5
Fondamento trovato in primis nell’articolo 21 ma strettamente
connesso sia con gli articoli 41, 43, 2 e 3 della Costituzione e sia
all’attività suppletiva della Corte Costituzionale
2
.
Questo perché i nostri padri costituenti nel redigere la Carta
fondamentale si sono preoccupati soprattutto di tutelare il mezzo
della stampa trascurando il mezzo radiotelevisivo che nasceva in
quegli anni. Hanno avuto una visione legata più al passato che al
futuro, dovuta anche alla situazione socio-politica dell’epoca
3
: l’Italia
usciva dalla guerra e dal fascismo. La televisione e la radio, anche
se destinati a diventare egemoni nel corso di pochi anni, non
avevano avuto ancora un grande sviluppo, perciò essi si sono ispirati
a quelli che erano gli ideali liberali e democratici del tempo e ai
diritti e alle libertà che si erano già affermati in Europa con la
Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789,
trascurando quello che poi sarebbe diventato il mezzo di diffusione
più importante. In tale quadro è stata preziosa l’attività della Corte
Costituzione che è più volte intervenuta a dettare i criteri per la
disciplina di un mezzo di estrema importanza, caratterizzato dalla
scarsità naturale delle risorse tecniche, ossia frequenze disponibili
4
.
Infatti, proprio a causa della incompiutezza testuale dell’articolo 21
e grazie all’opera della Corte Costituzionale, è stato possibile
2
v. ESPOSITO RUBENS, Il complesso intreccio tra libertà e funzioni, diritti ed
obblighi, poteri e doveri nella radiotelevisione pubblica e privata, in Contributo
allo studio della regolamentazione giuridica delle reti, Edizioni Kappa, 2006, pp.
45-65.
3
v. MARTINES TEMISTOCLE, Lo Stato, in Diritto costituzionale, a cura di
SILVESTRI GAETANO, Giuffrè Editore, 1997, pp. 237-242.
4
v. PISTOLESI CINZIA, Note introduttive, in Contributo allo studio della
regolamentazione giuridica delle reti, cit., pp. 25-30.
6
rilevare un nesso tra gli articoli 21, 41, 43, 2 e 3 della Costituzione
e il diritto all’informazione
5
. Un diritto che, anche se non
espressamente enunciato nella Costituzione, è derivato dai principi
che essa tutela. Difatti fra i diritti impliciti del diritto costituzionale
di manifestare liberamente il proprio pensiero si annovera anche
quello di pluralismo informativo, che implica non solo un diritto di
informare, informarsi ed essere informati ma anche di accesso al
mezzo e di rimozione degli ostacoli alla circolazione delle notizie e
delle idee
6
.
In particolare, il diritto all’informazione si articola in tre aspetti:
1. Un aspetto attivo: diritto ad informare, ovvero libertà di
informare, intesa come libertà di comunicare con gli altri,
di diffondere notizie, idee, fatti, opinioni, utilizzando di
regola i mezzi di diffusione;
2. un aspetto passivo: diritto ad essere informati, ovvero
libertà di essere informati, intesa come diritto a ricevere
le informazioni, presupponendo che gli individui siano
messi nelle condizioni di conoscere in modo completo e
soddisfacente i fatti, le notizie e le idee diffuse dagli altri;
3. un aspetto riflessivo: diritto ad informarsi, ovvero libertà
di informarsi che tutela l’interesse degli individui a
reperire le notizie non solo dalle fonti, ma anche tramite la
raccolta di dati e analisi di avvenimenti
7
.
5
cfr. PISTOLESI CINZIA, Note introduttive, cit., pp. 7-15.
6
v. anche LAMBERTI ARMANDO, La libertà di informazione televisiva
nell’ordinamento italiano, in Principio di sussidiarietà e livelli di tutela dei diritti,
Milano, seconda edizione, in corso di pubblicazione, pp. 58-65.
7
v. LAMBERTI ARMANDO, La libertà di informazione televisiva nell’ordinamento
italiano, cit., pp. 47-57.
