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1. RICERCA DEI LUOGHI D’OCCULTAMENTO DEI RESTI
Tre o quattro volte l’anno accade che le varie Procure della Lombardia richieda la ricerca di resti
umani che si pensano siano stati occultati.
Si sa comunque che la letteratura non riporta numerosi studi sperimentali atti ad identificare
un’area d’occultamento di resti umani, per lo meno in ambito forense.
L’ambiente risponde alle variazioni provocate dalle manovre d’occultamento e spesso, tali
cambiamenti possono essere ricercati e utilizzati per ritrovare cadaveri nascosti.
Ciò può essere estremamente difficile nel caso in cui non vi siano indizi precisi circa l'ubicazione
della buca (dichiarazioni di pentiti o testimoni), o quando il terreno sia coperto da folta
vegetazione.
La ricerca si effettua con le seguenti tecniche
• fotografia aerea: questa permette una ampia visuale dell'area "sospetta", evidenziando
differenze di colorazione e di vegetazione del terreno che possono suggerire la presenza di una
sepoltura. Infatti le variazioni del suolo influenzano la vegetazione sovrastante ed operazioni
come l'eliminazione della cotica erbosa, lo scavo di una buca, l'arricchimento con sostanze
organiche derivanti dalla putrefazione, hanno l'effetto di produrre modificazioni a volte molto
localizzate della vegetazione che possono mantenersi anche per lunghi periodi di tempo.
• "field walking" ovvero perlustrazione della zona all'aperto, effettuata con file di persone
poco distanti le une dalle altre in modo che vi sia una sovrapposizione del 20-30% del campo
visivo di ciascun partecipante. Tale attività permette di controllare dettagliatamente e da vicino
tutta la zona sospetta.
• metodiche geo-fisiche: queste si basano sull'uso di rilevatori di conduttività del terreno e
di resistenza del suolo, magnetometri, radar penetranti il terreno, che segnalano modificazioni
del terreno.
• cani da cadavere: esistono unità cinofile specificatamente addestrate per la rilevazione di
resti putrefatti inumati.
Una delle più grandi sfide che un investigatore incontra nella sua carriera è la localizzazione dei
resti di una persona scomparsa. Negli ultimi decenni i progressi tecnologici hanno messo a
disposizione della polizia molti strumenti sofisticati per aiutare le indagini alla localizzazione di
resti umani come aerei con detector a raggi infrarossi, radar in grado di penetrare il terreno,
sensori elettromagnetici e sensori biologici. La maggior parte di questi metodi ha riscosso
tuttavia ben pochi successi e nonostante lunghe ricerche non sono ancora stati prodotti strumenti
più efficaci.
Attualmente le ricerche umane dei marcatori ambientali, estese ai cani da ricerca, sono il miglior
strumento conosciuto per questo lavoro spiacevole ma necessario. Il cane da solo, però, non può
risolvere tutti i problemi: occorre grande collaborazione e comunicazione tra i reparti di
investigazione e una specifica preparazione del conduttore. Molti e minuti sono i segnali che
possono essere interpretati per la localizzazione di un corpo sepolto. Ad iniziare dalla
vegetazione, dalla diversa colorazione della terra o da avvallamenti determinati dall'assestamento
del terreno oppure dal collasso della cassa toracica e della riduzione della massa corporea.
Piccole cunette determinate dai residui di terra frutto dello scavo ma non più utilizzati per la
ricopertura della fossa; l'incremento dell'attività degli insetti sulla superficie del terreno o degli
animali predatori; segnali, come pietre o tronchi, utilizzati dal seppellitore come punti di
riferimento.
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2. PMI e TEMPO DALLA MORTE
Il problema della datazione di resti umani (PMI: post mortem interval) è stato a lungo affrontato
in medicina forense, senza mai essere totalmente risolto. Una stima accurata del tempo intercorso
dalla morte di un individuo, necessaria per le investigazioni medico-legali, è possibile solo
quando il decesso è avvenuto entro le 24-48 ore. Man mano che il PMI aumenta, diminuisce
l’attendibilità della datazione, soprattutto quando il caso in esame è in uno stato di
decomposizione avanzata.
I primi approcci, risalenti agli anni 60, da parte delle scienze forensi, che si riducevano a
semplici osservazioni macroscopiche, si sono poi evoluti sino ad utilizzare le più raffinate
tecniche microscopiche dei giorni nostri ( analisi di biomarcatori nei vari organi, ad es.)
L’esame del PMI può essere compiuto attraverso uno studio:
1. tanatologico e tafonomico dei resti umani
2. entomologico
3. botanico
2.1. TANATOLOGIA E TAFONOMIA FORENSE:
La tanatologia riguarda i processi di decomposizione e putrefazione; la tafonomia riguarda lo
studio dell’assemblaggio di morte e dei destini post-mortem dei resti umani.
L’approccio tafonomico comporta un’indagine intrinseca: l’esperimento è svolto sul corpo stesso
che si sta modificando. La datazione è estrapolata da indagini sui tessuti molli e tessuti
calcificati, al contrario di quell’estrinseca che punta l’attenzione su marcatori ambientali che
interagiscono con i resti (l’entomologia e la botanica forense, ad esempio).
I modelli tafonomici danno una mano nell’interpretazione di particolari scene di assemblaggio
dei resti.
Diversi agenti possono produrre le stesse alterazioni, e gli stessi agenti producono molte
alterazioni contemporaneamente.
