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riguarda la situazione della periferia nord-est di Roma considerando l’integrazione degli immigrati
dal punto di vista sociale e lavorativo.
Il fenomeno migratorio è un elemento dinamico in continua crescita, poiché oggi dopo alcuni
decenni di immigrazione sul territorio italiano la situazione è profondamente mutata. Non è più
possibile definire le migrazioni come fenomeni di breve durata, così come l’Italia non è più
solamente un Paese di transito: oggi siamo di fronte ad insediamenti stabili, a matrimoni misti e
all’inserimento di molti bambini, figli di immigrati nelle scuole italiane. Questi fattori mettono in
luce un cambiamento all’interno del progetto e del percorso migratorio di molti extracomunitari.
Prendendo in considerazione i contributi di sociologi che si sono occupati dell’immigrazione è
evidente che l’Italia ha visto molto rapidamente ed in maniera irrefrenabile mutare la propria
situazione interna, forse anche in maniera più rilevante che negli altri paesi europei. Dalla fine degli
anni ’60 con la libera circolazione comunitaria, la transizione dall’emigrazione all’integrazione, le
prime politiche scolastiche e di insediamento si cominciarono a guardare le grandi questioni civili
economiche e morali legate all’emigrazione; in quegli anni si pensava che si stavano facendo grandi
passi avanti verso un equo riconoscimento dei diritti universali di ogni individuo e forse era vero,
ma oggi non possiamo dire che i passi fatti sino ad oggi siano abbastanza poiché le nostre
metropoli, le periferie delle nostre città le tensioni interetniche spesso sfociano in conflitti, rivolte e
nel sangue.
Le sommosse non pongono solamente problemi per il riconoscimento politico, ma la geografia del
problema e la localizzazione dirigono gli interessi e l’accento sul tema della segregazione urbana. I
quartieri che sono più coinvolti si distinguono per una più forte concentrazione di popolazione
precaria e, come nei casi riscontrati in Francia ed Inghilterra, di immigrati di prima e seconda
generazione; quartieri che nascondono grandi insiemi di case popolari dove spesso gli abitanti sono
accomunati da una omogeneità sociale verso il basso dove la “mixitè” viene vissuta nelle abitazioni,
nelle scuole e si riflette sull’integrazione economica, sociale e politica mostrandosi evidente di
fronte alle discriminazioni che l’accompagnano.
Di certo la situazione non viene guidata verso una risoluzione dai mass media o dai governi
impegnati a rincorrere il favore del proprio pubblico, dei cittadini; bisognerebbe partire dal guardare
al fenomeno delle migrazioni considerandolo con una affinità maggiore al concetto di movimento
più in generale
1
, questo già permetterebbe di cominciare a slegare le migrazioni da logiche
integrazionistiche di vario genere e dal peso che le nostre società danno alla presenza del diverso.
1
Salt, 1996.
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Capitolo 1
1.1-L’Immigrazione in generale
Dalla fine del secondo dopoguerra ad oggi e con un notevole incremento negli ultimi dieci anni
abbiamo assistito ad uno dei periodi di maggiore crescita e sviluppo sulla scena mondiale delle
migrazioni internazionali. Tale evoluzione sembra muoversi insieme ai più generali cambiamenti
dei sistemi economici e sociali dimostrando la grande capacità delle migrazioni come fenomeno
sociale autonomo di adattarsi alle nuove realtà. Il risultato di tutto questo è stato l’allargamento dei
confini delle aree migratorie e la diffusione di nuovi flussi che ridisegnano le relazioni e le direttrici
del sistema migratorio internazionale.
Come recita la definizione di “immigrato” dello IOM
2
gli immigrati sono “tutti quelli che non sono
nati nel paese ospitante, quelli che non hanno cittadinanza del paese in cui vivono e tutti gli
stranieri residenti legalmente o illegalmente”.
Ciò che rende ancora più attuale il fenomeno delle migrazioni oggi è la sua caratteristica di essere
uno dei fenomeni che maggiormente manifesta i problemi e le opportunità date dalla
globalizzazione. Alla base delle motivazioni che spingono una persona a migrare ci sono differenti
ragioni, oggi queste si sono moltiplicate a dismisura considerando le differenti esigenze e difficoltà
che muovono i migranti, potremmo così riassumere le principali:
▫ Motivazioni economiche: disoccupazione, povertà, fame, denutrizione, mancanza dei servizi di
base.
