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- gli invertebrati possono costituire una fonte di nutrimento per gli uomini: accanto
all’uso alimentare di Molluschi e Crostacei acquatici e terrestri e del miele
prodotto dalle Api, parte della popolazione mondiale, specialmente nelle regioni
tropicali, utilizza direttamente la fonte di proteine e grassi costituita dagli Insetti
(in particolare cavallette, termiti, larve e crisalidi di farfalle);
- gli invertebrati hanno un ruolo fondamentale nella formazione e per la fertilità
naturale del suolo - attraverso la continua trasformazione dei residui organici e
l’aerazione degli strati superficiali del terreno derivante dall’attività di scavo che
incrementa la moltiplicazione dei batteri e quindi la mineralizzazione delle
sostanze organiche – e nella fecondazione e produttività di numerose essenze
vegetali spontanee e coltivate;
- gli invertebrati sono utili nella difesa delle colture, delle foreste e
dell’allevamento, della salute umana e della purezza delle acque: essi vengono
infatti impiegati nella lotta biologica e integrata conto specie dannose,
consentendo tra l’altro di eliminare o ridurre sensibilmente l’uso di sostanze
pericolose per gli equilibri ecologici generali e per la salute umana;
- gli invertebrati sono ausiliari preziosi per la medicina (con ad esempio
anticoagulanti ricavati da sanguisughe, anestetici e antidolorifici derivanti dal
veleno di Molluschi marini), l’industria e l’artigianato (seta, coralli, madreperla,
perle, cera e spugne);
- molti invertebrati hanno un grande valore estetico, come le farfalle;
- qualche invertebrato può causare danni alle attività umane – le larve di alcuni
Lepidotteri, ad esempio, attaccano cereali, legumi e piante coltivate (le Cavolaie
devono infatti il loro nome all’abitudine di cibarsi delle Crocifere domestiche) -
ma altri invertebrati permettono di controllarne le popolazioni.
In questo contesto diviene necessaria e urgente la salvaguardia dell’entomofauna
mediante l’istituzione di aree protette e l’attuazione di una gestione ambientale che
eviti interventi dannosi nei confronti di questi animali.
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1.2 L’uomo e le farfalle: tra storia e mitologia
Farfalla: questa parola implica colore e movimento e rimanda al tepore di una
giornata di sole, dà un senso di benessere e tranquillità, fa sentire in pace con il
mondo (New, 1997). Il suono del suo nome italiano è elastico e gradevole,
dolcissimo mariposa spagnola, pastosa è la pronuncia del francese papillon, mentre il
termine tedesco schmetterling vibra brioso. Nell’etimo inglese, invece, la parola
butterfly risale ad antiche leggende e rimanda a fate burlone che volando (fly) leggere
entravano nelle case per sottrarre dalle dispense panna e burro (butter).
Simili a macchie mobili di colore, le farfalle hanno da sempre affascinato e
incuriosito l’uomo, suggestionato da quell’alone di mistero che caratterizza il ciclo
vitale di questi Insetti.
La loro più antica raffigurazione appare su una stele ritrovata nel territorio dei Dauni
(popolazione italica stanziata nella Puglia settentrionale intorno al 5.700 a.C.), che
identifica la farfalla come un simbolo di rigenerazione attraverso la quale lo spirito
del defunto ritornava alla costellazione generatrice. Questi Insetti compaiono inoltre
nei templi egizi di Tebe, risalenti a 3.500 anni fa, e su oggetti appartenenti agli
antichi popoli di Cina, Giappone e America (Smart, 1984).
Le leggende e le credenze sulle farfalle sono entrate a far parte del folclore di molti
popoli. Esse sono celebrate, ad esempio, nella danza brasiliana in onore dei morti,
descritta dall’antropologo Sir James Frazer, in cui i ballerini assumono l’aspetto di
gigantesche Morpho (Smart, 1984). La tradizione messicana ha legato al culto dei
morti l’annuale emigrazione della Monarca, il cui arrivo spinge i bambini a preparare
falò e ghirlande di fiori gialli in segno di devozione verso le anime dei defunti. Gli
antichi Greci credevano che lo sfarfallamento dell’immagine dalla pupa
rappresentasse un’incarnazione dell’anima umana, mentre nella cultura cristiana la
metamorfosi della farfalla è divenuta un simbolo della resurrezione (Smart, 1984).