La struttura ossea subisce modifiche sia dall’interno attraverso l’autolisi, che dall’esterno, dove
la diagenesi può portare alla formazione di sfaldature e microfratture tagli, buchi, che
segmentano la corticale.
Molte sono le ricerche volte a individuare le differenze tra segni ante-mortem e post-mortali,
affinché la normale trasformazione dell’osso causata dal tempo, non possa venir scambiata per
lesività perimortale.
I dati tafonomici costituiscono delle evidenze forensi del luogo originale di deposizione
postmortale, o di trasporto, e sono utili per la ricostruzione del PMI di un corpo ( la sua storia
dopo la mortem).
Le ricerche tafonomiche hanno fornito diverse informazioni potenzialmente applicabili in campo
forense; questo non significa che tutto il tafonomico sia forense.
L’ostacolo più grande è la scala dei tempi molto dilatata in archeologia. I tradizionali tafonomi
utilizzano la densità ossea per spiegare la maggiore o minore conservazione d’elementi ossei; in
tempi molto più ristretti la posizione anatomica dello scheletro, ad esempio, può avere molta più
influenza sull’alterazione di resti. Questo significa che la scelta della scala dei tempi condiziona
il metodo di ricerca.
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Un corpo, in seguito a decesso, va incontro a processi trasformativi riassumibili in
-cambiamenti iniziali (rigor, livor, algor), temi della medicina legale.
-stadi di decomposizione, d’interesse tafonomico.
Gli stadi di decomposizione sono suddivisibili in pre-scheletrizzazione e scheletrizzazione.
2.1.1 Pre-scheletrizzazione:
AUTOLISI: introduzione
“I meccanismi di autolisi implicano un ordine generale di decomposizione degli organi. I tessuti,
le cui cellule compiono sintesi di ATP, biosintesi e trasporti di membrana, decadono per
primi.”[16]
L’ordine di solito è:
1. Intestino, stomaco, organi digestivi accessori, cuore, muscoli cardiaci
2. Vie aeree
3. Polmoni
4. Cervello e sistema nervoso
5. Muscoli scheletrici
6. Tessuto connettivo e tegumenti
La putrefazione consueta comprende 4 stadi principali:
cromatico
enfisematoso
colliquativo
di riduzione scheletrica
Lo stadio cromatico inizia con la cosiddetta “macchia verde” cutanea, che colora l’area peri-
ombelicale ed è causata dalla formazione di zolfo-emoglobina. La macchia diffonde alle zone
periferiche, estendendosi per la via dei vasi sanguigni. Poi il colore diventa nerastro.
Foto 3.1: macchia verde addominale
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Lo stadio enfisematoso (bloating), che spesso si sovrappone a quello cromatico, è caratterizzato
da gonfiore dovuto a produzione di gas putrefattivi nelle cavità addominali. Gli organi interni
assumono un aspetto bolloso e al tatto sono crepitanti.
Lo stadio colliquativo si ha quando i tessuti perdono forma e consistenza, si afflosciano e
risultano vischiosi, liquefatti. Ad un esame esterno un corpo in questo stadio presenta un volume
corporeo minore rispetto a quello normale, con addome infossato e con impalcatura toracica
visibile. Gli orifizi possono avere liquame nero, e gli organi interni assumono una colorazione
bruno-nerastra.
Lo stadio di riduzione scheletrica chiude la putrefazione.
La decomposizione comprende una fase autolitica, di disintegrazione, mediata da enzimi, e una
putrefattiva compiuta da microrganismi e batteri. Entrambi i processi sono il bersaglio più
colpito per la stima del PMI.
Quando un organismo muore, le sue cellule vengono private dell’ossigeno; questo provoca un
aumento della CO
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, una diminuzione del pH e un lento avvelenamento delle cellule stesse,
dovuto al ristagno di sostanze di rifiuto. In concomitanza, gli enzimi dissolvono le cellule,
maggiormente nel fegato e nel cervello, dove sono più numerosi o dove il contenuto in acqua è
alto.
Dopo che sufficienti cellule si sono rotte, il liquido in esse contenuto inizia a deteriorare. Siamo
nello stadio putrefattivo. La putrefazione è la distruzione dei tessuti molli, operata da
microrganismi, e la loro trasformazione in gas, liquidi e molecole semplici.
La putrefazione degli organi segue per lo più una sequenza fissa. Inizia con lo stomaco e
l’intestino, dove la mucosa gastrica si colora di bruno.
Il cuore diventa flaccido, con un assottigliamento della parete e una depigmentazione del
miocardio. La stessa discolorazione si ritrova nel fegato e nei reni. Il fegato diventa a nido d’ape
per la formazione di gas, mentre la sua capsula resiste maggiormente alla putrefazione, rispetto
al tessuto parenchimatoso, con il risultato che l’organo spesso è un sacchetto di materiale
torbido.
Il cervello diventa facilmente semi-liquido.
I polmoni, inizialmente appaiono rosso scuro, per il liquido sanguinoso che li riempie.
Successivamente divengono crepitanti e gradualmente il liquido si diffonde nella cavità pleurica
La putrefazione procede con una contrazione degli organi. Quelli fibro-muscolari rimangono
riconoscibili fino a fine processo.
La putrefazione è più rapida in bambini che in adulti e dipende dalla causa di morte.
La presenza di vestiti trattiene il calore e accelera il processo. E’, infatti, la temperatura corporea
il più importante fattore determinante la velocità di disgregazione. Se questa è mantenuta sopra i
26°C, anche dopo la morte, i cambiamenti putrefattivi avvengono molto più rapidamente.
