6
felicità o di successo con un certo aperitivo, make-up o deodorante
che dir si voglia.
Horkheimer e W. Adorno hanno parlato in proposito di una vera e
propria reificazione delle reazioni più intime dell'uomo a confronto
con il messaggio pubblicitario; questo processo può spingersi a livelli
estremi: sotto la pressione incalzante proveniente dal mondo patinato
della pubblicità, valori ed entità astratte vengono spesso fatte
coincidere con il prodotto reclamizzato, tanto che avere personalità
può - per alcuni - essere sinonimo di denti bianchi e libertà dal
sudore e dalle emozioni.
Per questo suo carattere fortemente "materialistico" e funzionale alle
strategie di mercato risulta piuttosto comprensibile l'atteggiamento di
critici e studiosi di discipline economiche e linguistiche nei confronti
di questo fenomeno complesso e multisfaccettato (per voler mutuare
un termine quantomeno insolito nella lingua italiana e reso più
familiare da una nota pubblicità di una tintura per capelli!), un
atteggiamento che raramente si è rivelato neutrale. Ai tempi degli
spot televisivi scherzosi e intimamente rassicuranti di Carosello il
messaggio pubblicitario si inseriva quasi in sordina in una cornice di
intrattenimento ed era limitato ad un preciso spazio all'interno della
programmazione televisiva; il "fare pubblicità" a un prodotto era
percepito come qualcosa di un po' volgare, sicuramente subdolo e
ingannatore e si cercava così una sorta di giustificazione al suo
essere, una nicchia sicura in cui mascherare le pur irrinunciabili
intenzioni di marketing. I prodotti venivano riproposti
quotidianamente in un contesto familiare e borghese e ne venivano
decantate le lodi di utilità e "appetibilità" davanti a un pubblico
preparato ad accoglierle, disposto cioè per quei pochi minuti nell'arco
dell'intera giornata ad essere istruito sul formidabile potere
smacchiante del prodotto X o sulle inenarrabili qualità digestive
dell'amaro Y. E' proprio in questo frangente, agli albori della storia
della pubblicità italiana moderna, che si registra il rapido passaggio
da un linguaggio puramente informativo ad un linguaggio che sente
la necessità di enfatizzare, di usare e abusare fino ai limiti del buon
7
gusto di qualsiasi strumento previsto dalla nostra lingua per
sottolineare, marcare, ingigantire, ricorrendo sovente alla
manipolazione linguistica vistosa e all'iperbole.
Oggi la situazione si è radicalmente modificata. L'utente di TV e
stampa viene continuamente bombardato da slogan, messaggi e
consigli per gli acquisti; si può dire che non esista ormai più alcun
ambito della nostra esistenza sociale che non sia colorato (o sporcato,
a seconda dei giudizi) dalla presenza di quella che già Depero,
Marinetti e Palazzeschi definirono "arte destinata non ai musei ma
alla strada", ma che per alcuni rappresenta un mostro invadente e
astuto pronto a vendere l'anima al miglior offerente.
L'uomo della strada ha dovuto imparare a convivere con questa realtà
e si è in un certo senso assuefatto ai suoi effetti di persuasione; ciò ha
complicato non poco il lavoro del pubblicitario, che ha a che fare con
un pubblico sempre più esigente con un'enorme possibilità di scelta,
che con una semplice pressione del dito sul telecomando può fare la
fortuna o determinare il fallimento di uno spot. Non basta più
informare e ora non basta più nemmeno enfatizzare, crogiolarsi in
uno spreco di superlativi e termini come "nuovo", "il primo", "il
mago di", "una rivoluzione nel campo di" (anche se la tecnica
dell'iperbole non è stata di certo abbandonata dai copywriter). La
novità di cui si sente fortemente il bisogno è sapersi adeguare al
pubblico di oggi, più consapevole ed evoluto, che non si accontenta
di essere semplicemente informato o stupito, ma vuole essere
sedotto. A tal proposito la Altieri Biagi nella presentazione di una
antologia dedicata a questo tema osserva:
i pubblicitari se ne rendono conto: rinunciano sempre di più all'enfasi,
all'iperbole; introducono forme di understatement, di ironia, di
straniamento; abbandonano la manipolazione linguistica vistosa (quella
che deforma la parola, o instaura il neologismo, per esempio); affidano
il messaggio a parole non marcate, magari sfruttandone la polisemia, o
utilizzano figure retoriche raffinate, come la metafora, la metonimia, la
sineddoche; alla filastrocca, allo slogan in rima, preferiscono soluzioni
8
ritmiche meno vistose e più sofisticate, sottili suggestioni allitteranti.