7
È evidente quindi che il pluralismo informativo è alla base
dell’informazione democratica e lo strumento che ha permesso
questa evoluzione è stata l’attività della Corte Costituzionale e del
legislatore ordinario in materia radiotelevisiva.
Occorre premettere che la televisione in Italia nasce come un regime
di monopolio pubblico creatosi in seguito agli eventi storici italiani
degli anni ’20, periodo in cui furono trasmessi i primi programmi
radiofonici. Nel 1924 nasce nel nostro Paese il servizio radiofonico,
per interessamento dell’allora Ministro delle Comunicazioni Costanzo
Ciano, facente parte del Governo Mussolini, l’URI (Unione
Radiofonica Italiana) che diventa la prima concessionaria pubblica.
Nel 1927 dalla trasformazione dell’URI nasce l’EIAR (Ente Italiano
per le Audizioni Radiofoniche) alla quale viene accordata una
concessione di 25 anni. Questa concessione resta valida fino al 1952,
quando viene rinnovata per altri 20 anni, nonostante l’EIAR avesse
cambiato denominazione nel 1944 in RAI (Radio Audizioni Italia).
Quindi, quando nel 1946 viene redatta la nostra Carta fondamentale,
siamo già in presenza del monopolio pubblico radiotelevisivo e i
nostri padri costituenti, mossi dal principio che il monopolio fosse
instaurato per scopi di utilità generale e di interesse pubblico
collettivo, non modificarono questa situazione, ma anzi, la
giustificarono con alcuni articoli come il 43 dove viene data la
8
possibilità allo stato di riservare a sé quelle attività che si
riferiscono a servizi pubblici essenziali
8
.
La prima volta che la Corte Costituzionale fu chiamata a pronunciarsi
in materia è con la sentenza n. 59 del 1960, con la quale si giudicò
legittimo il monopolio statale radiotelevisivo in quanto ricondotto
nella fattispecie protetta dall’articolo 43 della Costituzione, in base
al quale lo Stato può riservare a sé quelle attività che rientrano in
un interesse pubblico essenziale che deve essere tutelato. Questo
per impedire il formarsi di monopoli o oligopoli privati che, a causa
della disponibilità limitata delle frequenze, avrebbero messo in
pericolo la protetta libertà di manifestazione del pensiero.
Nel 1974 la Corte con due sentenze la n. 225 e la n. 226 inizia a ad
operare un cambiamento radicale del settore radiotelevisivo in
quanto pone le basi per la fine del monopolio radiotelevisivo e
l’ingresso di soggetti privati. La sentenza n. 225 dichiara illegittime
le norme che impedivano la ripetizione in Italia di programmi
irradiati da emittenti estere. La sentenza n. 226 dichiarò illegittime
le norme che riservano allo Stato l’esercizio della televisione via
cavo in quanto non utilizza frequenze e non occupa spazio nell’etere
- caratterizzato dalla disponibilità limitata delle frequenze – per cui
non vi era ragionevole motivo per limitare tale attività.
8
v. GRASSO ALDO, La televisione prima della televisione, e Servizio Pubblico, in
Storia della televisione italiana, Garzanti, 2000, pag. 5 e pp. 839-840.
9
A seguito dei due pronunciamenti della Corte del 1974 intervenne il
legislatore con la legge 14 aprile 1975 n. 103 che riformava
profondamente il servizio pubblico radiotelevisivo. La legge
affermava sempre il principio del monopolio statale nel settore
radiotelevisivo per le trasmissioni su scala nazionale, inoltre il
controllo del settore veniva trasferito dal Governo al Parlamento e si
istituiva una Commissione di vigilanza sui servizi radiotelevisivi.
Con la sentenza n. 202 del 1976 la Corte dichiara l’illegittimità di
alcuni articoli della legge 103 del 1975, consentendo l’esercizio
dell’attività d’impresa radiotelevisiva privata in ambito locale.
Difatti, a parere della Consulta non poteva essere invocata la
limitatezza delle frequenze per le trasmissioni in ambito locale. La
Corte inoltre detta anche i criteri a cui il legislatore doveva attenersi
per regolare l’attività e per il rilascio delle relative autorizzazioni.
