620 – 780 nm
Figura 2: Spettro elettromagnetico e colori
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Quando la luce bianca passa attraverso una sostanza colorata o è riflessa da essa, una
caratteristica lunghezza d’onda viene assorbita. La luce restante, non assorbita, assumerà allora il
colore complementare alla lunghezza d’onda che è stata assorbita. Questa correlazione è
descritta dalla ruota dei colori mostrata nella figura sottostante.
Figura 3: Ruota dei colori
Qui, i colori complementari sono diametralmente opposti l'un l'altro. Di conseguenza,
l'assorbimento della luce di 420-430 nm rende una sostanza gialla; un assorbimento a 500-520 nm
la rende di colore rosso. Il verde ha un comportamento unico, in quanto esso può essere creato
da un assorbimento vicino a 400 nm, come pure dall'assorbimento intorno a 800 nm.
Già in età preistorica, l’uomo apprezzava e utilizzava per scopi decorativi dei pigmenti colorati,
molti dei quali erano costituiti da minerali inorganici. Pigmenti organici di largo utilizzo erano
invece: il pigmento rosso cremisi, l'acido chermesico, la tintura blu, l'indaco, il pigmento giallo
dello zafferano, la crocetina. Un raro dibromo-indaco derivato, la punicina, veniva utilizzato per
tingere gli abiti dei reali e dei ricchi.
Si nota che una caratteristica comune a tutti questi composti colorati è un esteso sistema di
elettroni p coniugati.
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Figura 4: Pigmenti organici naturali
2.2. Lo spettro elettromagnetico
La zona del visibile costituisce soltanto una piccola porzione dello spettro elettromagnetico, e la
maggior parte delle radiazioni che ci circondano non può essere osservata, ma può essere rilevata
da strumenti specifici.
Lo spettro elettromagnetico spazia da lunghezze d'onda molto corte (inclusi i raggi gamma e X) a
molto lunghe (incluse le microonde e le onde della radiodiffusione). L’immagine seguente mostra
molte delle regioni importanti di tale spettro, e descrive la relazione inversa tra lunghezza d'onda
e frequenza:
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ν=c/λ ν= frequenza ; λ= lunghezza d’onda ; c= velocità della luce nel vuoto (3∙10
10
cm/sec)
ΔE = hν E= energia ; h= costante di Planck (6,6∙10
-34
Js)
Figura 5: Spettro elettromagnetico
2.3.Transizioni elettroniche
Ogni sostanza presenta un caratteristico spettro di assorbimento, che dipende in certa misura
anche dallo stato di aggregazione (solido, liquido o gas), ma soprattutto dal fatto che il campione
sia costituito di atomi o molecole.
Gli atomi liberi, quando assorbono energia radiante, danno luogo solo a transizioni elettroniche
quantizzate, e quindi generano spettri di righe. Gli spettri di assorbimento consentono l'analisi
qualitativa, mentre l'intensità delle righe può essere sfruttata nell'analisi quantitativa.
Nelle molecole le transizioni elettroniche sono generalmente accompagnate a transizioni sia
vibrazionali che rotazionali, per cui gli assorbimenti sono costituiti da moltissime righe molto
vicine tra loro, tanto da apparire un continuo, cioè una banda. La 'struttura fine' dovuta alle
transizioni rotazionali e vibrazionali non è generalmente rilevabile, se non nel caso di spettri
elettronici di gas rarefatti eseguiti con spettrografi ad alta risoluzione
Le transizioni energetiche avvengono solo se la materia riceve esattamente l'energia necessaria
(energia che corrisponde esattamente ad un salto quantico).
Le più comuni transizioni energetiche e le corrispondenti lunghezze d'onda nell’intervallo
indagato dalla tecnica da noi scelta sono:
– transizioni ς → ς* (110-135 nm circa);
– transizioni π → π*e n → ς* (160-255 nm circa);
– transizioni n → π* (da 285 nm circa in su).
Queste transizioni sono caratteristiche sia dei composti organici dia dei composti inorganici che
possiedono elettroni di valenza di tipo s o p. Nei composti inorganici e metallorganici che
possiedono anche elettroni di tipo d (e f), sono possibili transizioni d → d (e f → f).
I principali meccanismi di transizione elettronica sono i seguenti:
Transizioni d → d o f → f: nei composti di coordinazione, l'interazione del metallo centrale con i
leganti ad esso coordinati provoca una separazione fra i cinque orbitali d (o i sette orbitali f, nel
caso dei lantanidi), che in assenza dei leganti hanno tutti la stessa energia. Gli assorbimenti che
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corrispondono alle transizioni fra orbitali d (o f) cadono nella regione del visibile, perché i dislivelli
sono relativamente piccoli; perciò i composti di coordinazione dei metalli di transizione e dei
lantanidi appaiono spesso colorati.
Transizione tra banda di valenza e di conduzione: tipica dei semiconduttori, in cui la banda di
valenza –l’ultima piena- e quella di conduzione –banda semipiena sovrastante quella di valenza-
sono così prossime da permettere facilmente l’eccitazione di elettroni dalla prima alla seconda.
Transizione tra orbitali molecolari delocalizzati: caratteristiche di sostanze organiche, con sistemi di
orbitali π de localizzati sull’intera molecola a formare una nube elettronica.
Transizioni per trasferimento di carica: spesso i composti di coordinazione, ma anche gli ioni di
metalli di transizione e i complessi molecolari mostrano una colorazione molto intensa. L'intenso
assorbimento nel visibile da parte di queste specie è associato a transizioni elettroniche che
producono forti variazioni del momento di polo. In particolare, per ioni e composti di
coordinazione si parla di trasferimento di carica intramolecolare perché si verifica un vero e
proprio di un elettrone dall'atomo centrale ai leganti, e viceversa. Il caso più frequente consiste
nel trasferimento di un elettrone dal legante al metallo. [4]
Nei materiali da me studiati il meccanismo prevalente è quello d-d.
2.4. Cause del colore nelle sostanze inorganiche
Le cause del colore in molecole organiche come i coloranti sono ormai conosciute in modo
soddisfacente. I fisici sono stati capaci di prevedere con certezza i tipi di composti sintetici che
produrranno coloranti brillanti e resistenti.
La spiegazione del colore delle sostanze inorganiche non è altrettanto facile, ma ormai da anni
sono state sviluppate numerose linee di pensiero.
Fajans, Weyl e i loro collaboratori hanno sviluppato le proprie teorie a riguardo basandosi sui
seguenti concetti chiave:
il colore nei solidi è dovuto alla natura degli atomi coinvolti
il colore è dovuto alle forze chimiche e elettriche che agiscono tra gli atomi.
Come nei composti organici si forma il colore dove esistono campi di forza chimica o elettrica
insaturi o scompensati, così nei composti inorganici valenze insature o legami deboli favoriscono
l’assorbimento della luce e intensificano il colore. Al contrario, la saturazione completa delle