Le forme leggiadre di questi Insetti hanno inoltre ispirato poeti e pittori: le farfalle
compaiono nelle opere dei primi artisti orientali e nella pittura dei maestri
fiamminghi del XVI e del XVII secolo, in special modo nei quadri di Jan van
Kessel, mentre a partire dal IX secolo esse vengono utilizzate come decorazioni ai
margini dei manoscritti miniati (Smart, 1984).
4
Prima del Rinascimento furono pochi gli studi significativi compiuti sulle farfalle,
descritte comunemente come “vermi volanti” da Alberto Magno nel suo De natura
animalium (Smart, 1984). Lo sviluppo della stampa contribuì a diffondere meglio le
informazioni e quindi a promuovere il progresso di tutti gli aspetti della storia
naturale, benché lo studio sistematico degli Insetti abbia dovuto attendere il fiorire
dell’indagine scientifica nel XVII secolo. Nel corso del tardo XVII e del primo XVII
secolo furono pubblicati numerosi libri di viaggi ed esplorazioni, spesso contenenti
esaurienti osservazioni di Insetti (Smart, 1984). Molti zoologi scrissero libri
basandosi sulle loro collezioni e osservazioni sul campo. In quegli anni ebbero
inoltre inizio le raccolte naturalistiche, e collezionisti di professione vennero spesso
ingaggiati per recarsi in luoghi lontani e portare al committente campioni di animali e
piante esotiche. Questi esemplari giungevano spesso nei più illustri centri europei di
ricerca tramite acquisti o scambi e costituivano oggetto di indagini scientifiche. Molti
naturalisti furono così in grado di ampliare in poco tempo le proprie conoscenze
personali e di allargare l’ambito dei loro scritti fino a comprendere materiale
proveniente da terre remote (Smart, 1984).
Grazie ai progressi nel campo dell’istruzione, delle comunicazioni e dei viaggi, il
XIX secolo fu il periodo d’oro per gli studiosi di storia naturale e le raccolte
dell’epoca formarono la base dei grandi Musei di Storia Naturale del mondo (Smart,
1984).
1.3 L’importanza della conservazione
La storia biologica dei 5 milioni di anni passati ha fatto dell’area del Mediterraneo
una delle più ricche aree d’Europa in termini di biodiversità (Munguira, 1995). Nel
bacino del Mediterraneo sono infatti rappresentati circa tre quarti dell’entomofauna
europea (Balletto & Casale, 1991, in Munguira, 1995). La struttura delle tre penisole
mediterranee, circondate dal mare e delimitate a nord da catene montuose, è stata
determinante nella costituzione di un’elevata componente di endemismi e di ricche
comunità di Lepidotteri (Munguira, 1995).
Durante gli ultimi cinquant’anni tali Insetti sono tuttavia andati incontro a un
marcato declino, resosi particolarmente evidente in Europa nel corso del ventesimo
secolo (Erhardt, 1995). L’Italia, in questo contesto, rappresenta un’eccezione tra i
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paesi industrializzati dell’Europa occidentale. I fattori antropogenetici
potenzialmente dannosi nei confronti della lepidotterofauna italiana sono infatti di
entità notevolmente inferiore rispetto, ad esempio, a quelli di nazioni con superficie e
densità di popolazione simili, quali Germania e Gran Bretagna (Balletto & Kudrna,
1985). Tuttavia le fortunate circostanze che determinano la qualità dell’ambiente in
Italia risultano, in ultimo, piuttosto controproducenti per quanto riguarda
l’informazione sulla necessità della conservazione della natura e della protezione
dell’ambiente efficaci e supportate da basi scientifiche (Balletto & Kudrna, 1985).
Il declino della lepidotterofauna può essere dovuto a cause naturali - quali brusche
variazioni climatiche, nemici naturali (predatori, parassiti, patogeni), altri animali,
cambiamenti a carico della vegetazione o dell’habitat – oppure all’azione dell’uomo
sull’ambiente.