Questo porterà alla nascita di una miriade di emittenti locali dando
così inizio all’epoca che poi verrà definita come quella del “Far West”
televisivo italiano.
Con la successiva sentenza n. 148 del 1981, la Corte riafferma la
legittimità della riserva statale dell’attività radiotelevisiva, ma per
evitare il formarsi di monopoli od oligopoli privati che avrebbero
compromesso il sistema democratico e di conseguenza la libertà di
manifestazione del pensiero, ha prefigurato un abbandono della
riserva statale a condizione che il legislatore disponesse delle misure
idonee a garantire l’importante principio del pluralismo.
10
Le emittenti locali, che nel frattempo si erano formate, trovarono
molte difficoltà a restare sul mercato poiché era difficile reperire le
risorse economiche necessarie alla sopravvivenza. Questo le
costrinse o a vendere gli impianti, operanti su frequenze che
nessuno gli aveva mai concesso, o a consorziarsi tra loro, facendo
nascere dei network privati. Questi network prima operarono con
forme di collegamento, c.d. di cassettazione, che davano la
possibilità di irradiare lo stesso programma agli stessi orari su più
emittenti, superando così l’ambito locale e poi con forme di
collegamento radioelettrico che portarono alla formazione di tre
emittenti televisive nazionali, Canale 5, Italia 1 e Rete 4, passando
dall’ambito locale a quello nazionale. Ma diffondere programmi su
scala nazionale senza autorizzazione rappresentava una violazione al
Codice postale, una violazione perseguita penalmente. Così nel 1984,
due Pretori, uno di Roma e uno di Pescara, sequestrarono gli
impianti di trasmissione di Canale 5, Italia 1 e Rete 4 oscurando le
tre emittenti. Intervenne prontamente l’allora Presidente del
Consiglio Bettino Craxi, il quale con d.l. legittimò, anche se in via
provvisoria, chiunque e a qualunque titolo e in qualunque ambito in
quel momento diffondesse programmi radiotelevisivi. Si trattava in
sostanza di una concessione ex legge, seppure in via provvisoria, nei
confronti delle emittenti radiotelevisive che si erano formate. Questo
d.l. venne reiterato più volte fino alla conversione nella legge n. 10
del 1985.
Con la legge n. 10 del 1985, il legislatore ha disatteso da quanto
espresso dalla Corte e, anziché predisporre delle misure antitrust a
11
garanzia del pluralismo, ha legittimato la situazione di oligopolio che
nel frattempo si era formata.
Ecco perché la Corte, chiamata ad esprimere il giudizio di legittimità
costituzionale sulla legge n. 10/1985, mossa sempre dagli intenti di
tutelare il principio del pluralismo informativo, non dichiara
illegittima la legge per la sua provvisorietà ma ne indica gli elementi
che avrebbero dovuto portare a farlo, cercando di spingere il
legislatore all’approvazione di una nuova legge di sistema.
Il legislatore sotto le pressioni della Corte e della Comunità Europea,
in attuazione della direttiva CEE n. 552 del 1989, il 6 agosto 1990
emana le legge n. 223, ovvero legge Mammì, dal nome del Ministro
proponente. Questa legge sana la provvisorietà della precedente
legge del 1985, pone fine alla riserva statale dell’impresa
audiovisiva, ma non risolve assolutamente i problemi anzi evidenzia
la necessità di creare un sistema complessivamente pluralista.
Infatti, istituisce una Commissione dei ruoli del servizio pubblico e
dell’emittenza privata all’interno del sistema misto pubblico-privato,
ma conserva la possibilità per un soggetto privato di rendersi
titolare di tre concessioni televisive su scala nazionale, lasciando
persistere quella situazione di oligopolio che si era creata e che era
già stata oggetto di denuncia da parte della Corte nelle due
precedenti sentenze, la n. 148 del 1981 e la n. 826 del 1988
9
.
Secondo quanto espresso dall’articolo 1 della legge sia l’attività
pubblica che privata radiotelevisiva soddisfano quel diritto
9
v. anche MARTINES TEMISTOCLE, Le libertà, cit., pag. 722.
