personali di un individuo appartenente ad un gruppo , ma a valutare il suo
comportamento come attribuibile all’intero gruppo, ignorando le sue specificità
personali, e a valutare il proprio comportamento nei confronti dell’individuo come
diretto all’intero gruppo (Wilder1981). Essi inoltre agiscono anche in maniera
automatica per creare un vantaggio dell’ in-group, come mostrano diverse ricerche di
compiti verbali condotte da Gaertner, Dovidio, Evans e Tyler (1983,1986), e le persone
utilizzano gli stereotipi per ottenere informazioni in maniera più rapida, favorendo
quindi un rapido giudizio anche se non si hanno informazioni complete. Vengono
quindi utilizzati se le informazioni che si hanno sono ambigue, o per confermare ciò di
cui di si è convinti (in Fiske1999).
• Gli stereotipi sono inoltre molto rigidi e resistenti nel tempo, poiché si
tende a ricordare con più facilità tutte le informazioni che confermano gli stereotipi, e a
reinterpretare il ricordo in maniera da renderli rispondenti a verità ; esiste cioè una
tendenza delle persone a riconfermare le proprie aspettative (Snyder1981;Cohen1981).
Se invece l’esperienza non aiuta a confermarli, è anche possibile che si riconosca la
loro non veridicità, accumulando le informazioni che determinano il cambiamento in
maniera graduale nel tempo, o in maniera immediata, mediante pochi dati salienti che
sono discrepanti in maniera decisiva rispetto alle aspettative ( in Fiske1999).
• Il risultato finale degli stereotipi è comunque una tendenza a cristallizzare
una realtà in movimento, rifiutandosi di cogliere l’evoluzione e le caratteristiche
diverse del gruppo bersaglio e la loro funzione principale è quella di difendere la
propria posizione nella società, o atteggiamenti come il razzismo e il sessismo
(Adorno1950cit. in Mazzara 1996). In ricerche recenti si è cercato poi di spiegare gli
stereotipi nella funzione di “sistem-justification”, ovvero gli stereotipi aiutano
l’individuo a spiegare e preservare le situazioni di svantaggio per altri gruppi e
individui (Jost e Banaji 1994).
• Pregiudizi
• I Pregiudizi sono molto affini agli Stereotipi e tra loro correlati; sono
definibili come una predisposizione a percepire, giudicare in maniera negativa e
sfavorevole gruppi etnici diversi dal proprio per caratteristiche somatiche, lingua,
religione, cultura (Delle Donne1998). Secondo gli psicologi sociali gli Stereotipi
rappresentano la componente cognitiva dell’atteggiamento, il Pregiudizio rappresenta
la componente affettiva e la discriminazione la componente comportamentale. Altri
ricercatori ritengono invece che il pregiudizio sia un atteggiamento negativo, con una
sua componente cognitiva, affettiva e comportamentale; esso è quindi l’attitudine a
reagire nei confronti di una persona prontamente ed in maniera sfavorevole(in Delle
Donne 1998). L’origine del pregiudizio può essere determinate sia da una percezione
di minaccia del proprio gruppo di appartenenza per il raggiungimento degli obiettivi,
sia da un contatto diretto, ma è naturalmente importante l’educazione ricevuta dai
genitori e le esperienze negative nella vita adulta (in Fiske1999). G. Allport nel
classico lavoro “The Nature of Prejudice” li definisce come “Il pensare male degli altri
senza una ragione sufficiente”(in Banissoni 1973). Egli ritiene che si generino da
processi di pensiero normale, ovvero gli stessi che consentono all’individuo di
padroneggiare la complessità degli stimoli ambientali, e tali processi cognitivi sono la
categorizzazione, cioè il raggruppamento di stimoli ambientali in insiemi omogenei, e
la generalizzazione, cioè la tendenza della mente umana a considerare i tratti distintivi
di un gruppo sociale come molto più diffusi di quanto non lo siano realmente. Questi
argomenti sono diventati elementi centrali d’analisi della social cognition, che si
occupa dei processi cognitivi con cui sono trattate le informazioni su eventi sociali e
persone, di cui si discuterà successivamente. H.Tajfel (1959,1964 cit. in Mazzara
1996) in una serie di esperimenti dimostrò che i processi di categorizzazione portano a
percepire i gruppi sociali in maniera tale da aumentare la similarità interna tra persone
appartenenti ad una stessa categoria, e ad aumentare il grado di dissimilarità esterna tra
persone appartenenti a categorie diverse). Questi approcci si focalizzano sulla
interazione all’interno di un contesto sociale, in cui stereotipi, pregiudizi e
discriminazione sono diretti da strutture e da processi cognitivi, ritenuti fondamentali.