Lo studio della putrefazione degli organi, ai fini della datazione, è riservato agli ultimi anni,
grazie alla nascita di nuove metologie e tecniche moderne. In modo particolare è interessante la
chimica associata alla decomposizione di resti umani, utilizzabile per l’identificazione di
biomarcatori tempo-dipendenti.
A tal proposito, alcuni autori hanno cercato un accurato metodo di misura del PMI. [49]
Il lavoro si è svolto nel Tennesse, nella Body Farm, quindi su campioni umani, per un periodo di
quattro anni.
Tessuti prelevati da cervello, cuore, polmoni, fegato, muscolo, sono stati analizzati per la
presenza di biomarcatori, e regolarmente collezionati fino a quando lo stadio di decomposizione
non li rendeva più riconoscibili.
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I risultati hanno dimostrato che un particolare componente, l’acido ossalico, è un importante
determinante che influenza il PMI.
L’acido ossalico è il maggior componente dei tessuti umani, e deriva dalla trasformazione
enzimatica dell’acido ossalacetico. La reazione ossidativa avviene in diversi momenti, in
dipendenza del tipo di tessuto, per cui l’acido ossalico è da solo, un indicatore di PMI. Altri
marcatori di PMI dipendenti dal tipo di tessuto, sono amminoacidi specifici. Da questo studio è
emerso un risultato interessante: ogni organo studiato ha fornito informazioni temporali,
attraverso biomarcatori.
Il contenuto in acqua e gli enzimi variano da organo ad organo, ma le molecole di base sono più
o meno le stesse. Durante la putrefazione, gli organi addominali sono esposti a batteri diversi
rispetto a quelli toracici; gli stadi iniziali putrefattivi seguiranno strade differenti. Ma ogni
tessuto mostra una propria “personalità” anche in stadi più avanzati, quando la decomposizione
raggiunge un punto tale che gli organi non sono più riconoscibili.
Le molecole, degradando, si riducono a componenti semplici, e la velocità di tale processo può
essere usato come misura di PMI.
La chimica associata alla decomposizione di resti umani fa parte di studi recenti.
Le prime tecniche non potevano contare su metodi e strumentazioni tanto moderne.
In letteratura non esistono molte ricerche eseguite su corpi umani, sia per la difficoltà ad
ottenerli, sia a causa dell’opinione pubblica contraria e ai conseguenti problemi etici.
Il primo studio riguardante gli stadi di decomposizione di cadaveri umani, è riportato da
Rodriguez e Bass [34] a cui fa seguito un approfondimento, due anni dopo
W. M. Bass, esperto in identificazione scheletrica, è stato l’ideatore e fondatore dell’unica “Body
Farm” esistente: un’area protetta nel Tennessee, interamente dedicata ad esperimenti di
decomposizione di resti umani. Gli individui donano volontariamente i propri resti alla scienza.
Nello studio dell’85 [35], sei cadaveri umani sono stati inumati a varie profondità e lasciati
decomporre naturalmente per un periodo compreso tra 1 mese e un anno. Lo scopo è stato quello
di trovare ulteriori criteri affidabili di determinazione del PMI, in condizioni di sepoltura.
Quattro corpi erano intatti e due con organi rimossi.
Quattro erano deceduti per arresto respiratorio e due per colpo d’arma da fuoco alla testa. Tutti i
soggetti sono stati inumati nelle 48 ore successive alla morte, dopo una permanenza in celle
obitoriali e quindi lontano dall’attacco d’insetti.
Quattro buche si trovavano a 0.3 m di profondità, una a 0.6m e l’ultima a 1,2 m, ad una distanza
di 1.5 m l’una dall’altra.
I vari dati ambientali sono stati presi giornalmente, facendo attenzione in modo particolare a:
temperatura atmosferica, del suolo, corporea; umidità, piovosità, pH terreno.
Dopo un tempo determinato, i corpi sono stati esumati ed osservati. Insieme a fotografie-
documento, sono state raccolte le specie d’insetto maggiormente rinvenute.
Ogni cadavere presentava diversi stadi di decomposizione, fatto che dimostra che questa dipende
direttamente dalle condizioni del suolo e della temperatura. La temperatura corporea, presa alle
diverse profondità, aumentava in modo proporzionale man mano che ci si allontanava dalla
superficie, il pH alla base della buca aumentava in alcalinità nel tempo.
Oltre ad osservazioni sui corpi, anche le alterazioni della superficie sono state registrate: ad
esempio le buche profonde più di 0,3 m si sono evidenziate in superficie come due depressioni, a
causa dello sprofondamento della terra nella cavità addominale decomposta. Il terreno è
diventato nerastro in superficie, per poi tornare normale dopo 6 mesi dall’inumazione.
Le scoperte più marcate hanno riguardato la sepoltura, che ha rallentato la decomposizione
rispetto alla superficie, per due cause principali: ha ridotto l’accesso agli insetti e mantenuto una
temperatura più bassa.
Questo aggiunge tasselli informativi al problema di datazione di casi inumati.
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Tuttavia i corpi sono stati interrati in differenti condizioni l’un dall’altro: una diversa profondità,
diverse cause di morte, diversi tempi, diversi indumenti, ecc.
Su un campione di soli sei corpi, le troppe variabili non permettono un’analisi dettagliata delle
condizioni responsabili o maggiormente influenti sulla decomposizione.