Insomma, i pubblicitari migliori puntano sempre di più sulla dignità
artistica del prodotto e sul coinvolgimento estetico-emotivo dello
spettatore che deve essere sedotto visivamente e acusticamente.
2
Con lo sviluppo tecnologico e scientifico e con l'apertura di veri e
propri orizzonti nuovi grazie al progresso e alla ricerca, il
consumatore si è abituato a pretendere sempre di più, a poter scegliere
tra una miriade di opzioni all'avanguardia. Dal momento che la
pubblicità, e in particolare il linguaggio di cui essa è costituita, sono
ormai percepiti come parte integrante dei prodotti che rappresentano,
quasi fossero icone tangibili della loro essenza più recondita, il
progressivo affinamento dei gusti e delle preferenze del consumatore
non poteva non interessare da vicino anche il messaggio pubblicitario.
Proprio come un film o un videoclip, la pubblicità è assurta - ormai
secondo l'opinione di molti - al rango di opera d'arte, ne vengono
valutate e giudicate le peculiarità artistico-spettacolari, viene trattata
insomma a tutti gli effetti come oggetto culturale. Volendo fare un
paragone che utilizzi termini tipicamente pubblicitari, si può dire che
come qualsiasi articolo da cucina che si rispetti deve essere non solo
altamente funzionale, ma anche piacevolmente ergonomico, così
anche la parola pubblicitaria dovrà avere i requisiti fondamentali di
efficacia e incisività, ma non potrà trascurare aspetti come la
creatività e la ricerca di soluzioni linguistiche accattivanti e
innovative.
Come già accennato, il messaggio pubblicitario è un messaggio
multiplo, fatto di immagini, musica, gesti e soprattutto di parole,
materiale linguistico proveniente dalla lingua comune, dai linguaggi
tecnico-specialistici, dalla lingua della letteratura, dal gergo dei
giovani, dalle lingue straniere e, anche se in minor parte, dai dialetti
italiani. A seconda del target a cui è rivolto o del contesto in cui
appare un annuncio pubblicitario, il copywriter in questione tenterà
2
Altieri Biagi in Chiantera 1989: 11.
9
di operare una scelta linguistica oculata in merito all'ideazione dello
slogan, alla stesura della body-copy e all'eventuale creazione di nomi
di prodotto. Come fa osservare la Chiantera
3
, molte agenzie
pubblicitarie si fanno oggi affiancare in questo loro compito da
linguisti e semiologi, che, in quanto professionisti del linguaggio,
possiedono gli strumenti ideali per capire in anticipo se una certa
parola collocata in un certo contesto potrà fare la fortuna di un certo
prodotto. Questo dimostra che, nonostante l'importanza delle
componenti di musica e immagine nel messaggio pubblicitario sia
andata sempre aumentando negli ultimi anni, l'attenzione alla lingua
rimane viva tra i pubblicitari e, a mio avviso, cresce di giorno in
giorno anche tra i consumatori. Al gusto della citazione pubblicitaria
sembra ormai non sfuggire più nessuno, dall'uomo di cultura al
ragazzino inesperto, e non è raro sentire discutere con trasporto di
pubblicità che vengono definite belle e divertenti o noiose, ripetitive
e banali. Non c'è dubbio: la pubblicità è universale e tutti si sentono
in grado di criticarla positivamente o negativamente ed è proprio
questo forse uno degli aspetti che personalmente ho ritenuto più
interessanti e che mi hanno spinto a voler condurre un'analisi su
questo argomento. Tutti almeno una volta nella vita ci siamo fermati
a riflettere su uno slogan pubblicitario ammirandone l'originalità o
deprecandone la banalità; probabilmente non è azzardato dire che
all'uomo comune è data in questo modo l'opportunità, almeno per
pochi istanti, di calarsi nei panni del linguista e del critico. Con
questo non si intende ovviamente denigrare o minimizzare la figura
di coloro che per professione studiano la lingua, ma si vuole
semplicemente sostenere con forza il carattere universale e
coinvolgente del fenomeno pubblicità, un'arte popolare che nutre e si
nutre della lingua comune, che trasforma e si lascia trasformare dalle
abitudini linguistiche della gente, che si fa quasi poesia senza mai
dimenticare le strategie di mercato. E' forse uno degli esempi più
3
Chiantera 1989: 30.
10
emblematici di lingua viva, che cresce con l'uomo e con lui si
trasforma.