12
all’informazione dei consociati
10
, quindi non solo il servizio pubblico
come si era verificato fin d’ora ma anche l’attività dei privati. Infatti
l’articolo 1 della legge dispone che “la diffusione di programmi
radiofonici o televisivi, realizzata con qualsiasi mezzo tecnico, ha
carattere di preminente interesse generale. Il pluralismo,
l'obiettività, la completezza e l'imparzialità dell'informazione,
l'apertura alle diverse opinioni, tendenze politiche, sociali, culturali
e religiose, nel rispetto delle libertà e dei diritti garantiti dalla
Costituzione, rappresentano i principi fondamentali del sistema
radiotelevisivo che si realizza con il concorso di soggetti pubblici e
privati
11
”.
Ecco perché la Corte con la sentenza n. 112 del 1993 ha
ridimensionato la norma, specificando che il principio di concessione
assume due significati diversi, uno se destinato alla concessione
pubblica, l’altro se destinato alla concessione privata. Con la
concessione pubblica lo Stato assegna la gestione del servizio
pubblico, dei mezzi tecnici necessari per espletarlo, e diventa lo
strumento organizzatorio attraverso il quale vengono conferiti alla
concessionaria poteri e doveri per il perseguimento di finalità di
interesse pubblico. Con quella privata vengono attribuite delle
predeterminate frequenze, quindi dei beni strumentali, che
consentono di esercitare l’attività d’impresa. Dato il nesso che si
viene a creare tra libertà di manifestazione di pensiero e libertà di
iniziativa economica, vengono posti dei limiti e controlli per tutelare
10
v. anche LAMBERTI ARMANDO, La libertà di informazione televisiva
nell’ordinamento italiano, cit., pp. 80-84.
11
Art. 1 della legge n. 223/1990.
13
il pluralismo e l’imparzialità dell’informazione televisiva e gli altri
valori racchiusi dall’articolo 21. Detti controlli però non possono
riguardare il contenuto dell’attività televisiva in quanto ugualmente
protetto dai valori dell’articolo 21.
Sempre in tema di concessione privata la Corte si è espressa
nuovamente con la sentenza n. 420 del 1994 dove ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’articolo 15, comma 4 della legge n.
223 del 1990 per violazione degli articoli 3 e 21 della Costituzione.
La legge infatti nel consentire ad un solo soggetto di essere titolare
di tre concessioni private a livello nazionale non ha rispettato il
principio del pluralismo: detenere tre concessioni equivale a
detenere il 25 per cento delle reti private. Secondo la Corte, per
garantire il principio del pluralismo espresso dall’articolo 21, occorre
impedire la formazione di posizioni dominanti e permettere l’accesso
al sistema televisivo al maggior numero di soggetti. La sola
concessione pubblica non è sufficiente a garantire il pluralismo.
Anche in questo caso doveva essere il legislatore ad intervenire e a
impedire che un unico soggetto concentrasse in sé un quarto delle
risorse frequenziali disponibili. Intervento che doveva o introdurre
dei limiti al numero di reti nazionali concedibili ad un solo soggetto
oppure, grazie a delle nuove tecnologie, come lo standard digitale
applicato alla televisione analogica, risolvere il problema della
scarsità frequenziali, con una moltiplicazione delle reti nazionali
dando la possibilità al maggior numero di persone possibili l’ingresso
al mezzo televisivo, garantendo il pluralismo informativo. Ed è
proprio in attuazione di ciò che vengono emanate delle norme
14
antitrust, delle norme contenenti gli obblighi di programmazione
televisiva e delle norme per regolare l’accesso dei soggetti politici ai
mezzi di informazione.
Per cercare di porre rimedio allo stato di insoddisfazione del grado di
pluralismo esterno, non adeguatamente tutelato con la legge n. 223
del 1990, il legislatore interviene quindi nuovamente con la legge n.