Inoltre nella discussione finale è omesso lo scopo di un tal esperimento, o meglio la sua
applicabilità in campo reale. Se il proposito era quello di trovare nuovi metodi di datazione, in
quale modo è stata raggiunta la meta?
Altri autori hanno, in seguito, cercato i parametri che accelerano o frenano i processi putrefattivi.
S. Aturaliya e A. Lukasewycz hanno focalizzato la loro attenzione sulla perdita d’acqua che si ha
in seguito a disidratazione post mortale. [3]
Carcasse di ratto sono state poste in stanze, in condizioni variabili e controllate, per osservarne la
diversa influenza sulla perdita d’acqua.
Dai risultati è emerso che la posizione condiziona la putrefazione, in quanto la disposizione
orizzontale, rispetto a quella verticale, permette un maggior sviluppo batterico e una maggiore
liquefazione e digestione degli organi, oltre che una consistente perdita d’acqua.
La presenza di vestiti ha accelerato la disidratazione, probabilmente perché l’umidità della pelle
è stata assorbita dai tessuti per poi evaporare. L’esperimento con corpi interrati, ha dato lo stesso
risultato.
Sono stati presi anche i singoli organi ed esposti al disseccamento.
Un tale studio ha suggerito che, i più importanti fattori che influenzano la perdita d’acqua di un
corpo, sono le condizioni a livello di superficie cutanea, perché modulano il gradiente di
concentrazione tra la pelle e i tessuti più profondi.
La mancanza di materiale umano ha spostato l’attenzione su modelli animali, sui quali quindi
vertono le maggiori ricerche.
I primi animali utilizzati, per lo più a scopo entomologico, sono stati rane, rospi, topi, ratti,
scoiattoli. Tuttavia le loro piccole dimensioni rendevano difficoltosa l’osservazione. Cani e gatti
si sono dimostrati troppo variabili in taglia; polli e in genere uccelli troppo diversi per la
presenza di penne e piume. Alla fine si è giunti al maiale (Sus scrofa), miglior modello umano, a
detta dei diversi autori, e quindi il più utilizzato negli esperimenti di datazione.
E’ deducibile che la velocità di decomposizione, e di conseguenza la stima del PMI, dipenda dal
clima, dalle stagioni, dalla meteorologia, dalla temperatura, ecc. e in genere dalle condizioni
ambientali.
Ma varia anche secondo le condizioni in cui si compie: un corpo esposto non si decomporrà
come un corpo inumato, come uno immerso in acqua o in un altro ambiente naturale.
L’alto numero di variabili che condizionano il deterioramento, può dare un’idea della difficoltà a
stabilire un metodo di datazione valido in assoluto.
La decomposizione riguarda due stadi: la pre-scheletrizzazione e la post-scheletrizzazione,
quest’ultima difficilmente valutabile.
La pre-scheletrizzazione è a sua volta suddivisibile in diversi stadi [16]:
- Fresco
- Prima decomposizione Æ concerne lo stadio cromatico della cute e quello
enfisematoso. (medicina legale).
- Decomposizione avanzata Æ riguarda gli organi, l’esposizione d’ossa e la
mummificazione di alcuni tessuti (antropologia).
Ogni gradino è altamente dipendente da variazioni esterne.
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A) Terra: superficie ed inumazione
Di seguito si riporta la tabella proposta da Mann, et al. [24], con le variabili più significative per
il loro effetto sulla decomposizione. Si è usata una scala di classificazione a 5 punti.
Variabile Effetto sulla decomposizione
Temperatura 5
Accesso agli insetti 5
Profondità della buca 5
Carnivori/roditori 4
Trauma 4
Umidità/aridità 4
Piovosità 3
Taglia e peso del corpo 3
Vestiti 2
Superficie 1
pH suolo sconosciuto
1. TEMPERATURA: Influisce sia sulla decomposizione stessa, sia sulla successione d’insetti. A
0°C le uova e le larve esposte al freddo, muoiono. Il più difficile periodo dell’anno per stimare il
PMI sarà, dunque, quello in cui le temperature sono soggette a fluttuazioni.
2. ACCESSO AGLI INSETTI: se gli insetti non possono raggiungere il corpo, allora la
decomposizione sarà ridotta. Infatti, la maggior distruzione dei tessuti molli è opera delle larve.
3. PROFONDITA' DELLA BUCA: I corpi lasciati in superficie tendono a decomporsi più rapidamente
di quelli interrati. La profondità influenza i tempi di decadimento: un corpo a 0.3-0.6 m
scheletrizza entro un anno; in buche di 0.9-1.2 m impiega molti anni. Se poi è avvolto in
sacchetti di plastica, allora i tempi si dilatano ulteriormente.
4. CARNIVORI: in particolare cani, che possono spostare le ossa dalla buca o mangiare tessuti
molli e scheletro, velocizzando il processo di decomposizione.
5. TRAUMA: Le ferite accelerano il decadimento, attirando insetti e batteri.
6. UMIDITA’/ARIDITA’: un aumento d’umidità porta all’aumento dell’attività d’insetti. L’aridità,
porta spesso alla mummificazione naturale, e alla conseguente conservazione dei tessuti,
difficilmente attaccabili da insetti.
7. PIOVOSITA’: la pioggia riduce l’attività d’insetti, che tendono a non deporre; non altera invece
l’attività delle larve.
8. TAGLIA E PESO: gli obesi perdono più facilmente la massa grassa.
9. VESTITI: proteggono il corpo dalla luce diretta, che disturba le larve, e allunga i tempi di
decomposizione dei corpi.