• Un approccio diverso ritiene invece che pregiudizio e discriminazione sono
determinati da conflitti di interesse tra gruppi; se gli obiettivi fra due gruppi sono
simili e contrastanti, ciò determina la nascita di conflitti e atteggiamenti negativi.
Levine e Campbell (1972) chiamano tale teoria “Conflitto realistico dei Gruppi”,
poiché la competizione tra i gruppi si ritiene sia basata su scarse risorse.
• Altre ricerche hanno evidenziato che il contatto con gruppi oggetto del
pregiudizio porta ad un atteggiamento più favorevole; B.Zani e E. Kirchler hanno
condotto una ricerca nella città di Bologna per esaminare se gli abitanti residenti in
quartieri abitati da extracomunitari avessero pregiudizi più positivi di chi è residente in
quartieri senza extracomunitari, e se l’essere stato un immigrato favorisca la riduzione
o l’aumento dei pregiudizi. I risultati hanno confermato che il contatto con gli
extracomunitari effettivamente influisce in positivo riducendo i pregiudizi, mentre non
è influente la variabile origine, ovvero l’essere stato un immigrato( Zani e
Kirchler1995). In finale le ricerche suggeriscono che le persone mantengono il
pregiudizio, ma cambiano il comportamento secondo le esigenze della situazione; il
pregiudizio permane se vi sono continui meccanismi di sostegno a suo favore, mentre
circostanze diverse ed eventi possono determinare la loro riduzione o scomparsa, come
un contatto tra i gruppi separati.
• Esistono inoltre differenze individuali nell’attivazione di Stereotipi e
Pregiudizi; Dovidio et al. (1998) mediante un esperimento in cui si studiava la
differenza tra soggetti con basso ed alto pregiudizio verso persone di colore nella
attivazione automatica degli stereotipi, hanno evidenziato che, indipendentemente
dall’essere o meno portatori di pregiudizi, vi è comunque una stessa conoscenza degli
stereotipi verso il gruppo in questione. Mentre le persone che hanno forti pregiudizi
attivano gli stereotipi in maniera automatica, ciò non avviene nei soggetti che hanno
basso pregiudizio, anche se vi è la stessa conoscenza degli stereotipi culturali. Infatti, è
fortemente plausibile che anche se si vive nello stesso contesto sociale e culturale, e vi
è quindi un uguale apprendimento di atteggiamenti negativi nei confronti delle persone
di colore, l’attivazione dei pregiudizi e degli stereotipi dipende da differenze
individuali, e da differenze quindi nella rappresentazione cognitiva di chi è oggetto di
pregiudizio. In conclusione tale ricerca suggerisce di esplorare altre variabili che
possono mediare la relazione tra pregiudizi ed attivazione degli stereotipi (Dovidio e
Gaertner 1986).
• Una ricerca molto recente e interessante ai fini dell’argomento di questa tesi
riguarda la differenza tra giovani e adulti nel sostegno degli stereotipi e dei pregiudizi,
ovvero gli adulti farebbero maggior affidamento su di essi rispetto ai giovani a causa di
un deficit nell’abilità di inibire le informazioni. Tale deficit di abilità associata con
l’invecchiamento conduce ad aumentare stereotipi e pregiudizi in maniera
apparentemente indesiderabile, poiché nel campione gli adulti erano più motivati dei
giovani a controllare tali atteggiamenti. I risultati suggeriscono che la relazione tra
inibizione delle abilità e stereotipi non è semplicemente causata dall’incapacità di
controllare le risposte non desiderabili socialmente, ma vi è anche un desiderio delle
persone ad inibire il pensiero stereotipato (von Hippel, Silver, Lynch, 2000).