249 del 1997, ovvero legge c.d. Maccanico, con la quale istituisce
l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e introduce dei nuovi
limiti alla detenzione di concessioni televisive
12
. Mentre con la legge
Mammì un solo soggetto poteva essere titolare di un massimo tre
concessioni nazionali, con la legge n. 249 cit. “ad uno stesso
soggetto o a soggetti controllati da o collegati a soggetti i quali a
loro volta controllino altri titolari di concessione in base ai criteri
individuati nella vigente normativa, non possono essere rilasciate
concessioni né autorizzazioni che consentano di irradiare più del 20
per cento rispettivamente delle reti televisive o radiofoniche
analogiche e dei programmi televisivi o radiofonici numerici, in
ambito nazionale, trasmessi su frequenze terrestri, sulla base del
piano delle frequenze”
13
. Questo equivaleva a dire un massimo di due
reti nazionali mentre le eccedenti dovevano essere trasferite su
satellite o per via cavo entro il termine che sarebbe stato fissato
dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Inoltre per la prima
volta si parla di tecnica digitale, una tecnica che permette di
moltiplicare il numero delle frequenze disponibili, e che poi troverà
12
v. anche LAMBERTI ARMANDO, La libertà di informazione televisiva
nell’ordinamento italiano, cit., pp. 98-109.
13
Art. 2, com. 6 della legge n. 249/1997 (abrogato dall’art. 28, della legge
112/2004).
15
una migliore applicazione nella successiva legge n. 66 del 2001,
nella legge Gasparri del 2004 e nel Testo Unico della
Radiotelevisione
14
.
Con ordinanza del TAR del Lazio del 31 gennaio 2001 la legge
Maccanico è stata sottoposta a giudizio di legittimità da parte della
Corte, la quale si è espressa con la sentenza n. 466 del 2002,
dichiarando l’illegittimità del solo articolo 3, comma 7, in quanto non
prevedeva un termine finale certo, [espresso poi dall’Autorità con
delibera n. 346 del 2001] e non prorogabile, che comunque non
oltrepassasse il 31 dicembre 2003, termine entro il quale i
programmi irradiati dalle emittenti eccedenti il limite del 20 per
cento dovevano essere trasmessi esclusivamente via satellite o via
cavo.
Nello stesso periodo di tempo, le pressioni della Corte volte a
garantire l’accesso al sistema radiotelevisivo al maggior numero
possibile di persone, gli orientamenti seguiti dall’Unione Europea a
spostarsi verso la tecnologia digitale per superare il problema non
solo italiano della scarsità delle frequenze, fanno sì che venga
emanata la legge n. 66 del 2001 che dà l’avvio alla fase del
passaggio del sistema televisivo italiano dall’analogico al digitale, un
passaggio non facile e accompagnato da numerose polemiche e
modifiche.
14
v. PISTOLESI CINZIA, Note introduttive, cit., pp. 16-25.
16
Il sistema digitale terrestre viene considerato lo strumento adatto a
risolvere il problema della scarsità delle frequenze, perché nello
stesso spazio occupato da un canale analogico possono allocarsi dai
quattro ai sei canali digitali
15
. La frequenza è una grandezza fisica
che indica il numero di oscillazioni dell’onda elettromagnetica in una
unità di tempo
16
. Il che determina che dalle 12 frequenze nazionali
analogiche si potrebbe passare a 48/60 programmi nazionali e 24/30
programmi regionali in ciascuna Regione
17
. Questo perché nelle
trasmissioni analogiche vengono usate delle onde radioelettriche,
ovvero hertziane, che si propagano nell’etere attraverso ponti-radio
con un movimento circolare da punto a punto, mentre con il sistema
digitale viene usata una tecnica numerica, in bit, la stessa già usata
in altri campi di telecomunicazioni come per la telefonia e la
telematica
18
.
15
v. CELATA GIANDOMENICO, La televisione digitale, in I media e la new
economy, La sfida del digitale, prefazione di LIVOLSI MARINO, Guerini e
associati, 2004, pag. 53.
16
Per un canale analogico terrestre è necessario uno spazio elettromagnetico per
18-24 Mbit/s (milioni di bit al secondo), per un canale digitale bastano 4 Mbit/s,
la restante parte può quindi essere usata par altri canali.
17
v. PISTOLESI CINZIA, Note introduttive, cit., pp. 25-30.
18
v. ESPOSITO RUBENS, I “nuovi mezzi”: satellite, cavo, pay-tv, cit., pp. 117-
122.