Sul linguaggio pubblicitario esiste un'ampia letteratura, cosicché
molti dei suoi aspetti sono stati ripetutamente indagati. Linguisti e
non linguisti hanno studiato i messaggi pubblicitari al fine di
coglierne, ad esempio, le caratteristiche grammaticali, sintattiche e
stilistiche e spesso si sono trovati in disaccordo in merito al giudizio
qualitativo da attribuire a questo particolarissimo codice linguistico.
Il linguaggio pubblicitario gode di un grande prestigio verbale presso
un'ampia schiera di parlanti, cosa che ha contribuito a far aumentare
il sospetto con cui linguisti e storici della lingua hanno guardato al
registro verbale dei messaggi pubblicitari; il linguaggio utilizzato in
pubblicità veniva visto come una possibile causa dell'anemia della
lingua e della mercificazione linguistica, insomma come un cattivo
modello di comportamento linguistico.
Il rapporto che si instaura fra il linguaggio della pubblicità e la lingua
italiana - scrive la Corti - è duplice: da una parte questo linguaggio
sfrutta e accentua le possibilità espressive dell'italiano contemporaneo,
d'altra parte, tendendo a creare la parola-merce, cioè l'assoluta
corrispondenza fra il marchio e l'oggetto, favorisce quel fenomeno di
anemia della lingua, che è oggi in uso chiamare reificazione o
mercificazione linguistica.
4
Il linguaggio pubblicitario, è stato scritto, può favorire
"l'analfabetismo sintattico"
5
, il conformismo e l'alienazione
linguistica. Le manifestazioni linguistiche del messaggio
pubblicitario sono state considerate
pericolosi veicoli per una convincente trasmissione di forme aberranti,
aperti attacchi al buon gusto e incaute estensioni di formule abnormi,
4
Corti 1978: 121.
5
Quest'espressione compare in un articolo di Giacomo Devoto apparso sul "Corriere della sera" il 13 dicembre 1968. In
tale articolo si parlava dell'"analfabetismo sintattico della lingua dell'uso dei Grandi Magazzini".
1
che i canali di diffusione, l'insistenza nel messaggio e la passività
ricettiva dei destinatari contribuiscono a rafforzare nell'uso.
6
Il linguaggio pubblicitario, a causa delle sue caratteristiche di
universalità e dell'abitudine dei parlanti a citarlo e spesso ad imitarlo,
può inoltre condurre, come nota Grassi, "all'automatismo linguistico
e, in sostanza, all'ozio intellettuale"
7
.
A conclusioni simili era già giunto nel 1954 Marcel Galliot
8
in
un'ampia opera che, pur riferendosi esclusivamente alla situazione
francese, è di fatto esemplificativa anche di quella italiana. A detta di
Galliot, la lingua pubblicitaria è una lingua che ha un solo scopo, non
quello di "se faire comprendre", ma piuttosto quello di "faire de
l'effet"
9
. A tal fine, il pubblicitario costruisce frasi che hanno un
andamento telegrafico, prende le parole a destra e a manca
saccheggiando termini tecnici, scientifici, dialettali, esotici, colti e,
talora, ne crea addirittura di nuovi. E' un'azione di assemblaggio che
crea a livello lessicale un abito d'Arlecchino, una lingua patchwork.
Le parole più amate dal pubblicitario sono le parole-choc e lo slogan
è il coronamento dei suoi sforzi, lo slogan infatti è la "quintessenza
della pubblicità"
10
.
Ma c'è anche chi, come Mario Medici
11
, ha parlato di un "alto
numero di meriti generali e specifici" che il tanto "vituperato"
linguaggio pubblicitario possiede. Egli afferma infatti che
6
Cortelazzo 1973. Le riflessioni di Cortelazzo così continuano: "Come in altre accuse di questo tipo, parte di vero c'è:
non che tutte le deviazioni abbiano prospettive, probabilità e capacità di inserirsi stabilmente nel tessuto della lingua,
anzi la maggior parte delle volte rappresentano solo un episodio effimero di costume più che un accatto linguistico
permanente (…), ma accanto a singoli casi d'innegabile influsso (…)vi sono certamente numerosi esempi di influsso
benefico, che nessuno conta di misurare non rientrando nel contrasto o nella differenza, ma nella norma. (…) L'influsso
positivo del linguaggio pubblicitario è garantito, del resto, dallo stesso modello linguistico di base che esso adotta: la
lingua comune italiana, non nelle sue espressioni colloquiali disadorne e trascurate, ma proprio nella sua
decodificazione più stretta e conformistica".