• Etnocentrismo
• Il termine Etnocentrismo fu coniato da William G. Summer nel 1906 per
indicare la tendenza a valutare positivamente l’in-group rispetto all’out-group. Egli
analizzò i cosiddetti “folkways”, “i costumi di gruppo”, cioè l’insieme delle modalità
sviluppate da un certo gruppo come adattamento all’ambiente più vantaggioso, le cui
norme e consuetudini che vengono accettate e seguite sono anche percepite come le
migliori possibili. Nei confronti del proprio gruppo si sviluppano profondi sentimenti
di attaccamento, e da qui nasce l’atteggiamento etnocentrico, ovvero la convinzione
che il proprio gruppo sia il migliore, e i valori di altri gruppi sociali sono valutati in
rapporto ad esso( in Delle Donne1993) .
• Il portatore di un atteggiamento etnocentrico tende quindi ad innalzare una
barriera tra il “noi” e gli “altri”, percependo i propri valori e regole di vita come ovvi e
superiori. Tale posizione è comunque diversa dal razzismo, la quale presuppone
caratteristiche biologiche del proprio gruppo diverse da quelle del gruppo esterno, ma è
comunque un concetto che articola tutti quei fenomeni strettamente correlati come il
pregiudizio e la discriminazione e consente di individuarne meglio le cause (in Delle
Donne 1993).
• Esiste comunque una tendenza ad evitare di manifestare atteggiamenti
etnocentrici e discriminatori, poiché i valori attuali sono contrari e colpevolizzano tali
tendenze. Si cerca di evitare qualunque azione che sia apertamente discriminatoria, e si
tende ad appoggiare le posizioni politiche di indirizzo progressista e che promuovono
uguaglianza razziale; quando il proprio comportamento può essere però spiegato con
altre cause, o se la situazione è ambigua o confusa, allora si attivano meccanismi non
consapevoli che determinano un comportamento razzista. Tale fenomeno è stato
denominato razzismo riluttante (Gaertner e Dovidio1986).
• Mc Cohanay (1986) ha dimostrato poi che le indagini su questi temi , come
i problemi razziali risentono degli effetti della desiderabilità sociale, cioè i soggetti
tendono a rispondere in base a un’immagine sociale ritenuta positiva(Mc Cohanay
1986).
• M. Billig, collocandosi nella prospettiva definita “retorica conversazionista”
(in Potter 1997) ha offerto un approccio retorico nello studio del pregiudizio,
considerando la categorizzazione e la particolarizzazione come processi cognitivi
necessari alla nascita di esso seppur processi tra loro opposti, poiché l’uno tende a
generalizzare e ad omologare i diversi stimoli ambientali, mentre l’altro tende a
distinguere un particolare stimolo da altri stimoli. I due processi sono tra loro correlati,
e permettono di comprendere meglio la flessibilità del pensiero, evitando di equiparare
il pregiudizio ad una rigida categorizzazione; inoltre tale approccio permette una
distinzione tra pregiudizio e tolleranza sulla base del contenuto, e non ritiene che il
pregiudizio sia inevitabile (Billig 1985).
• L’autore sottolinea ,inoltre, il carattere negativo del significato che si
attribuisce al termine “Etnocentrismo “ il quale determina una negazione da parte degli
individui, di ogni possibile identificazione con questa immagine ( Billig 1987).
• Anche nel parlare quotidiano, i discorsi sugli immigrati e i gruppi minoritari
possono apparire “razzisti”, e si cerca quindi di evitare di dare questa impressione
dichiarando che non si vuole dire nulla di negativo in maniera intenzionale . Secondo
Van Dijk il discorso, sia scritto che orale, gioca anche un ruolo importante nella
riproduzione delle ideologie, poiché ad esso si da un importanza fondamentale non
solo per esprimere e comunicare la realtà, ma anche come una forma di conoscenza e
azione sociale concreta (Van Dijk 1992,1998).
• Analizzando inoltre l’atteggiamento etnocentrico nelle interazioni
discorsive, si è notato come i soggetti rispetto all’oggetto sociale ne costruiscono una
propria versione, e la valutazione di esso è costantemente variabile e contraddittoria, in
particolare è dipendente dal contesto discorsivo. Inoltre, come già notava Van Dijk, vi
è la tendenza a negare il pregiudizio, evidenziando quindi il carattere complesso delle
forme di espressione del pregiudizio ( Aiello 1997).
• Vi sono poi delle vere strategie utilizzate per mascherare il pregiudizio,
come l’utilizzo di elementi grammaticali che aiutano alla depersonificazione, come il
“noi”, la generalizzazione e l’uso di vaghe caratterizzazioni, per spostare le
convinzioni personali verso un gruppo e ciò permette di liberarsi dai pregiudizi ( cit.