Tali fattori di stress includono:
• uso di insetticidi, specialmente quelli non selettivi, e di erbicidi.
Queste sostanze sono spesso citate come la maggiore causa di declino delle
popolazioni naturali di Insetti soprattutto se utilizzati in habitat di ristrette
dimensioni (Pyle et al., 1981). Gli erbicidi possono infatti uccidere le piante
pabulari delle larve, soprattutto le più giovani, nonché le piante nutrici degli
adulti delle farfalle diurne (New, 1997).
• frammentazione dell’habitat naturale causata principalmente dall’intensificazione
dell’agricoltura e dall’urbanizzazione. Tale fenomeno isola e allontana tra loro le
popolazioni di farfalle e, a causa di problemi di imbreeding e riduzione del flusso
genico, aumenta la probabilità di estinzioni locali (New, 1997).
• cattiva gestione dei boschi che spesso porta a un loro infittimento, con
conseguente scomparsa di importanti habitat per le farfalle diurne, come ad
esempio le radure e le aree ecotonali.
• prosciugamento di zone umide in seguito a drenaggio, che è ad esempio la prima
causa di estinzione di Lycaena dispar in Inghilterra (Duffey, 1968).
• introduzione di piante esotiche, che in alcuni casi possono divenire fortemente
competitive nei confronti delle specie nutrici di larve e adulti.
• abbandono dei prati, specialmente in montagna. La successione vegetazionale
che ne deriva favorisce la presenza dei Lepidotteri solo per un periodo di tempo
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relativamente breve (5-10 anni), ma a lungo andare riduce fortemente la diversità
all’interno delle popolazioni (Erhardt, 1995).
• sovrapascolo, con conseguente perdita dello strato superficiale di humus ed
erosione del suolo. Tale fenomeno ha contribuito, ad esempio, al declino di
diversi Licenidi europei (Thomas, 1980; Erhardt & Thomas, 1991).
• turismo con la realizzazione, soprattutto nelle aree montane, di strutture ad alto
impatto ambientale (complessi alberghieri, impianti sciistici).
• collezionismo sregolato e commercio di tali Insetti.
Appare chiaro come i Lepidotteri, al pari di ogni altra specie animale, sono
strettamente legati ai propri biotopi e come l’instaurarsi di una comunità o la
sopravvivenza di una singola specie dipende dal mantenimento di ecosistemi, biotopi
o siti di rilevanza ecologica. Non esiste una formula generale per la salvaguardia
delle specie minacciate, anche se un buon punto di partenza può tuttavia consistere
nell’attuazione dello schema applicativo elaborato da Arnold (1983) e proposto da
New (1997).
Esso prevede:
• la tutela dell’ambiente dal sovrasfruttamento;
• un’approfondita conoscenza delle specie presenti nell’area (con struttura delle
popolazioni e abitudini comportamentali) e delle loro esigenze ecologiche, così
da promuovere il mantenimento e il miglioramento dell’habitat in modo mirato;
• il costante monitoraggio delle popolazioni, che consente di accertare se le
modifiche ambientali apportate sono andate a buon fine e di attuare eventuali
misure gestionali alla luce dei nuovi riscontri effettuati;
• non ultimo, l’educazione e la sensibilizzazione nei confronti di tali problematiche
e la valorizzazione di legislazioni protettive.
1.4 I bioindicatori
Gli indicatori biologici sono in grado di evidenziare le variazioni ambientali e più
precisamente si tratta di organismi o sistemi biologici usati per valutare una
modificazione, generalmente degenerativa, della qualità dell’ambiente, qualunque sia
il suo livello di organizzazione e l’uso che se ne fa (Iserentant & De Stoover, 1976).
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Tali strumenti sono necessari poiché rappresentano una buona alternativa rispetto
alla misurazione diretta delle condizioni di salute dell’ambiente che spesso risulta
costosa e difficile da effettuare (Landreas et al., 1998).