7
Grassi 1967.
8
Galliot 1954.
9
Ibidem: 14.
10
Ibidem: 536.
11
Medici 1973: 7.
12
la comunicazione pubblicitaria ha dimostrato e sollecitato senza
contaminazioni le capacità e le possibilità dell'italiano come lingua
moderna agile e funzionale, in una serie di spinte e controspinte
settoriali, utilitarie, letterarie, usuali, sociopsicologiche, in un dilatato e
accelerato processo di europeizzazione
12
.
Il linguaggio pubblicitario ha senza dubbio esercitato un'influenza
positiva nel favorire modi sintattici più agili e lineari (si pensi ad
esempio al contributo dato alla diffusione della costruzione diretta o
della frase nominale) e, nel contempo, è stato per molti il primo
gradino che ha consentito il delicato passaggio dal dialetto alla
conquista dell'italiano. Ha cioè contribuito a far nascere il senso di
appartenenza alla comunità linguistica italiana.
Da questa breve panoramica di opinioni espresse da illustri linguisti
riguardo il valore della lingua pubblicitaria si evince facilmente
quanto siano numerosi e spesso contrastanti gli aspetti e le
angolazioni da cui è possibile valutare tale linguaggio. Esso è stato di
volta in volta classificato secondo le definizioni più diverse.
Per De Mauro il linguaggio pubblicitario è un linguaggio
"subalterno"
13
da molteplici punti di vista: in primo luogo i segni
linguistici sono subalterni alle immagini, ma, anche qualora queste
non fossero presenti, il segno conserva la sua funzione subalterna, in
quanto deve comunicare solo per orientare il recettore verso una
scelta. In secondo luogo si può dire che il linguaggio pubblicitario è
subalterno, poiché riprende e asseconda usi linguistici già affermati
ed è, utilizzando le parole di De Mauro, "la sedimentazione di tutte le
banalità linguistiche più largamente sperimentate in altri e più attivi
settori della vita sociale"
14
.
La Altieri Biagi definisce il linguaggio pubblicitario una lingua
"venduta"
15
, in cui la "merce" proposta è il discorso stesso e per la
12
Ibidem: 8.
13
De Mauro 1967: 7.
14
Ibidem: 7-8.
15
Altieri Biagi 1979.
13
costruzione del quale il copywriter si mette alla ricerca di "esche"
linguistiche allettanti,
non esitando a catturare la terminologia prestigiosa della scienza della
tecnica, a riprodurre le manipolazioni tipiche della lingua letteraria,
talvolta a sfruttare i moduli della lingua colloquiale, con le sue
ridondanze, le sue approssimazioni lessicali, la sua sintassi
zoppicante.
16
Mario Medici parla di un "fantalinguaggio che travalica o forza al
massimo le possibilità formali di una iperproiezione rarefatta della
concretezza semantica"
17
e cita in merito esempi di composti o
conglomerati sintattici come gustolungo, ondaviva, boccasana,
gustapremi, ecc, che sono ottenuti attraverso i modi di sommazione
più diversi.
Altri linguisti e critici hanno definito la lingua della pubblicità
addirittura "marinistica", "ludica" o come un'entità "in margine alla
lingua"; in generale prevale la sensazione di trovarsi dinanzi a un
mosaico frastagliatissimo fatto di tessere molto diverse fra loro, che,
a seconda delle combinazioni, possono dar vita ad armonie o
disarmonie linguistiche.
Da quanto detto fin qui risulta chiaro come gli slogan ed i messaggi
pubblicitari, nel momento stesso in cui vengono concepiti, siano
imbevuti di una certa cultura tipica di un determinato ambiente
geografico, sociale e linguistico. Il linguaggio pubblicitario si fa di
volta in volta portavoce ed espressione di desideri e necessità, che
possono essere ritenute fondamentali da alcune persone e
assolutamente superflue da altre. Non solo, uno stesso prodotto
ugualmente appetibile agli occhi di popoli diversi e lontani deve, in
certi casi, essere pubblicizzato secondo tecniche e strategie anche
molto differenti. Il pubblicitario, cioè, deve possedere una
conoscenza approfondita non solo della lingua ma anche della cultura
16
Ibidem: 318.
17
Medici 1974.
14
del pubblico a cui si rivolge e deve quindi saper intuire e andare a
toccare quei tasti in grado di esercitare un forte potere di attrazione -
il più delle volte inconscia - su un certo target.