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10. SUPERFICIE: i corpi lasciati sul cemento decompongono più lentamente perché tendono a
mummificare prima di quelli appoggiati sulla terra.
11. PH: Non è ancora conosciuto l’effetto del pH sui tempi di decomposizione.
Molti autori hanno affrontato il problema di datazione, alterando di volta in volta qualche
parametro e mantenendone costanti altri, per far luce su una casistica sempre più ampia.
M. Micozzi ad esempio, si è occupato dell’effetto di gelo e disgelo e delle ferite meccaniche sui
processi di cambiamento post mortem.
Lo studio condotto da Micozzi, utilizza delle tecniche istologiche e microbiologiche, oltre che
osservazioni grossolane. Precedenti analoghi lavori si basavano solo su analisi
macroscopiche.[27]
Per l’esperimento sono stati utilizzati topi e ratti, disposti su un fianco (la posizione è
importante), alcuni appoggiati al terreno e altri sospesi per creare due microambienti.
Una parte di essi è stata surgelata a -7°C per 4 settimane e scongelata a 22°C, 8 ore prima
dell’esperimento; una parte non ha subito surgelamento.
Al tempo 0, la differenza tra i due casi esaminati è stato nell’esame interno: i campioni freschi
hanno mostrato un esame macroscopico e microscopico normali; i campioni surgelati avevano
delle consistenti perdite ematiche dagli orifizi naturali, organi interni non distinguibili, ed
emolisi del sangue. Al microscopio si è notata una perdita del dettaglio nel nucleo cellulare.
Dopo 48 ore, gli animali surgelati hanno manifestato una decomposizione aerobica più avanzata
rispetto ai freschi. Tuttavia la putrefazione (decomposizione anaerobica) è stata maggiore nei
campioni freschi.
Dopo 96 ore entrambi erano in uno stadio di decomposizione avanzato, con parziale
mummificazione e scheletrizzazione.
In conclusione è apparso che il surgelamento è un processo fisico che accelera la
decomposizione, ma non ne altera la sequenza; gli animali che sono stati surgelati, si sono
decomposti dall’esterno verso l’interno, e quelli freschi dall’interno all’esterno.
Questa scoperta è da prendersi in considerazione qualora si esaminassero casi di ritrovamento
nella stagione fredda: i resti potrebbero aver subito un ciclo di gelo e disgelo climatico.
Una delle applicazioni del lavoro di Micozzi, è stata pubblicata da D. A. Komar [21]. Si sono
analizzati corpi in avanzato stato di decomposizione, ritrovati in superficie in una area geografica
caratterizzata da temperature tra -17°C e +16°C, con medie sotto zero per 5 mesi l’anno. I
risultati hanno dimostrato che la decomposizione è avvenuta molto più velocemente di quanto ci
si aspettasse. Analogamente a quanto riscontrato da Micozzi, che aveva notato una
disarticolazione più veloce causata dalla rottura dei tessuti ad opera del gelo, anche nella ricerca
di Komar , la velocità poteva essere spiegabile con l’esposizione al freddo invernale.
Per avere un’idea dei tempi, la decomposizione in estate, in questo studio, ha impiegato 6
settimane, in inverno solo 4.
Se da un lato sono stati effettuati esperimenti in ambienti freddi, dall’altro non mancano studi
opposti. Ad esempio, alcuni autori si sono occupati di un’area geografica, caratterizzata da
inverni miti ed estati calde e secche (T > 38°C). [14]
Molti resti umani ritrovati in vari stadi di decomposizione, sono stati riesaminati con lo scopo di
fornire delle linee guida per la stima del PMI , basate sulla velocità di decomposizione in acqua,
in buche (anche cimiteriali) e in superficie.
189 casi forensi degli ultimi 20 anni, nei quali fosse noto il PMI, sono stati suddivisi in 5 gruppi,
corrispondenti agli stadi di decomposizione (fresco - prima decomposizione - decomposizione
avanzata – scheletrizzazione – scheletrizzazione estrema.)
Le categorie usate in questo studio (insetti, umidità, temperatura, stagionalità, locazione dei resti,
ecc.) corrispondono a quelle utilizzate da Rodriguez and Bass, permettendo un confronto tra i
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due lavori, svolti in due ambienti diversi: i resti esposti all’attività d’insetti si sono decomposti
più lentamente in ambiente arido, probabilmente perché la disidratazione di ambienti secchi
inibisce l’attività di artropodi
I resti in ambiente chiuso (acqua o terra) hanno mostrato un prolungamento nella prima
decomposizione, ma una rapida progressione alla scheletrizzazione.
Nel ’95 Spennemann e Franke hanno aggiunto i loro dati, riguardanti lo stato di preservazione di
corpi rinvenuti in un atollo. [39]
Tre sono le variabili generalmente identificate come influenti sulla decomposizione in ambiente
tropicale: le alte temperature, l’umidità e la piovosità.
L’atollo, tuttavia ha caratteristiche differenti da un’area tropicale. Un’isola è caratterizzata da
suolo sabbioso, poco fertile; le piogge sono limitate e la vegetazione è meno rigogliosa. Anche
gli artropodi sono in numero minore.
In tali condizioni, i due autori, hanno effettuato delle esumazioni di cimiteriali che hanno fornito
dati nuovi riguardanti sia la decomposizione dei resti, sia la distruzione dei materiali associati.