▫ Motivazioni politiche: corruzione, malgoverno, negazione o mancata tutela dei diritti umani
universali, oppressione delle minoranze, persecuzione.
▫ Motivazioni ideologiche: opposizione alla leadership politica corrente del proprio paese,
divergenze politiche ideologiche, discriminazione o persecuzione religiosa.
2
IOM, organizzazione internazionale per le migrazioni; agenzia dell’ONU per le migrazioni.
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Un aspetto che contraddistingue probabilmente più di ogni altro i movimenti migratori è la loro
“inevitabilità”: gli esperti tendono ad associarvi una sorta di ineluttabilità dalla quale i paesi ricchi
non sembrano in grado di sottrarsi. Il fenomeno migratorio si presenta come un elemento dinamico
in continua crescita ed è caratterizzato dalla mobilità di uomini e donne di ogni età, in maggioranza
giovani maschi, che provengono in gran parte dalle aree economicamente deboli del pianeta,
migrando da un continente all’altro per motivi politici, etnici o religiosi, alla ricerca di migliori
condizioni di vita. La ricerca di uno spazio di vita diverso e migliore ha fatto in modo che 12
milioni di persone siano emigrate dall’Europa centro-orientale tra il 1950 ed il 1991, un movimento
di un ingente numero di persone che si spostano verso aree geografiche economicamente più forti o
meno tormentate politicamente. Si tratta di persone disposte a lasciare la propria patria, ad
affrontare gli inconvenienti ed i rischi del viaggio e del nuovo insediamento, a lavorare duramente
in condizioni difficili, pronte ad apprendere una nuova lingua, a incontrare nuove culture, ambienti
religiosi e modi di vivere diversi.
I paesi occidentali costituiscono il naturale polo di attrazione per queste persone; il consistente
sviluppo economico ed un basso tasso di natalità hanno determinato una domanda di manodopera
generica difficilmente reperibile nel mercato del lavoro nazionale e creato uno squilibrio
generazionale che si ripercuote anche sul sistema pensionistico.
E’ possibile identificare tre momenti del ciclo migratorio
3
articolati in funzione della durata sociale
di inserimento nella società del Paese ospitante. Il primo momento è caratterizzato da una fase di
marginalità salariale; è infatti attraverso il lavoro salariale che l’immigrato da origine alla sua
esistenza sociale nel Paese d’accoglienza; pertanto l’immigrato ha inizialmente solo un rapporto di
tipo economico con il Paese ospite. Il secondo momento del ciclo migratorio è caratterizzato dalla
funzione demografica dell’immigrazione che si ottiene dopo una permanenza compresa tra i 5 ed i
15 anni nel Paese di arrivo ed è caratterizzata da matrimoni e ricongiungimenti familiari.
Infine troviamo il momento della stabilizzazione e della reciproca inclusione che emerge dal
riconoscimento fra le parti in causa dell’altro quale elemento significativo dell’ambiente. Questo
non esclude la presenza di conflitti, discriminazione e marginalizzazione, ma al tempo stesso è
possibile per l’immigrato operare sul territorio e nel contesto sociale; il cittadino e di conseguenza
l’immigrato possono operare delle scelte sociali che vanno dall’invisibilità sociale al voler mettere
in evidenza la categoria etnica di provenienza.
Oggi l’Europa ed i suoi nazionalismi sono messi in discussione ed in difficoltà a causa dei processi
di globalizzazione che sempre più si espandono e generano nuovi localismi e nuove identità
culturali e territoriali, e di conseguenza se vogliamo girare questa affermazione i naturali mutamenti
3
Secondo Dassetto.
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che influenzano il pianeta come la globalizzazione, i localismi e le differenze culturali vengono
messi a dura prova dalle Nazioni europee e da tutti i nazionalismi che sembrano risvegliarsi in ogni
angolo del mondo, accompagnati da nuove forme di fondamentalismi e xenofobia.
Sul piano culturale il fenomeno immigrazione genera reazioni diverse e conflittuali. Il rifiuto
pregiudiziale dello straniero o l’identificazione altruistica con chi si trova in una condizione di
bisogno sono sentimenti opposti che trovano diversa espressione in forme che spesso sono
estremizzate e perlopiù demagogiche. La crescente presenza di soggetti provenienti da aree culturali
diverse determina il bisogno di un’interazione e di una compatibilità che è difficile da trovare e che
richiede delle regole, regole che devono essere trovate nel contesto della nostra cultura ed identità
nazionale.