Come sostiene Bezuidenhout
advertisements are not created in a cultural void; they are anchored
within a certain culture with all its subcultures (…). Behaviour,
customs, habits, beliefs and norms form the basis of a culture and
differentiate one culture from another on the basis of this.
18
Possono quindi sorgere dei problemi qualora un testo pubblicitario
"nato" in seno a una certa cultura debba essere tradotto in un'altra
lingua; il più delle volte, infatti, non è sufficiente riportare nel nuovo
testo gli equivalenti linguistici della lingua di arrivo, bensì è
necessario adattare il messaggio per ricreare le stesse implicazioni
sociali e culturali e cercare di ottenere simili effetti sonori, linguistici
e visivi.
Nelle pagine che seguiranno si cercherà di analizzare anche questo
interessante aspetto della lingua della pubblicità, ponendo particolare
attenzione al confronto fra pubblicità in lingua italiana e in lingua
inglese e provando a capire quali meccanismi sottendono al compito
delicato e stimolante di tradurre non solo parole, ma culture, non
segni linguistici isolati, ma combinazioni lessicali, fonetiche e
stilistiche che vogliono "sedurre" e convincere.
18
Bezuidenhout 1998: 2.
15
2. SEMIOTICA E PUBBLICITA'
16
2.1. Il segno
Gli esseri umani, come la maggior parte degli animali, sono in grado
di comunicare verbalmente e non verbalmente. Essi fanno uso di
parole, simboli, suoni e strumenti paralinguistici per inviare
messaggi ai soggetti che li circondano; più in generale possiamo dire
che si servono di segni - entità od oggetti che si riferiscono e
richiamano altri concetti - mutuati dagli ambiti più diversi
(linguistico, sonoro, musicale, visivo, gestuale, ecc.).
19
La scienza che si occupa dello studio dei segni e delle loro funzioni è
la semiotica o semiologia. Ferdinand De Saussure, linguista e padre
fondatore di questa disciplina, così la definisce:
Si può dunque concepire una scienza che studia la vita dei segni nel
quadro della vita sociale; essa potrebbe formare una parte della
psicologia sociale e, di conseguenza, della psicologia generale; noi la
chiameremo semiologia (dal greco semeion "segno"). Essa potrebbe
dirci in che consistono i segni, quali leggi li regolano. Poiché essa non
esiste ancora non possiamo dire che cosa sarà; essa ha tuttavia diritto
ad esistere e il suo posto è determinato in partenza. La linguistica è solo
una parte di questa scienza generale, le leggi scoperte dalla semiologia
saranno applicabili alla linguistica e questa si troverà collegata a un
dominio ben definito nell'insieme dei fatti umani.
20
De Saussure descrive il linguaggio come un insieme di segni che
sono dotati di significato in virtù delle loro reciproche relazioni.
21
Ogni segno è costituito da un significante (la forma esteriore del
segno o immagine sonora) e da un significato (il concetto che il
segno rappresenta o immagine mentale). La relazione tra il
19
Harris 1992: 1. "If we might say, put, that communication consists in some sense in the moving of information from
one place to another and one time to another and that effective communication requires the material presence of an
object or entity which refers back to something other than itself, then an object or entity of this sort is a sign".
20
De Saussure 1922, trad. it. 1967, 1999
15
: 26.
21
Cook 1992: 61.
17
significante e il significato è detta significazione ed è assolutamente
arbitraria.
Mentre l'attenzione di De Saussure, in quanto linguista, si concentra
primariamente sugli aspetti linguistici del segno e della semiosi (così
si definisce l'elaborazione del segno), Charles Peirce amplifica lo
spettro di studio di questa disciplina, descrivendo i segni come:
a class which includes pictures, symptoms, words, sentences, books,
libraries, signals, orders of command, microscopes, legislative
representatives, musical concertoes, performances of these
22
Dal suo punto di vista, quindi, il segno trascende le barriere
linguistiche ed interessa tutti gli elementi e gli strumenti che rendono
possibile la comunicazione. Tutto può diventare segno, secondo
l'ottica di Peirce, a patto che si crei una relazione tra l'oggetto e il
segno che ad esso si riferisce, che, grazie alla sua interpretazione,
produce un nuovo segno, il suo "interpretante". È possibile
riscontrare delle somiglianze tra il segno di Peirce e il significante di
De Saussure e tra l'interpretante di Peirce e il significato di De
Saussure, ma rispetto all'approccio saussuriano, Peirce introduce un
terzo elemento, l'oggetto o significato esteriore.