5 corpi su 6 sono stati trovati in casse permeabili; quello nella cassa impermeabile mostrava
adipocera. I PMI erano noti e andavano da un minimo di 40 ad un massimo di 80 mesi.
L’esposizione diretta e l’inumazione, naturalmente, non sono gli unici due ambiti nei quali si
possono sperimentare i tempi di decomposizione di resti umani e animali. L’ambiente acquatico,
per quanto poco trattato, altera le analisi, introducendo nuove e sconosciute variabili.
J. B. Davis e M. L. Goff hanno cercato di confrontare i due ambienti, sia per quanto riguarda la
decomposizione, sia per l’entomologia. L’esperimento è stato fatto su modello animale (Sus
scrofa).[12]
Lo studio dimostra chiaramente la differenza tra decomposizione in acqua e in terra. La
decomposizione e gli organismi ritrovati sulla carcassa, variano a seconda dell’ambiente, delle
temperature, dell’esposizione all’acqua. La successione d’insetti è molto diversa e più numerosa
in ambiente terrestre.
L’ambiente interditale è paragonabile a quello marino , per i fattori che influenzano la
decomposizione: temperatura, salinità, profondità, correnti natura del substrato. Tuttavia i primi
responsabili della decomposizione di resti, non sono i pesci i molluschi e altri piccoli vertebrati,
ma i Ditteri, batteri e altre cause fisiche. Naturalmente, se la zona interditale è altamente esposta
al moto ondoso o alle correnti, i Ditteri influiranno poco sulla decomposizione.
La decomposizione in acqua è caratterizzata da un’iniziale perdita di biomassa, le onde e le
correnti garantiscono la completa disposizione della carcassa e la loro azione maggiore o minore
si riflette in una più veloce o lenta disarticolazione e decomposizione.
Vediamo più nel dettaglio questo ambiente.
B) Acqua:
Quando un corpo è ritrovato in ambiente acquatico, la sequenza d’eventi riguardanti la
decomposizione subisce un cambiamento significativo per gli scienziati forensi che tentano di
determinare il PMI.
Oltre ai fattori fin qui accennati, che condizionano la velocità di decomposizione, in acqua si
assiste alla formazione di adipocera (saponificazione), che complica le analisi.
L’ adipocera è un sapone insolubile, di aspetto lardaceo e untuoso e di odore sgradevole,
prodotto dalla combinazione dei grassi neutri dei tessuti con sali di calcio e di magnesio presenti
nell'acqua o nel terriccio umido in cui si trova il cadavere. E' indispensabile l'assenza di aria. Il
processo inizia dal tessuto sottocutaneo, quindi si diffonde al tessuto adiposo periviscerale.
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L’adipocera deriva dalla trasformazione di grassi in acido palmitico e sterico, in prevalenza, ad
opera di batteri. La saponificazione si rende evidente dopo alcune settimane e si completa in 12-
18 mesi
E’ possibile, quindi, utilizzare la formazione di adipocera, come indicatore per il calcolo del
PMI, correlando la normale quantità di tessuto adiposo, con quella di acidi grassi idrolizzati, di
nuova formazione.
I diversi autori hanno cercato di approfondire l’argomento, non ancora del tutto chiaro, attraverso
l’analisi di ritrovamenti di cadaveri, in diversi ambienti acquatici.
Il lavoro di G. Cotton, et al., ad esempio, è consistito nell’osservazione della formazione di
adipocera in corpi rinvenuti a 30 m di profondità, in acqua dolce. [8]
La temperatura calcolata al tempo d’immersione, di 21°C nel caso in esame, ha accelerato,
secondo gli autori, la formazione di adipocera che, a sua volta, ha prevenuto la scheletrizzazione.
Se la temperatura fosse stata minore, dicono, probabilmente non si sarebbe raggiunto lo stesso
risultato a causa della mancata crescita batterica.
Una tale informazione è da prendersi in considerazione in zone laddove le fluttuazione
climatiche, e quindi di temperatura sono significative.
L’assunzione che la saponificazione sia accelerata da alte temperature si è rivelata in contrasto
con i risultati sperimentali di Kahana, et al. [19]
Condizioni e tempi di formazione di adipocera, sono stati osservati in 15 cadaveri ritrovati in
tempi diversi, nelle medesime condizioni,in acqua marina, durante un periodo di 433 giorni.
Molti autori riportano che la formazione di adipocera in acqua fredda si ha dopo 12-18 mesi, in
acqua a 15-22°C in 2-3 mesi e in acque calde in sole 1-3 settimane.
La velocità di saponificazione, nel lavoro in questione, non coincide con i dati pubblicati da altri,
rendendo vacillante e poco attendibile la stima dell’orologio tafonomico in ambiente marino.
Esperimenti o osservazioni di casi reali, in acqua, non hanno ovviamente l’unico scopo di
estrapolare un metodo di datazione.
Ad esempio, il lavoro di Haglund è servito come confronto tra sequenze di disarticolazione in
acqua rispetto alla superficie terrestre. [16]
Gli intervalli post mortali dei cadaveri analizzati, erano noti (range: 1 sett.-1 anno).
I ritrovamenti riguardavano i tre ambienti marino, lacustre e fluviale, per testarne l’influenza di
temperatura, profondità e corrente, sui tempi di decomposizione.
Si è sottolineato come l’ambiente terrestre funga da sostegno per i resti scheletrici, mentre
l’acqua permette un movimento del corpo nelle tre dimensioni, sottoponendolo, tra l’altro, al
galleggiamento o al trascinamento sul fondo.