Delle Donne1993)
1.2 Riferimenti teorici classici
• Le prime ricerche effettuate allo scopo di comprendere le radici del
pregiudizio in generale furono di diverso genere: in parte alcune furono dirette a
verificare se esistesse una correlazione diretta tra atteggiamento e comportamento ,
come la ricerca effettuata da La Piere nel 1934(cit. in Lord, Desforges, Ramsey1991) il
quale in un periodo di intenso pregiudizio contro gli orientali visitò 128 ristoranti hotel
in compagnia di una coppia di cinesi. Contrariamente all’atteggiamento negativo
espresso dai proprietari , la coppia fu accolta cortesemente e senza incidenti ciò fu la
dimostrazione empirica della inconsistenza tra atteggiamento e comportamento.
• Altri autori come Likert 1938 e Thurstone 1928 (in Mazzara 1996)
analizzarono, utilizzando modelli di tipo matematico, la disponibilità delle persone ad
avere contatti con gruppi etnici diversi dal proprio. In generale si ritrovò comunque
una scarsa corrispondenza tra atteggiamenti e comportamenti, e ciò a dimostrazione del
fatto che il pregiudizio è spiegabile soprattutto a livello psicologico, e non
comportamentale.
• Ciò che risultò evidente fu la necessità di spiegare tali atteggiamenti
riferendosi ad un contesto ampio, cioè in base a fattori di tipo sociale, culturale,
economico, politico e individuale e che è necessario scoprire i principi sistematici che
determinano quando gli atteggiamenti generali sono o non sono trasformati in
comportamento anche se inizialmente ci si limitò a descrivere più che altro i contenuti
di tali atteggiamenti, e non i processi che vi sono alla base.
•
• Le teorie di stampo psicodinamico furono un primo tentativo di spiegare i
meccanismi psicologici del pregiudizio e di spiegare anche il suo carattere universale,
anche se alcune di queste lo fecero in maniera troppo semplicistica.
• La più nota fu la teoria “frustrazione –aggressività” elaborata da Dollard
1939 (in Mazzara 1996) il quale ipotizzava che il pregiudizio fosse determinato da
privazioni vissute durante l’infanzia e nella vita adulta. Tale condizione determina uno
stato di tensione psichica che tende a scaricarsi su oggetti particolarmente isolati
all’interno della società, cioè oggetti più deboli ed identificati come “capri espiatori”.
L’ostilità nei confronti delle minoranze può essere spiegata quindi come la reazione di
una società ad una situazione di pericolo o di competizione economica, che porta a
scaricare l’energia accumulata verso oggetti deboli.
• La debolezza di tale teoria risiede proprio nella sua eccessiva semplicità,
poiché il postulato su cui si basa è che alla base di ogni comportamento aggressivo ci
sia una qualche frustrazione mentre è abbastanza evidente che la frustrazione può
essere considerata solo una delle tante cause che possono concorrere alla formazione
del pregiudizio partendo anche da un’analisi della educazione del bambino. Il
pregiudizio può infatti trovare le sue radici nella identificazione del bambino con
genitori severi, intolleranti e rigidi che contribuiscono alla formazione di una
“personalità autoritaria” (cit. in Mazzara 1996). E.Fromm nel 1941( in Feldmann
Stenner 1997) ha invece ipotizzato che varie forme di minaccia e di insicurezza
contribuiscono allo sviluppo dell’autoritarismo.
• Nell’ambito della psicoanalisi freudiana per spiegare le tendenze autoritarie
si ricorre alla figura paterna, che concorre alla formazione del Super-io. Tanto più il
padre è stato autoritario, più probabile sarà la formazione di un Super io
particolarmente esigente e severo, artefice di rimozioni che determineranno
comportamenti nevrotici e contribuiranno alla formazione della personalità autoritaria.
Utilizzando in maniera integrata concetti e metodi di derivazione psicoanalitica e
metodi di orientamento empirico, come la Scala Likert, nel 1950 T.W. Adorno,
E.Frenkel- Brunswick, D. Levinson e R.N. Sanford effettuarono gli studi sulla
cosiddetta “Personalità Autoritaria”, nati dall’interesse di comprendere gli episodi
d’antisemitismo e le ragioni psicologiche dell’adesione al fascismo. Essi giunsero alla
conclusione che il pregiudizio e l’ostilità verso gli Ebrei e alcune minoranze etniche
era determinata da una costellazione di tratti di personalità, atteggiamenti, disposizioni.
