2
più prevista come tema di prova orale. E pensare che, un tempo,
essa risultava addirittura la prima domanda!
E’ proprio così! Con questa tesi ci proponiamo di scagliare
un’invettiva contro chi abbia declassato la valenza del diritto
romano, contro chi lo abbia considerato un diritto non attuale.
E’ proprio allo scopo di dimostrare l’evidente attualità della di-
sciplina che si sviluppa l’intera nostra dissertazione.
Riguardando il frammento 1. 14. 3 del Digesto giustinianeo,
quello che tratta del servo Barbarius Philippus, essa si propone
di dimostrare come i risultati della ricerca romanistica si riper-
cuotano anche nella giurisprudenza moderna. Partendo, infatti,
dalla semplice interpretazione del frammento, concluderemo
l’elaborato riportando due sentenze della Cassazione e una de-
cisione della Giunta Provinciale Amministrativa di La Spezia,
ai quali casi è stato, appunto, applicato il principio del funzio-
nario di fatto.
Noteremo, quindi, come molteplici siano i legami con il caso
del nostro schiavo, soprattutto rispetto agli effetti che gli atti del
funzionario hanno prodotto prima della cessazione del suo uffi-
cio. Una delle due sentenze, addirittura, richiamerà esplicita-
mente il testo da noi studiato.
3
La tesi si compone di due parti: una che sviluppa il tema roma-
nistico e l’altra che si propone di esporre la dottrina e, in parte,
la giurisprudenza che si è creata negli ultimi decenni in Italia.
I PARTE
Il funzionario di fatto nella
prospettiva romanistica.
5
I capitolo
Le tesi degli studiosi di diritto romano: da Accursio
alla Peterlongo
1. Le cariche pubbliche a Roma: presupposti e irrego-
larità. D. 1.14.3: cenni generici sul personaggio di
Barbarius Philippus.
Il lavoro che ci accingiamo qui a svolgere riguarda l’analisi di
un frammento di Ulpiano sulla figura del funzionario di fatto e
inserito nel Digesto (D.1.14.3) nel titolo De officio praetoris.
Come ben sappiamo, per acquisire la qualifica di funzionario
era necessaria la sussistenza di determinati presupposti: innan-
zitutto, il candidato doveva averne i requisiti e poi, logicamente,
doveva essere stato eletto e immesso nell’esercizio delle proprie
funzioni.
La Lex Villia, poi, chiedeva anche di seguire un determinato
cursus honorum incominciando dalla questura, per la quale era
anche richiesta un’età minima
1
, per poi passare “attraverso” la
pretura e, infine, concludere con il consolato.
1
Lex Cornelia de magistratibus.
6
Poteva, però, facilmente accadere che qualcuno venisse nomi-
nato funzionario pur mancandone i requisiti, oppure derogando
alle norme riguardanti la competenza dell’organo che gli avesse
conferito l’incarico. In queste, come nell’ipotesi per cui egli si
fosse attribuito autonomamente una qualifica, si cadeva nella
figura in esame.
Più specificamente, però, alla sola prima ipotesi noi ci riferiamo
nel caso del frammento analizzato.
E’ questo, infatti, il caso, realmente accaduto durante il secondo
triumvirato
2
, di Barbarius Philippus, servo fugitivus, che, una
volta raggiunta Roma, essendosi spacciato per libero, era riusci-
to a farsi eleggere pretore e, quindi, con questo ufficio, era riu-
scito a compiere gli atti e i negozi che riteneva necessari.
Secondo alcuni
3
, però, il Barbario descritto da Ulpiano sarebbe
da assimilare ad un certo Barbαtios, eletto questore nel
713/41, ciò perché, riguardo alla carica, si è fatto riferimento al-
la scorretta iscrizione di una antica moneta che sarebbe, quindi,
da modificare con quella più giusta trasmessaci dal Digesto.
2
Suida, addirittura, ha sostenuto che il protagonista del mio lavoro fosse stato un favorito di Antonio.
3
Pauly-Wissowa: Realencyclopadie der classischen Altertumswissenschaft, Neue Bearbeitung, 1897,
III.
7
Scoperta successivamente la deficienza di requisiti e condotto,
di conseguenza, di nuovo in schiavitù, ci si era chiesti quale ef-
ficacia potesse avere la nomina e quale potessero averne gli atti
compiuti.
Ricordiamo come lo schiavo fosse una figura del tutto sui gene-
ris e, fortunatamente, non altrimenti riscontrabile nella società
moderna. Un uomo che, una volta assunta tale condizione, ve-
niva considerato al pari di una cosa, persino accessoria ad un
candelabro, ci racconterà Limentani con un articolo in Acme del
1957, ed era letteralmente di proprietà del suo padrone. Questi
poteva disporne come voleva e poteva addirittura venderlo. Lo-
gicamente lo schiavo era tenuto a servirlo e non poteva esercita-
re alcun diritto fino a che il dominus non lo avesse manomesso.