I bioindicatori sono in grado di segnalare, tramite correlazioni di causa-effetto tra le
loro risposte e le variazioni ambientali, modificazioni dell’ambiente ospite. Il
monitoraggio dello stato di salute degli ecosistemi è ricavabile dall’analisi di alcuni
importanti parametri di bioindicatori, quali ad esempio la densità, la
presenza/assenza o il tasso di sopravvivenza degli stadi giovanili. Gli indicatori
biologici inoltre consentono di evidenziare variazioni chimiche, fisiche e biologiche
dovute all’impatto da parte dell’uomo (Huges et al. , 1992). Gli organismi viventi
sono infatti sensibili a molteplici fattori di disturbo che possono avere origine biotica
(ad esempio infezioni, parassiti o competizione) e abiotica (ad esempio temperatura,
acqua, con sua quantità e qualità, radiazione, sostanze chimiche differenti e
biologicamente attive o agenti fisici come pressione atmosferica, vento, rumore,
magnetismo, sottrazione di spazio e modificazione o distruzione di ambienti (Sartori,
1998).
Gli Artropodi terrestri si sono rivelati estremamente preziosi nel monitoraggio
ambientale e per quanto riguarda gli aspetti applicativi allo studio delle alterazioni
ambientali, essi offrono una notevole serie di vantaggi:
popolazioni spesso numericamente molto ricche e qualitativamente varie, con la
conseguente possibilità di effettuare elaborazioni valide e precise;
piccole dimensioni corporee e facilità di prelievo in natura;
sensibilità e rapida reazione a svariati agenti negativi;
vagilità scarsa o nulla di molte specie-gruppi, che non permette l’allontanamento
dalla fonte del danno e consente una più facile interpretazione dei dati ottenuti.
Vi sono tuttavia alcune difficoltà che non devono essere sottovalutate:
classificazione talvolta complessa delle specie utilizzate;
scarsa conoscenza di biologia ed ecologia dell’assoluta maggioranza delle specie, che
rende spesso molto difficoltoso individuare correlazioni dirette tra causa ed effetto,
scelta problematica del campione di confronto negli esperimenti, in quanto è
necessario escludere l’influenza di altri fattori di disturbo ambientale.
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Tra gli invertebrati diversi Insetti vengono attualmente utilizzati come bioindicatori,
essenzialmente perché presentano una straordinaria ricchezza specifica e un altissimo
grado di adattabilità ecologica (Süss & Grigenti, 1998).
I Lepidotteri sono considerati senza dubbio sensibili indicatori biologici
sostanzialmente perché sono organismi strettamente legati alla presenza di habitat
che garantiscono la loro sopravvivenza, non solo dello stadio adulto, ma anche delle
altre fasi del ciclo biologico. In particolare le farfalle diurne vengono spesso usate
come indicatori delle variazioni ecologiche o della qualità dell’ambiente (Beccaloni
& Gaston, 1994 e Schulze & Fielder, 1999) e sono ottimi indicatori ambientali in
quanto negli habitat più degradati e antropizzati vivono sempre poche o pochissime
specie, per nulla selettive e molto adattabili.
Per la bioindicazione inoltre i Ropaloceri vengono preferiti agli Eteroceri poiché
sono molto più appariscenti, facili da osservare e da classificare anche da non
esperti.
In particolare i seguenti taxa di Ropaloceri vengono considerati in Europa indicatori
biologici (Hilty & Merelender, 2000):
Nymphalidae (Brown, 1991),
Heliconiidi (Brown, 1991),
Ithomiidae (Brown, 1991),
Morphidae (Brown, 1991),
Satyridae (Brown, 1991),
Papilionidae (Brown, 1991),
Pieridae (Brown, 1991),
Satyridae: Honotesia (Kremen, 1994).
In Europa sono disponibili numerosi studi applicativi di particolare interesse riguardo
all’utilizzo delle farfalle diurne come bioindicatori.
Uno di essi consiste in un’indagine condotta dal 1977 al 1979 da Erhardt (Erhardt,
1995) nella regione subalpina della Svizzera centrale e incentrata sulle strette
correlazioni tra differenti comunità di Lepidotteri (Ropaloceri e alcuni Eteroceri) e
specifici sociotipi o stadi successionali di vegetazione rilevati in gran parte da
Bischof (1980).