Questo per giustificare in parte il diverso smembramento, a seconda dell’ambiente, e permettere
una più corretta identificazione della scena di crimine.
La carenza di materiale sperimentale, e gli scarsi risultati ottenuti con approcci qualitativi, ha
portato al tentativo di utilizzo di metodologie diverse.
Yan, et al. hanno proposto un diverso modello sperimentale su campioni animali, di formazione
di adipocera, che utilizza la cromatografia dei liquidi. [55]
Tre corpi di maiale sono stati immersi in acqua clorinata, in acqua distillata, e in acqua salina.
Ogni due settimane è stato controllata la degradazione del grasso sottocutaneo, con lo scopo di
mostrare la chimica di formazione di adipocera, in funzione del tempo dalla morte.
I risultati finali hanno indicato che la natura dell’acqua influisce sulla velocità di
saponificazione, probabilmente perché controlla la quantità di batteri sviluppatasi. In particolare,
in acqua distillata è più rapida, in quella salina è molto lenta.
Il dato risulta importante, per differenziare l’ambiente d’acqua dolce, e quello marino.
Nel primo caso, infatti, l’acqua è assorbita dal corpo e si ha un improvviso aumento volumetrico
di sangue, con conseguente rottura dei polmoni e degli altri tessuti; in acqua salata, i fluidi sono
richiamati dal sangue, nei polmoni; la decomposizione sarà quindi, diversa nei due casi.
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I fattori che contribuiscono all’attività batterica sono, dunque, riconducibili alla natura degli
elettroliti disciolti, alla forza ionica, al pH e alla temperatura dell’acqua.
Gli studi fin qui presi in considerazione, non giungono a risultati concreti per quanto riguarda la
determinazione del PMI. Ma se, in ambiente terrestre, il metodo entomologico sta prendendo
piede e risulta sufficientemente utile, ci si chiede se lo stesso approccio potrebbe essere applicato
all’ambito marino.
Esistono, in letteratura, dei lavori che coinvolgono studi entomologici, ma poche volte i singoli
casi sono stati indagati mediante l’utilizzo della sola successione d’invertebrati.
Lo studio di N. Hobischak, e G. Anderson, ha tentato una valutazione di dati riguardanti la fauna
acquatica, per testarne la validità e applicabilità alla datazione postmortem. [17]
Per l’esperimento sono stati utilizzati dei maiali, alcuni dei quali sono stati immersi in acqua
stagnante, altri in acqua corrente.
Si sono presi in considerazione, come parametri influenti sul PMI, la stagione d’immersione, la
temperatura dell’acqua, l’acidità dell’acqua, la presenza di vestiti (i maiali sono stati coperti con
indumenti), la quantità di grasso corporeo (maiali da 8 a 27 Kg circa), e altre variabili biotiche.
I campioni sono stati messi in casse, per proteggerli da grandi predatori, ma accessibili ad
invertebrati e piccoli vertebrati.
Spesso, per campioni in terra o in superficie, si utilizza la perdita in massa dei campioni, come
indicatore di velocità di decomposizione. Com’è intuibile, in acqua la perdita in peso, causata da
fuoriuscita di liquidi corporei, da migrazioni d’insetti, e decomposizione, è disturbata
dall’assorbimento d’acqua dall’ambiente.
Anche l’entomologia presenta dei problemi in acqua: le larve, normalmente frequenti in terra,
sono poche in tale ambito. Il loro sviluppo è, infatti, rallentato dalla troppa umidità, dalla
temperatura bassa; inoltre c’è un’alta mortalità prepupale, e conseguentemente lo studio delle
pupe non è attuabile.
La successione d’insetti è risultata molto condizionata dalla presenza di vestiti: in corpi
sommersi hanno impedito il disturbo da parte d’invertebrati, nelle porzioni esposte hanno dato
rifugio ad insetti, come larve di Dittero.
Tutto questo giustifica il minor numero di specie ritrovato, rispetto a quello in ambiente terrestre.
Dalle osservazioni fatte dagli autori, risulta che la successione d’invertebrati è prevedibile in
ambiente acquatico, ma bisogna far attenzione a distinguerne l’utilizzo. Spesso serve per una
datazione del tempo di immersione, e non di morte.
La successione d’invertebrati e la decomposizione sono state confrontate con quelle di casi reali,
investigati in Colombia, dove il PMI era superiore alle 72 ore.
Tuttavia l’assenza di descrizioni dettagliate della decomposizione, ha limitato il confronto.
Inoltre solo in un caso era menzionata la presenza d’insetti.
Anche le classificazioni in stadi di decomposizione, da parte del coroner erano vaghe, sì da non
permettere una valutazione del PMI, né un confronto del caso sperimentale con quello reale.
Sebbene sia possibile l’esperimento con resti non umani, la tafonomia in ambiente marino
richiederebbe un’ampia documentazione di casi umani forensi.
Se da una parte non ci sono indicatori di PMI comparabili con l’uso degli insetti in ambiente
terrestre, dall’altra esistono comunque osservazioni che possono suggerire un tempo
approssimativo di morte. Ad esempio, la crescita di piante acquatiche o animali che attaccano i
resti.
Come suggerisce Haglund, i migliori indicatori biologici sono gli invertebrati sessili, e la
conoscenza della loro biologia può fornire importanti indizi sulla durata del tempo
d’immersione.