Il frammento in esame è stato estrapolato dal XXXVIII libro di
Ulpiano ad Sabinum che, come il successivo, tratta della tutela
legittima e dativa e della cura dei furiosi.
Al fine di una più facile lettura ci è sembrato giusto riportare
qui il testo integrale del frammento
4
corredandolo di una tradu-
zione proposta da Pasquale Voci
5
:
4
Tratto dal Digesto nell’edizione curata dal Mommsen.
5
Voci: D. 1.14.3 Note in tema di esercizio di fatto di pubbliche funzioni in Studi in memoria di Enrico
Guicciardi, pgg. 58-80, 1975.
8
D. 1.14.3
Ulpianus libro trigesimo octano ad Sabinum. Barbarius Philip-
pus cum seruus fugitiuus esset, Romae praeturam petit et prae-
tor designatu est. sed nihil ei seruitutem obstetisse ait Pompo-
nius, quasi praetor non fuerit: atquin uerum est praetura eum
functum. et tamen uideamus: si seruus quamdiu latuit, digitate
praetoria functus sit, quid dicemus? quae edixit, quae decreuit,
nullius fore momenti? an fore propter utilitatem eorum, qui a-
pud eum egerunt uel lege uel quo alio iure? et uerum puto nihil
eorum reprobari: hoc enim humanius est: cum etiam potuti po-
pulus Romanus seruo secernere hanc potestatem, sed et si scis-
set seruum esse, liberum effecisset. quo ius multo magis impe-
ratore obseruandum est.
“Barbazio Filippo, schiavo fuggito dal suo padrone, a Roma si
presentò candidato alla pretura e fu designato pretore.
Pomponio dice che certo la sua condizione di schiavo gli fu di
impedimento, come non fosse stato pretore.
9
E’ vero, però, (ma si deve tener presente –nella traduzione pro-
posta dalla Peterlongo) che egli gerì la pretura. E tuttavia ve-
diamo: cosa diremo se uno schiavo, nel tempo in cui si nascon-
de al padrone, eserciti le funzioni di pretore? i suoi editti, i suoi
decreti non avranno nessun valore? oppure ne avranno, per
l’utilità di coloro che abbiano compiuto un qualche atto presso
di lui, sotto specie di legis actio o altrimenti? E ritengo vero che
nessuno di quegli atti sia da giudicare privo di valore: ciò, infat-
ti, è più umano;
giacché il popolo romano avrebbe potuto attribuire quella pote-
stà ad uno schiavo, e, se ne avesse conosciuto la condizione
servile, avrebbe potuto farlo diventare libero. Tanto più lo stes-
so potere è da riconoscere all’imperatore”.
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2. La parola ai Maestri classici: da Accursio a
Gotofredo.
Vari sono stati gli autori che hanno ricamato le loro tesi sulla
questione.
Innanzitutto ricordiamo il glossatore Accursio, il quale ha svi-
luppato la propria teoria sulla base di tre domande
6
alle quali si
proponeva di rispondere: se Barbario effettivamente fosse stato
pretore, quale validità potevano avere gli atti da lui compiuti e
se, una volta acquisita la carica di pretore, il servo poteva aver
perso il proprio stato ed essere divenuto, quindi, libero.
Rispetto alla prima domanda anche il giurista concorda, insieme
con altri autori, nel ritenere che, in realtà, Ulpiano non ne abbia
dato una sua risposta diretta, ma si è limitato, invece, solo a
confermare implicitamente la tesi offertaci da Pomponio.
Quanto alla seconda, invece, per l’autore, bisogna giustificare la
validità degli atti con quell’hoc enim humanius est. Perché nes-
suno di quegli atti sia da giudicare privo di valore? Perché ciò,
infatti, è più umano, ci dice Ulpiano.
6
Utilizzate già precedentemente da Viviano, ma questi si era limitato a risolverne solamente due.
11
Al quesito, poi, se il servo potesse aver acquisito la libertà o
meno si evince dal testo la risposta affermativa, seppure in mo-
do confuso, riconoscendo, ad ogni modo, al popolo romano, e a
maggior ragione all’Imperatore, la possibilità, o di eliminare la
disposizione per cui era stato eletto, oppure ancora di liberare
Barbario.
Per lo scolastico Bartolo di Sassoferrato, che si è dedicato al
tanto complicato tema nel suo Commentario al Digestum Vetus,
gli atti di Barbario rimangono comunque validi, ma il servo non
è mai stato pretore e non è mai divenuto libero proprio per la
mancanza di un verus animus dandae libertatis da parte del po-
polo romano.