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La valutazione delle differenti comunità lepidotterologiche è stata effettuata per
mezzo di elaborazioni statistiche, basate essenzialmente su dati relativi alla
presenza/assenza delle diverse specie, al loro status ecologico e all’abbondanza degli
individui secondo una scala semi-quantitativa (D’Amico, 2003).
Le indagini, condotte su differenti tipologie di prati coltivati – classificati in base
all’intensità del pascolo e dell’uso di fertilizzanti – e di prati abbandonati –
classificati in base al loro grado di abbandono e quindi contraddistinti da fasi
successionali differenti di vegetazione – hanno portato ai seguenti risultati
(D’Amico, 2003):
• una forte correlazione tra lepidotterofauna e sociotipi vegetazionali;
• una proporzionalità inversa tra la ricchezza di specie di farfalle e periodo di
abbandono dei prati: il maggior numero di individui è stato infatti rilevato in stadi
successionali di vegetazione precoci mentre negli stadi più stabili esso è risultato
fortemente ridotto;
• una proporzionalità inversa tra la ricchezza specifica della lepidotterofauna
indagata e l’intensità del pascolo o dell’uso di fertilizzanti;
• uno stretto legame tra ricchezza di specie di Lepidotteri e di piante vascolari;
• una spiccata sensibilità da parte dei Lepidotteri alle modificazioni
antropogenetiche degli habitat primari;
• una netta correlazione tra il grado di mobilità della Ropalocerofauna e la struttura
vegetazionale: gli adulti di specie autoctone, finché l’habitat è ospitale, sono
infatti caratterizzati da un evidente comportamento sedentario (Thomas, 1984 in
D’Amico, 2003); quando però l’habitat muta e non è più adatto (ad esempio dopo
il taglio di un prato) gli adulti si allontanano in volo scomparendo rapidamente
(Backer, 1969 in D’Amico, 2003).
I risultati citati sono in accordo con studi analoghi condotti in Inghilterra, che
imputano il declino di molte specie di Licenidi, quali ad esempio Maculinea arion e
Lisandra bellargus, di Esperidi e di Satiridi, all’abbandono dei pascoli (Lipscomb &
Jackson 1964, Frazer & Hyde 1965, Thomas 1983a, Thomas 1983b, Thomas 1984).
Un altro interessante studio è stato condotto in Olanda da Oostermaijer & Van Svaay
(1974, 1979, 1992) con l’intento di esaminare le relazioni tra la Ropalocerofauna
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dell’Olanda e i valori dell’indice ecologico di Ellenberg. Tale indice è stato utilizzato
per analizzare le risposte di almeno 2.000 specie di piante appartenenti alla flora
centroeuropea alle variazioni di fattori climatici (temperatura, luminosità e
continentalità) ed edafici (umidità, ph e nitrofilia). L’indagine mostra tuttavia come
tale indice può essere utilizzato anche per l’analisi della sensibilità da parte delle
diverse specie di Ropaloceri olandesi alla variazione di parametri abiotici. In
generale, come è facilmente intuibile, gruppi di specie rare e minacciate inserite nelle
Liste Rosse per l’Olanda (Wynhoff & van Svaay, 1995), si sono mostrati molto
sensibili a uno o più parametri, mentre specie più comuni hanno mostrato range di
tolleranza di gran lunga più elevati. Per questo motivo la scelta del bioindicatore non
deve ricadere su specie rare. Infatti, anche se è importante conoscere le risposte
ecologiche di tali specie per salvaguardarle riconoscendo i processi che deteriorano il
loro habitat, esse non sono rappresentative come indicatori biologici. È quindi
necessario usare, a tal fine, specie relativamente comuni e che rispondano in modo
chiaro alle variazioni dei parametri abiotici presi in esame.
Anche per quanto riguarda l’Italia non mancano studi di particolare interesse
sull’argomento.
Tra i più autorevoli vi sono un’importante ricerca, molto significativa e ricca di
spunti applicativi, condotta in diversi biotopi, prevalentemente padani, distribuiti
dalla provincia di Torino alla provincia di Gorizia (Balletto, Toso & Barberis, 1982),
e un’indagine condotta da Balletto (1983) sull’utilizzo dei Lepidotteri Ropaloceri
come strumento di classificazione e di analisi della qualità degli alti pascoli alpini.