23
La funzione principale dei segni è creare o generare un significato.
Un segno, a seconda del contesto e della cultura specifica in cui
compare, può assumere diversi significati anche contrastanti fra loro.
Fiske
24
afferma che il significato è costituito dall'interazione
dinamica fra segno, interpretante e oggetto: esso è collocato in un
determinato momento storico e può cambiare nel tempo.
Peirce distingue tre tipi di segno, ognuno dei quali trasmette un
significato e si trova in un diverso rapporto con l'oggetto a cui si
riferisce. Egli sostiene che:
22
Peirce citato in Gorleé 1994: 50.
23
Fiske 1982: 47.
24
Ibidem: 49.
18
every sign is determined by its object, either first, by partaking in the
character of the object, when I call the sign an Icon; secondly, by being
really in its individual existence connected with the individual object,
when I call the sign an Index; thirdly, by more or less approximate
certainty that it will be interpreted as denoting the object in sequence of
habit…when I call the sign a Symbol.
25
Nella categoria delle icone, che sono caratterizzate dalla somiglianza
visiva o sonora con l'oggetto a cui si riferiscono, rientrano ad
esempio le fotografie, le cartine geografiche, i diagrammi o le
onomatopee nell'ambito strettamente linguistico.
Esempi di simbolo sono invece un semaforo rosso o la parola stop, il
cui rapporto con i relativi oggetti non è fondato su somiglianza o
affinità, bensì su una pura convenzione o accordo vigente presso i
riceventi il segno.
I segni definiti indici sono collegati direttamente (secondo un
rapporto di causa o di dipendenza) con gli oggetti a cui si riferiscono;
uno starnuto è ad esempio un chiaro indice di raffreddore o disturbo
allergico e il fumo può indicare la presenza di un fuoco.
Qualsiasi cosa può essere interpretata come un'icona, un indice o un
simbolo di qualcos'altro o come una combinazione di queste
tipologie di segno. I film e la televisione, e di conseguenza anche la
pubblicità che fa uso di questi mezzi di comunicazione, utilizzano
contemporaneamente icone (suono ed immagini), simboli
(linguaggio e scrittura) ed indici (le scene filmate che possono
richiamare direttamente altri concetti o situazioni).
26
Nella comunicazione quotidiana è possibile che un singolo segno
isolato generi un certo significato, ma è molto più frequente dover
operare o decifrare combinazioni di segni organizzati in messaggi,
25
Peirce citato in Fiske 1982: 51.
26
Chandler 1997.
19
entità strutturate più complesse che si trovano in uno stretto rapporto
di dipendenza dalla cultura o dal contesto in cui vengono elaborate.
27
I messaggi semiotici possono essere costituiti da icone, indici o
simboli e sono caratterizzati rispettivamente da rapporti di
somiglianza, dipendenza o altro rapporto diretto e convenzione
arbitraria con l'oggetto reale a cui fanno riferimento. Spesso
percepiamo messaggi che sono il risultato di combinazioni fra tipi di
segno diversi; come afferma Jakobson
28
, infatti, "most messages are
a combination of two or three aspects stacked in contextually
appropriate hierarchy, which shifts over times as the context alters".
2.2. La pubblicità come segno
"Advertising may be viewed as the construction of semiotic worlds
for the rhetorical purpose of swaying purchasers to buy what is
advertised", così prende avvio il breve ma interessante saggio di Alan
C. Harris
29
intitolato Sell! Buy! Semiolinguistic manipulation in print
advertising. L'autore pone l'accento sul potere della parola
pubblicitaria come mezzo di persuasione più o meno occulta,
raggiunta spesso grazie ad un processo di manipolazione linguistica,
che permetta di elaborare un messaggio coinvolgente e accattivante al
fine di catturare l'attenzione del potenziale acquirente. L'obiettivo del
pubblicitario secondo Harris è, quindi, la creazione di mondi di volta
in volta nuovi, definiti "mondi semiotici" o realtà simboliche,
esistenti indipendentemente dal mondo fisico, che vadano ad
imprimersi con forza nell'immaginario di colui che riceve il
messaggio e giustifichino ai suoi occhi la propensione verso il
prodotto o il servizio pubblicizzato (che si riscontra nel ricevente in
caso di messaggio efficace).
27
Bezuidenhout 1998: 30. "The communication process (and semiosis too) takes place within a context that affects its
receivers and in turn is affected by its context".
28
Jakobson 1970: 26.
29
Harris 1989: 1.