Con Baldo degli Ubaldi
7
, invece, il presupposto è differente:
Barbario non è mai stato pretore a causa dell’invalidità
dell’elezione, i suoi atti, però, restano validi per l’aequitas e la
publica utilitas, princìpi questi che operano a favore della col-
lettività. L’Autore, poi, ha seguito le orme del suo Maestro
quanto alla mancanza di libertà e dell’animus.
7
Baldo: In primam Digesti Veteris partem Commentaria, 1540.
12
Cuiacio, invece, massimo esponente della Scuola Culta, ha so-
stenuto che Pomponio abbia considerato Barbario un vero pre-
tore, mentre con Ulpiano ci ha parlato di “falsa pretura” ed è,
dunque, solo quest’ultimo, di conseguenza, ad essersi posto il
problema della validità degli atti.
A tal proposito l’Autore ha distinto fra atti compiuti per se so-
lus, cioè nel proprio interesse, per esempio un testamento, che,
perché posti in essere da uno schiavo, saranno invalidi, e atti
compiuti auctoritate principi aut populi che, invece, seguendo
il criterio della tutela puerile, sarebbero stati, invece, validi.
Come, infatti, la mancanza di judicium e, quindi, di capacità è
sostituita dall’attività del tutore, così anche la mancanza del re-
quisito della libertà in Barbario è sopperita dall’auctoritas
dell’Imperatore e del popolo romano che lo hanno eletto preto-
re.
Secondo la Peterlongo, però, questa similitudine non è corretta
a causa di divergenze riguardo alle utilitas che giustificano le
soluzioni scelte: una utilitas privata nel caso dell’infans e una,
invece, publica nel caso del pretore.
13
Cuiacio, poi, ha sottolineato l’ignoranza della condizione di
schiavo da parte dell’Imperatore o del popolo romano perché
altrimenti, ci ha detto l’Autore, l’elezione sarebbe equivalsa alla
manomissione.
Di particolare interesse, sebbene di minore risonanza
all’esterno, è stata, per noi, la tesi proposta dal Fabro che ci ha
parlato sì di uno schiavo considerato pro nullo in ambito civile
e paragonato agli animali ma che, pur non potendo assumere
formalmente la carica di pretore, poteva, in realtà, comunque
esercitarne le funzioni. Si parlava, infatti, di una praetura fungi.
I suoi atti, che normalmente avevano valore solo a causa
dell’honor magistratus, sono, ora, in ogni caso validi per le già
citate humanitas e utilitas.
Una decisa svolta si è avuta con il De electione magistratus in-
habilis seu incapacis per errorem facta, un testo del 1654, di
Jacopo Gotofredo, il quale aveva abbandonato la tripartizione
accursiana verso una più semplice duplice partizione del testo
che sottolineava, da una parte, il pensiero di Pomponio e,
dall’altra, quello di Ulpiano. Questi erano, secondo l’Autore, i
soli due momenti rilevanti ai fini dell’interpretazione del fram-
mento e che, quindi, ne giustificavano una “scissione”.
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Riguardo all’opinione del primo, che nel testo è collocata dal
sed nihil all’eum functum, Gotofredo gli attribuirà valore affer-
mativo, nel senso che la schiavitù non può essere stata un osta-
colo per l’elezione di Barbario ma può solo aver determinato
l’impossibilità di farlo diventare uno iustus praetor .
Con il secondo
8
, invece, si è posto il problema della validità de-
gli atti. Se venissero considerati invalidi, ci dice l’Autore, solo
perché posti in essere da un praetor non iustus, sarebbero una
lesione alla buona fede di chi lo ha considerato un vero pretore.
E’ proprio per questo motivo, dunque, che si deve propendere
verso la loro validità. In realtà questa tesi sarà, poi, criticata da
Pietro Cerami proprio perché essa non ha colto il significato e il
valore dell’utilitas publica come criterio di validità.
E’ stato, poi, proprio il Gotofredo a ricordare come questa pra-
tica, del fingersi liberi per aspirare a cariche pubbliche, fosse, in
realtà, molto diffusa al tempo del triumvirato tanto che i malfat-
tori cercavano, con ogni escamotage, di conquistarsi i favori dei
comizi, ai quali spettava, poi, il compito di eleggerli. Per avva-
lorare questa affermazione indicherò, per esempio, un certo
Amatius che si era spacciato per figlio di Mario, oppure ancora
8
Dall’et tamen videamus in poi.
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un altro che si era pubblicizzato come figlio di Fabia e, per que-
sto motivo, aveva cercato di rivendicare la casa Palatina e che,
una volta scoperto, era stato flagellato e restituito al padrone.
Questi casi saranno una importante risposta a tutti quei giuristi
9
che, nei tempi successivi, si saranno poi meravigliati del solo
essersi presentato, in quel periodo storico, un caso del genere.
9
Per esempio Brassloff, Aetas legittima, in Zeitschrift S. Stiftung Romanistische Abteilung XXII,
1901, pg. 172.