Con l’insediamento dei flussi migratori per la società ospite si apre la prospettiva di passaggio a una
società multi-etnica, multi-razziale e multiculturale, così come si rende necessaria una
responsabilizzazione per quanto concerne sia la promozione dell’integrazione sociale degli
immigrati, sia la difesa della loro identità culturale. Ma la formazione di questo tipo di società non
deve essere di per sé una soluzione statica su cui fossilizzare il fenomeno migratorio, bensì deve
costituire un processo dinamico orientato all’apertura e alla disponibilità umana. Occorre superare
l’idea che l’esito auspicabile del processo migratorio sia l’assimilazione degli immigrati intendendo
con ciò l’abbandono delle norme apprese nella cultura di origine e l’adeguamento totale ai modelli
culturali della nuova società a favore del più flessibile concetto di integrazione, in base al quale i
gruppi immigrati accettano alcuni valori della nuova società e ne mantengono altri della propria
cultura d’origine. Si tratta di un presupposto necessario, ma non sufficiente, affinché gli immigrati
possano diventare elemento attivo e propositivo di una società basata sul pluralismo etnico.
L’immigrazione rappresenta per le società d’accoglienza un’opportunità di arricchimento culturale
ma queste devono essere in grado di affrontare i conflitti che inevitabilmente questa convivenza può
scatenare.
Il concetto di integrazione è cruciale, esso presuppone l’insieme dei diritti e dei doveri che spettano
ai soggetti immigrati ospiti che hanno il diritto di diventare cittadini nel rispetto delle leggi del
paese ospitante. Il paese d’arrivo si deve dare regole e consuetudini che disciplinano la convivenza
permettano e stimolino l’incontro ed il dialogo. Favorire questo processo implicitamente significa
negare l’illegalità, l’emarginazione, la ghettizzazione.
La scelta di un percorso multiculturale sembra possibile se questo viene attuato in un quadro di non
esaltazione e di non istituzionalizzazione delle differenze e contemporaneamente a politiche che
riducano le discriminazioni strutturali.
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Le migrazioni di massa esplose nel secolo XIX all’inizio della rivoluzione industriale hanno visto
coinvolto come punto di partenza l’Europa e come punto di arrivo le Americhe ed in parte i territori
coloniali si inseriscono nel grande fenomeno sociale, politico e culturale che ha portato alla nascita
ed al consolidamento di quella modernità che avrebbe poi condotto ai tempi odierni. E’ in questo
quadro storico e nel momento ideologico della nascita dello Stato/Nazione che è stata vista, letta e
gestita la grande emigrazione di massa soprattutto negli Stati Uniti il paese che maggiormente ha
riflettuto sul fenomeno, visto che gli Usa sono nati come nazione proprio dall’apporto
dell’immigrazione.
Le letture sociologiche e le soluzioni politiche elaborate dalle società occidentali implicate nel
fenomeno nè sono una conseguenza: per salvaguardare l’unità dello Stato/Nazione sono prevalse
teorie e prassi politiche di “assimilazione”.
Nella nostra epoca di globalizzazione e della crisi dello Stato/Nazione il fenomeno migratorio è
diventato planetario e mondializzato. Nel giro di pochi decenni i flussi migratori stanno
coinvolgendo ormai duecento milioni di persone e stanno interessando tutti i Paesi del nostro
pianeta; tutti i Paesi del mondo infatti sono implicati nelle migrazioni o come Paesi di emigrazione
o come Paesi di immigrazione o come Paesi misti (di emigrazione e di immigrazione). E’ in questo
nuovo contesto emerge ovunque una nuova sfida politica.
Le letture sociologiche e le soluzioni politiche si concentrano a partire dagli anni ’60 del XX secolo
sul “multiculturalismo”. Appare superata la visione assimilazionista e alla ricerca della coesione
sociale di società multiculturali di fatto si punta sulla ricerca e sull’attuazione di politiche che
mettono in primo piano le diversità etnico culturali sia per promuoverle che per combatterle.
Purtroppo gran parte della riflessione e della produzione letteraria sull’argomento è stata pensata e
prodotta principalmente dalla società occidentale, per aprire un varco e per intraprendere un nuovo
modello di studio e di comprensione dell’altro occorre un grande lavoro di autocritica verso la storia
ed i processi della nostra cultura, così come ogni cultura dovrebbe fare.