I soggetti che risultarono essere “personalità fasciste” mostravano: un’eccessiva
sottomissione nei confronti dell’autorità, una tendenza a aderire ai valori
convenzionali di leader politici e religiosi, un marcato conservatorismo socio
economico, una forte predisposizione verso tendenze etnocentriche, una tendenza a
svalutare le qualità umane sopravvalutando le qualità fisiche. Le persone autoritarie
dimostrano di avere una grande rigidità di pensiero, mostrando difficoltà nel
comprendere posizioni a loro antitetiche, nonché in una diversa soluzione dei
problemi; vi sono comunque diversi fattori, ovvero condizioni sociali, economiche e
politiche che determinano tale atteggiamento (in Fiske 1999,Gergen e Gergen 1986).
• Gli autori evidenziarono inoltre che era soprattutto in famiglia che si
trasmette l’orientamento sociale etnocentrico poiché chi aveva alti punteggi nella scala
–F, ovvero la scala che misurava propriamente il fascismo potenziale e le tendenze
antidemocratiche, aveva di solito genitori con punteggi ugualmente elevati in questa
scala. Questi dati suggerivano che l’autoritarismo si riproduce da genitori a figli, i
quali apprendono e imitano dai genitori gli atteggiamenti nei confronti dell’autorità e
dei gruppi sociali minoritari(in Amerio 1996).
• L’eco di tale lavoro fu enorme, stimolando molti altri studiosi nelle ricerche
sui possibili legami tra la “ personalità fascista” e altri fenomeni psico-sociali anche se
in seguito emersero debolezze teoriche, metodologiche e strutturali della “Personalità
autoritaria” (cit. Arcuri e Boca1996).
• Pettigrew 1958 (in Gergen e Gergen 1986), ad esempio, ha mostrato come
la Personalità Autoritaria varia in funzione dell’appartenenza etnica e del situazione
socio culturale mentre M. Rokeach nel 1960 sviluppò una teoria che ha avuto molto
successo: la teoria del dogmatismo (cit. in Amerio1996;Legrenzi e Girotto1996).
• . Tale autore, partendo dalla constatazione che gli individui privilegiano
l’interazione con chi ha credenze e convinzioni simili alle proprie, ipotizzò che chi ha
una modalità di pensiero troppo rigida, intollerante verso le ambiguità e le
contraddizioni, sviluppa pregiudizi verso chi è percepito come troppo dissimile da sé e
chiamò “mente chiusa” questa forma di intolleranza e “dogmatica” tale tipo di
personalità.
• Tale atteggiamento dogmatico, che è dato dalla correlazione tra
autoritarismo, intolleranza e chiusura del sistema cognitivo, è una vera e propria
modalità di pensiero, dunque l’autoritario può essere sia di destra che di sinistra poiché
i sistemi di tali credenze sono determinati non dalla personalità, ma da uno stile
cognitivo di resistenza al cambiamento.
• Altri studi importanti furono effettuati da Allport 1954 (in Delle Donne
1996), il quale ebbe il merito di evidenziare che il pregiudizio si genera da processi di
pensiero normali che consentono all’individuo di padroneggiare la complessità degli
stimoli ambientali ed egli spesso usò il termine di pregiudizio funzionale poiché può
essere paragonato ad uno schema che ci consente di conformarci al gruppo di
appartenenza.
• L’individuo ha, infatti, bisogno di semplificare e organizzare la conoscenza,
e ciò avviene mediante meccanismi di categorizzazione, in altre parole la tendenza a
catalogare i fenomeni ambientali nella maniera più grossolana possibile in modo da
poter inquadrare gli eventi nuovi in un sistema coerente di interpretazioni, e mediante
meccanismi di generalizzazione, ovvero la tendenza ad estendere ad ampie serie
d’eventi le osservazioni effettuate su pochi eventi disponibili, considerando quindi i
tratti distintivi di un gruppo come molto più diffusi di quanto non lo siano in realtà.
Tali processi determinano una netta distinzione tra in-group e out-group, con una
naturale tendenza a favorire le caratteristiche dei membri del proprio gruppo anche per
la condivisione di caratteristiche, abitudini e credenze. L’out-group è invece percepito
spesso in maniera molto omogenea e semplificata, sia per mancanza di familiarità e per
il poco contatto, sia per un’organizzazione delle informazioni in categorie molto
generali (in Mazzara 1996).