Di seguito è riportata una tabella riassuntiva, proposta dallo stesso Haglund, che mostra le
principali variabili tafonomiche osservabili in ambiente acquatico.
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Luogo di
ritrovamento
Include fattori geografici ed ecologici Æ longitudine, latitudine, locazione
geofisica, profondità, accesso agli scavatori
Stagione Basata, ad es. sul ciclo dell’aria e sui cambiamenti di temperatura del luogo
di ritrovamento
Resti ritrovati Il cranio e l’estremità distali perdono i tessuti molli prima delle ossa del
torso e dell’estremità prossimali. La zona pelvica è l’ultima a scheletrizzare
Pelle e muscoli
È importante notare la velocità di variazione, e la perdita max di tessuto:
nessuna perdita – perdita senza esposizione -perdita con esposizione
parziale – perdita totale.
Articolazioni Presenza di tutte le giunture – di alcune – assenza.
Legamenti Possono esserci anche se non ci sono più articolazioni.
Sangue nella
cavità midollare
Ritrovato anche in corpi scheletrizzati
Cartilagine Nessuna perdita – perdita parziale – perdita totale
Odore Difficilmente discriminabile da quello del contesto marino
Adipocera Decelera la perdita di tessuti molli
Abrasione Il trascinamento sul fondo produce diversi tipi di frazionamento. Spesso lo
si nota in corpi spiaggiati o ritrovati in zone con correnti forti. Quando
presente, può assottigliare la corticale, esporre la spugnosa, o esporre la
cavità midollare.
Bioerosione:
erosione e scavo
L’erosione produce dei canali che assomigliano a segni di roditori, o lesioni
litiche, concentrati nelle metafisi di ossa lunghe. Lo scavo produce piccole
perforazioni nella corticale che, frequentemente, si allargano con l’erosione
o la dissoluzione.
Dissoluzione I cambiamenti nelle condizioni chimiche possono causare una progressiva
dissoluzione del carbonato di calcio; è difficile discriminare dall’abrasione,
ma la dissoluzione causa un assottigliamento della cortex senza segni di
abrasione
Incrostazione La crescita, sul substrato di calcio dell’osso, di organismi sessili come
cirripedi, suggerisce che l’osso non è stato sepolto
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2.1.2 Scheletrizzazione:
La scheletrizzazione avviene quando i tessuti molli, o resti di materia disseccata vengono persi.
La decomposizione di ossa avviene nell’ultimo stadio di decomposizione di un corpo.
Insieme all’influenza di generali fattori esterni, i microrganismi occupano un importante ruolo
nella distruzione di resti sepolti. Anche la qualità del suolo è fattore determinante nella
conservazione di un osso.
Sebbene la putrefazione riguardi la distruzione di tessuti molli, l’osso può essere danneggiato
dall’effetto dell’autolisi.
La superficie esterna di un osso è formata da una parte più sottile detta “corticale”, e una più
spessa detta “compatta”.
L’interno consiste in una sostanza spugnosa e porosa, chiamata “osso trabecolare”.
La distruzione dell’osso è un processo di riciclaggio di nutrienti, fuori e dentro il suolo: le
componenti originarie organiche ed inorganiche si separano le une dalle altre e vengono distrutte
da agenti chimici e fisici che operano sia sottoterra, sia in superficie.
Behrensmeyer descrive sei stadi di decomposizione dell’osso, basati su criteri facilmente
osservabili (macroscopici e meccanici, più che chimici) [16]:
Bone Weathering (Beherensmeyer ’78)
-Stadio 0: la superficie non mostra segni di cracking o flaking (crepatura e sfaldatura).
La cavità midollare contiene tessuti; la pelle, i muscoli, e i legamenti ricoprono parte o l’intera
superficie ossea.
-Stadio 1: l’osso mostra cracking parallelo alle strutture fibrose (nelle ossa lunghe è
longitudinale). Le superfici articolari possono mostrare crepe a mosaico. Grasso e pelle possono
essere o non essere presenti.
-Stadio 2: Sottili linee concentriche mostrano lo sfaldamento dell’osso, di solito associato al
cracking. All’inizio di questo stadio, sono comuni delle lunghe strisce sottili con un lato
attaccato all’osso. Segue uno sfaldamento più profondo ed esteso. Le crepe hanno spigoli vivi.
Tracce di legamenti, cartilagine e pelle possono ancora essere presenti.
-Stadio 3: la superficie dell’osso è caratterizzata da zone dove l’osso compatto è ruvido, e
omogeneamente disgregato. I segni non sono più profondi di 1-1.5 mm.
Le fibre ossee sono ancora attaccate le une alle altre. I bordi delle crepe sono arrotondati. I
tessuti non ci sono quasi mai.
-Stadio 4: La superficie ossea risulta fibrosa e ruvida. Piccole, ma larghe schegge si staccano
facilmente, non appena l’osso viene mosso. Il deterioramento penetra nelle cavità più profonde.
-Stadio 5: L’osso è molto fragile e facilmente fratturabile. La forma originaria è difficilmente
determinabile. L’osso spugnoso è di solito esposto, quando presente e può cancellare ogni
originaria traccia del compatto.
I cambiamenti dovuti al weathering possono frequentemente fornire la chiave per escludere
traumi perimortali. Infatti, il contesto forense richiede la ricostruzione e la discriminazione fra
traumi naturali e prodotti; la conoscenza delle alterazioni dovute semplicemente al trascorrere
del tempo che modifica l’osso, ne permette la distinzione.