Il mito del “melting pot” secondo il quale doveva nascere un cultura americana nuova che si era
trascinato per decenni entra definitivamente in crisi nell’immediato dopoguerra quando si rendono
evidenti le scollature della società americana.
La rivoluzione dei diritti civili degli anni ’60 nasce dalla presa di coscienza di uno stridente
paradosso: la convivenza dell’ideale americano di uguaglianza con la pratica della discriminazione
di una consistente minoranza di americani. L’intera nazione è costretta a riconoscere che
contrariamente a quanto affermava l’ideologia nazionale non tutti gli americani avevano accesso
alle stesse opportunità. Così al modello assimilazionista subentra nel dibattito culturale americano il
modello “integrazionista”. Sull’onda del movimento per i diritti civili soprattutto per la popolazione
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afro-americana vengono attribuiti spazi di autonomia a gruppi etnici che ottengono
progressivamente il diritto alla differenze ed il riconoscimento della loro identità, anche se tale
diritto risulta limitato ed applicabile soltanto nei limiti dello loro enclave. E’ la stagione della
“ethnicity”, la “rinascita etnica” investe anche i discendenti degli immigrati europei che
sembravano risultare già integrati, rinascita tanto più sorprendente in quanto interessava gruppi che
non subivano discriminazioni per la loro origine. Nella società americana permane al centro dello
spazio socio-culturale la monocultura bianca nei cui confini però vengono incluse anche se in
posizione marginale altre forme culturali.
Il multiculturalismo economico che si sta diffondendo attraverso la globalizzazione propone una
gestione pragmatica delle differenze etniche e culturali che vengono all’inizio sfruttate some
argomento promozionale con la produzione di prodotti adatti al gruppo stesso, un “modello
commerciale”.
Ma dallo sfruttamento commerciale si deve passare ad una riflessione più approfondita della
convivenza delle differenze in una società come quella americana che sta conoscendo una nuova
ondata migratoria molto consistente che proviene in gran parte dall’america latina, questa presenta
sotto vari aspetti una maggior distanza culturale rispetto alle tradizionali immigrazioni dal ceppo
europeo. D’altronde anche in Europa accanto all’emigrazione di manodopera intraeuropea inizia
un’immigrazione sempre più consistente di gruppi di provenienza extraeuropea o, come viene
chiamata, extracomunitaria. Di fronte a questa differenza l’integrazione intesa in modo tradizionale
non funzionava più. Le nuove componenti della società derivanti dall’immigrazione sembravano
non adattarsi neppure gradualmente alla cultura ed alla popolazione maggioritaria contraddicendo al
principio della componente tempo nel processo di assimilazione e di integrazione; i nuovi gruppi
etnici sembravano rivendicare la loro diversità con il passare del tempo, contrariamente a quanto
avevano previsto i modelli sviluppasti formulati in Europa fino ad oggi, quasi consolidassero la loro
identità etnica.
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1.2-Il fenomeno migratorio nel contesto europeo
Alla fine della seconda guerra mondiale l’Europa è confrontata con un complesso programma di
ricostruzione: il nazismo prima e la guerra avevano prodotto oltre quaranta milioni di morti (sei
milioni circa nei campi di sterminio nazisti, cinque milioni di soldati tedeschi morti in guerra, venti
milioni di russi, due milioni di polacchi, tre milioni di civili tedeschi…) e aveva raso al suolo intere
città, soprattutto in Germania. Alla ricostruzione demografica e materiale è da aggiungere la
ricostruzione politica, sociale, culturale e “spirituale” dell’Europa. Le migrazioni entrano in modo
strutturale nella ricostruzione materiale dell’Europa, anche se di fatto sono rimasti volutamente
esclusi dalla ricostruzione politica, sociale e culturale europea.
Alcuni fenomeni sociali si sviluppano progressivamente nel tempo ed è difficile acquisirne piena
conoscenza senza confrontarli con dati statistici e senza basarsi sulla memoria storica. Uno di questi
è senza dubbio il processo costituito dalle migrazioni internazionali che sta trasformando la maggior
parte delle società del mondo in società multietniche, multirazziali e multiculturali. Questo processo
si evolve di pari passo con le trasformazioni demografiche, economiche, sociali e culturali in atto
nel mondo quale segno di un’epoca in crisi e di transizione che è destinata a durare a lungo.