• I gruppi umani, quindi, tenderebbero a rimanere separati, esaltando le
proprie somiglianze e le differenze con gli altri gruppi, e da ciò scaturisce la coesione
sociale con il proprio gruppo e, purtroppo, spesso anche l’ostilità verso un gruppo
esterno(in Delle Donne1996).
• Allport non riteneva però questi processi come istintivi e quindi insanabili,
poiché l’apertura mentale o il comprendere di commettere errori nel generalizzare
porta ad eliminare tali pregiudizi; inoltre anche il contesto sociale poteva essere d’aiuto
nel modificare certi atteggiamenti, quindi era convinto che provvedimenti concreti
contro l’emarginazione e la segregazione razziale potessero essere d’aiuto. Allport
quindi dava grande responsabilità alla società nelle sue espressioni concrete per la
modifica e l’abbattimento di certi pregiudizi impegnandosi anche attivamente perché il
cambiamento prendesse l’avvio proprio dal livello socio strutturale (cit. in
Mazzara1996).
1.3 L’approccio cognitivo
• La Social Cognition , un filone di ricerca che si impose in Europa nella
seconda metà degli anni Settanta, si occupa dei processi cognitivi attraverso i quali
vengono trattate le informazioni su persone o eventi sociali: enfatizzando
maggiormente il processo mentale, ritiene che le strutture cognitive deputate ad
organizzare la realtà ed a fornire un codice per denominarla e classificarla (categorie,
schemi, script), ma anche a distorcerla ( i pregiudizi cognitivi) siano entità connesse
con la natura più profonda della mente umana (in Trentin 1991). La centralità dei temi
esposti da questo filone risiede appunto nell’idea che la mente umana riesca a mettere
ordine nella estrema complessità del reale attraverso i processi di semplificazione,
schematizzazione, organizzazione, introducendo quindi elementi di rigidità e di errore
nella valutazione. Nel complesso gli assunti fondamentali si basano sulla
considerazione che il sistema cognitivo abbia necessità di comprendere efficacemente
il mondo allo scopo di poter controllare gli eventi, e programmare la propria azione
nella maniera più efficace. L’effettiva sovrabbondanza di stimoli e informazioni
provenienti dall’ambiente esterno portano ad attivare procedure cognitive finalizzate a
ridurre il numero di informazioni disponibili mediante processi di semplificazione; le
informazioni non disponibili vengono invece completate mediante processi di
inferenza. Il sistema cognitivo tenderà poi a trattare di preferenza e con maggior
velocità le informazioni più accessibili, ovvero più salienti rispetto alle informazioni
disponibili, più rapidamente recuperabili dalla memoria e più facilmente integrabili con
il preesistente insieme di cognizioni, bisogni e stati affettivi del soggetto (in Trentin
1991).
• Lo psicologo sociale B. H. Tajfel 1978(in Mazzara 1996) contribuì in
maniera determinante ad integrare l’approccio cognitivo con l’approccio sociale per
comprendere meglio gli atteggiamenti sociali. Anche quest’autore mette in evidenza,
come Allport (1954 in Mazzara 1996), che il processo di categorizzazione è uno
strumento di semplificazione e organizzazione della realtà, e utilizzò una serie di
esperimenti per verificare come in presenza di due gruppi di stimoli appartenenti a
differenti categorie si percepisse una differenza maggiore di quella reale. Egli specifica
meglio in questo senso la categorizzazione sociale, la quale riguarda oggetti sociali ed
ha origine nella rappresentazione della realtà definita in un gruppo sociale concreto,
verso cui vi è senso di appartenenza ed identificazione: nel rapporto tra i gruppi la
categorizzazione sociale appare come un sistema di orientamento che contribuisce a
definire il posto specifico dell’individuo all’interno della società.
• Il contributo maggiore però è dato dalla teoria della “identità sociale”
(Tajfel 1970,1981; Billig e Tajfel 1973, 1974 cit. in Mazzara 1996). L’idea
fondamentale è che la percezione del mondo sociale fornisce informazioni sugli altri e
su se stessi, poiché l’immagine che si ha di sé viene determinata anche dall’immagine
del gruppo di appartenenza, quindi si tenderà ad avere rapporti con gruppi che
contribuiscono a migliorare la propria autostima, a sopravvalutarne le caratteristiche
positive e a svalutare le caratteristiche dei membri dell’out-group. La relazione inter-
gruppo si basa quindi anche su una relazione di confronto tra il proprio gruppo e gli
altri gruppi, con la tendenza a percepire il proprio gruppo come superiore. L’identità
sociale è quindi quella parte dell’immagine del Sé dell’individuo che deriva dalla
consapevolezza di appartenere ad un gruppo sociale unita al valore sociale e al
significato emotivo attribuito a tale appartenenza. Una conclusione naturale di tale
teoria è che una bassa stima del sé porterà ad aumentare la discriminazione verso l’out-
group, ma è fondamentale considerare anche il grado di identificazione del soggetto
verso il proprio gruppo di appartenenza. Gli autori utilizzarono un programma di
ricerche sperimentali in cui si servirono del “paradigma dei gruppi
minimali”
1
sviluppato per esplorare gli effetti della categorizzazione sociale. I soggetti
vennero divisi in due sottogruppi in maniera arbitraria, e a ciascun soggetto viene
comunicata la sua appartenenza di gruppo, ma non quella degli altri, in maniera tale
che nessuno sapesse chi faceva parte del proprio gruppo. Il compito consisteva nello
scegliere tra diverse modalità di distribuzione dei premi, che differivano nella
possibilità di distribuire i premi in maniera equa tra i due gruppi, o nell’ottenere il
massimo profitto del gruppo di appartenenza, o nel rendere più ampio lo scarto del
guadagno tra il proprio gruppo e il guadagno dell’altro. Gli studi mostrano in maniera
molto significativa che i soggetti tendono sempre a rendere il più possibile ampio lo
scarto fra il guadagno del proprio gruppo e quello dell’altro. In sostanza il
procedimento di confronto scatta in maniera automatica con la semplice distinzione in
categorie, e il fine dell’aumento dell’autostima personale viene perseguito in base
1
Il paradigma dei “gruppi minimali” si basa su una situazione di laboratorio in cui
i gruppi sono definiti “minimi” poiché mancano di molti degli attributi dei gruppi
reali.
proprio al confronto e alla differenza tra i gruppi, che viene naturalmente esaltato
quando vi sono fattori di condizionamento di carattere sociale e culturale, come nel
caso delle relazioni interetniche (in Trentin 1991).
• La teoria dell’autocategorizzazione (Turner e Oakes1989), costruita sempre
sulla base della teoria dell’identità sociale invece propone che vengono utilizzati
particolari categorizzazioni del sé e degli altri a diversi di livelli di generalizzazione. A
livello superiore gli individui si autodefiniscono come esseri umani nei confronti di
altre specie, a livello intermedio emerge la categorizzazione in in-group/out-group, a
livello subordinato gli individui si definiscono come singoli individui (in Fiske 1999).
• Questi approcci assumono quindi come fondamentali i processi di
categorizzazione e altre semplificazioni cognitive anche nel determinare l’origine delle
discriminazioni (cit. in Fiske1999). La differenziazione degli individui in gruppi sociali
determina quindi un confronto sociale in cui si cerca sempre la superiorità del proprio
gruppo di appartenenza, e anche Heider 1958 (in Mazzara 1996) parlava della tendenza
ad interpretare gli eventi in cui i gruppi sono coinvolti in maniera tale da salvaguardare
l’autostima, attribuendo al sé e al proprio gruppo la causa degli eventi positivi, e al
caso la causa degli eventi negativi.
• Lo studio dei pregiudizi e degli stereotipi è caratterizzato quindi da una
molteplicità di teorie, la cui diversità corrisponde ad un’effettiva complessità del
fenomeno costituito da una grande varietà di processi cognitivi e metodologici. La
“psicologia sociale sperimentale “, in particolare la versione proposta dalla Social
Cognition è stata sottoposta però ad una serie di critiche; una delle quali è la forte
artificializzazione intrinseca alla situazione sperimentale in cui essa opera, la quale fa
correre probabili rischi di scambiare le ipotesi dello sperimentatore riguardo il
fenomeno psicologico con il manifestarsi “naturale” del fenomeno stesso. Inoltre è
accusata di enfatizzare troppo i processi di pensiero verso gli stimoli sociali e non
sociali come elaboratori delle informazioni (De Grada, 1972).