È possibile distinguere tre fasi del fenomeno migratorio nel contesto europeo:
1)Una prima fase compresa tra il 1950 e il 1967 definita “della ricostruzione post-bellica e
dell’espansione strutturale” in cui si avverte la presenza di una forte domanda di lavoro proveniente
dalle aree d’immigrazione poste nei paesi industriali dell’Europa centro-settentrionale, già in
precedenza importatori di manodopera anche non specializzata. Per l’Italia questo è un periodo
d’emigrazione sia verso l’esterno che all’interno del Paese con spostamenti dal sud verso il nord o
comunque verso le aree industrializzate. Fin dall’inizio però si percepisce che la tipologia di
un’immigrazione formata soltanto da una manodopera funzionale ai mercati nazionali del lavoro sia
piuttosto una scelta politica: si vuole confermare un mito, che non corrisponde alla realtà per precisi
motivi di sfruttamento economico dei migranti e per precisi scopi di politica interna.
2) La seconda fase compresa fra il 1967 e il 1980 definita “della crisi strutturale e della nuova
divisione internazionale del lavoro” è caratterizzata da una prima crisi economica che coinvolge i
Paesi che tradizionalmente importavano lavoratori. E’ in questo periodo che infatti si verifica la
crisi energetica del 1973 che determina un po’ in tutte le nazioni europee con una forte tradizione
immigratoria il blocco delle entrate, crisi causata dalla prossima saturazione del mercato
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internazionale. In questa fase si affermano flussi provenienti da Paesi extraeuropei e si attua una
“parziale trasformazione” dei Paesi dell’Europa meridionale da aree di emigrazione in aree di
immigrazione;
3) La terza fase ha inizio nei primi anni ‘80 ed è tuttora in corso. In questo periodo definito “della
crisi globale dei Paesi sottosviluppati e della ripresa delle economie capitalistiche” si assiste da
una parte ad una forte pressione dei Paesi poveri e dall’altra ad una crescente chiusura delle
frontiere dei Paesi dell’Europa centro-settentrionale che non necessitano più di immigrati che anzi
ora vengono percepiti come un fenomeno sociale grave e fortemente preoccupante.
All’indomani della seconda Guerra Mondiale l’Europa registrava un saldo migratorio positivo con il
resto del mondo divenendo importatrice di manodopera. A Francia, Belgio, Svizzera e Repubblica
Federale Tedesca si andarono ad aggiungere Olanda e Gran Bretagna quali tradizionali Paesi
europei d’immigrazione verso cui si dirigevano consistenti flussi migratori provenienti dai Paesi
dell’Europa meridionale e dal bacino mediterraneo. La caratteristica principale delle migrazioni
internazionali era la temporaneità, voluta dai Paesi ospitanti, che consisteva nella rotazione dei
lavoratori immigrati impiegati per lo più in occupazioni poco qualificate; le migrazioni interne
invece avevano assunto ben presto un carattere definitivo.
Durante gli anni ’70 si è avuto un cambiamento radicale nei parametri di riferimento e nelle
politiche migratorie che sono andate a caratterizzare la seconda fase di questo processo. La crisi
economica del 1973 ha avuto profonde ripercussioni sul mercato del lavoro europeo determinando
un aumento della disoccupazione e mettendo in crisi il meccanismo di crescita sostituzione che era
alla base dell’immigrazione di manodopera straniera negli anni ’50 e ’60. La conseguenza a tutto
questo è una chiusura generalizzata delle frontiere nel tentativo di arrestare la crescita del
fenomeno, anche a causa dell’ormai avvenuto passaggio da un’immigrazione di tipo individuale e
temporanea ad una di tipo definitivo e famigliare. La recessione economica e la stagnazione
portavano ad una limitazione e addirittura alla saturazione della domanda di manodopera straniera
che aveva caratterizzato i decenni precedenti provocando così la reazione dei Paesi che
tradizionalmente richiedevano manodopera straniera che tentavano di scaricare sui Paesi d’origine
la congiuntura sfavorevole incentivando le migrazioni di ritorno e ostacolando i ricongiungimenti
familiari. A causa delle nuove norme restrittive in materia di ingressi si contrae in modo molto
significativo, fino quasi a sparire, la categoria classica del “lavoratore immigrato” e si costituisce
una vera e propria “popolazione immigrata” con un aumento della presenza femminile, la nascita di
una seconda generazione dei figli degli immigrati, una diversificazione della presenza economica
degli immigrati sul territorio (presenza di immigrati disoccupati, acquisto di case, terziarizzazione
economica degli immigrati).