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troppo sulla speculazione sociologica per approfondire, invece, come la
dimensione del rischio esiste nella realtà quotidiana, e di come la
sussidiarietà orizzontale sia, crediamo, la forma più potente di riduzione
del rischio.
Abbiamo, infine, deciso di focalizzare la nostra attenzione alle
fondazioni di origine bancaria, enti particolari che svolgono oggi un
ruolo importante come soggetti e strumenti di sussidiarietà orizzontale.
Questi enti, risultato di un complesso e problematico iter di riforme
legislative abbastanza recenti, sono a nostro avviso un interessante
fenomeno da indagare nel contesto di questo lavoro, sia per la poca
conoscenza che si ha delle modalità con cui agiscono, sia per l’enorme
mole di denaro che essi muovono per scopi di pubblica utilità.
Ancor più interessanti, si vedrà, i possibili sviluppi futuri che potrebbero
vedere protagoniste le fondazioni di origine bancaria, una volta che
questi enti saranno “maturati” pienamente.
Un passo di più sulla lunga strada della sussidiarietà orizzontale.
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PRIMO CAPITOLO
1. Le sfide di una cittadinanza europea
Gli scenari del rischio nell’Unione Europea
L’attuale dimensione della modernità è identificabile, secondo
l’accezione di U. Beck, come Società del rischio (Risikogesellschaft).
«Nella modernità avanzata la produzione sociale di ricchezza va
sistematicamente di pari passo con la produzione sociale di rischi».1
Perché questo avvenga sono necessarie due condizioni; in primo luogo
devono essere marginalizzate le situazioni di bisogno materiale tramite il
progresso e la regolazione giuridica e sociale; in secondo luogo ciò
avviene in virtù del fatto che nel processo di modernizzazione si liberano
rischi in dimensioni fino ad oggi sconosciute. Queste dimensioni
sconosciute, portano a pensare la società del rischio come società delle
catastrofi.
Conscio dell’enormità del rischio è anche Hans Jonas, che parla di
vulnerabilità della natura, comprendendo nella definizione di natura
tanto l’uomo quanto il mondo. La sua riflessione pone tre cause di
questa vulnerabilità: in primo luogo la «estensione spaziale e temporale
delle serie causali attivate»2, che possiamo individuare, con un’altra
terminologia, nella connettività complessa, termine con cui intendiamo
riferirci alle connessioni causali di tipo economico, sociale e politico
esistenti tra i diversi paesi del globo. Secondariamente bisogna
considerare l’irreversibilità di tali rischi, e in terzo luogo la loro
cumulatività, ovvero l’addizione degli effetti, la cui somma diventa
1
U. Beck [1986], Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, trad.it, La
società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci Ed, Roma 2000 , p. 25.
2
H. Jonas [1979], Das prinzip Verantwortung, trad. it., Il principio responsabilità,
Einaudi, Torino 1990, p. 11, corsivo mio.
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dunque imprevedibile all’agente iniziale. A questi tre elementi se ne
aggiunga un quarto evidenziato da Beck, la non specificità e universalità
del rischio, che colpisce indiscriminatamente paesi sviluppati e no, ricchi
e poveri, coloro che hanno prodotto i danni, élite politiche o industriali, e
cittadini. In questo senso si può parlare di effetto boomerang, tale che i
rischi colpiscono anche chi li produce.
Se finora la nostra riflessione è sembrata troppo teorica proviamo allora
a fare qualche esempio pratico di cosa intendiamo per rischio. Nella
dimensione del rischio sono compresi i danni ecologici, la sempre più
accentuata spaccatura tra nord e sud del mondo (paesi sviluppati e non-
sviluppati), gli scontri tra culture nel contesto della globalizzazione, la
crisi finanziaria internazionale. Oppure, per renderci conto
dell’estensione del rischio e della sua irreversibilità, pensiamo ad
esempio alle conseguenze di un’esplosione nucleare, i cui effetti durano
decenni, forse secoli, e colpiscono tutte le tipologie di persone
(professionali, culturali, cetuali), arrivando a colpire perfino gli stati
vicini, e quelli lontani tramite le esportazioni contaminate. La
connettività complessa è condizione, così, della connettività del rischio.
Si provi a pensare ai danni ecologici causati dall’inquinamento in tutto il
mondo, col seguente “effetto serra” e lo scioglimento progressivo delle
calotte polari. Gli scarichi aziendali tossici, che causano (oggigiorno la
documentazione è piuttosto ricca, anche in Italia) tumori nei dipendenti e
nascita di feti deformi nella popolazione locale. Si pensi, dunque, ai
danni causati dal disboscamento delle regioni amazzoniche alla flora,
alla fauna e anche alle popolazioni indigene.
Si può, difatti, e in molti aspetti differenti, includere l’uomo tra questi
esempi di rischio, come fa Hans Jonas, inserendo tra i rischi della
modernità quelli ipotizzabili derivanti dalla manipolazione genetica
dell’uomo.3 Oppure proviamo ad immaginare scenari di rischio sul piano
politico: dal costo della benzina che dipende dalle scelte politiche dei
3
H. Jonas [1979], op. cit., p. 28.
10
paesi arabi e dalle fluttuazioni delle borse mondiali; dal fatto che la
semplice scelta dei prodotti alimentari può avere delle conseguenze sulle
condizioni dei lavoratori dei paesi produttori, o influenzare le politiche
aziendali di una determinata marca; dalla consapevolezza che i propri
figli dovranno studiare in Università che permettono la mobilità
internazionale perché il mercato del lavoro globale richiede sempre più
queste figure professionali.
Quello che porta alcuni studiosi a parlare di Società del rischio, e noi a
partire nella nostra riflessione da questo contesto, sono le caratteristiche
della modernità che rendono ogni scenario di rischio catastrofico, e
questo per via della connettività e della portata del rischio derivante
dallo sviluppo tecnologico (un esempio su tutti: la bomba atomica). Le
guerre, i rischi ambientali e la crisi sono fenomeni che sono sempre
esistiti, si potrebbe obbiettare. Quello che è certo, però, è che non sono
mai esistiti con questa portata distruttiva.
Lasciando da parte per un attimo il dibattito dei teorici del rischio, che
era necessario presentare per chiarezza argomentativa, torniamo più
nello specifico all’argomento del nostro lavoro: gli scenari del rischio
nell’Unione Europea.
Quali sono dunque i rischi in cui vive oggi un cittadino comunitario?
Tornando agli esempi di scenari di rischio già esaminati pare chiaro che
un cittadino europeo, come qualunque abitante del pianeta terra vive nei
rischi finora riportati ad esempio: rischia di essere annientato da una
guerra atomica, di perdere ogni cosa che possiede per via della crisi
finanziaria, di perdere la salute per via di cibi geneticamente modificati.
Ma questi sono scenari di rischio probabilmente troppo ampi per il
nostro lavoro, quello che ci interessa è individuare quali sono i rischi
insiti nella stessa cittadinanza europea.
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La nostra opinione è che a rischio sia la cittadinanza comunitaria stessa.
La verità è che, finora, questo status di cittadinanza esiste solo sulla
carta, nei trattati. Ha comportato determinati vantaggi quali la libertà di
circolazione e la medesima valuta, la possibilità per gli studenti europei
di vivere per mesi in un altro paese con percorsi di mobilità, e altro
ancora. Ma questi vantaggi, per quanto importanti, ci sembrano ben poca
cosa perché si possa parlare di cittadinanza. E ben poca cosa per
l’Europa.
Quello che emerge da una riflessione concreta sulla cittadinanza europea
è che essa ancora deve crescere nelle teste degli europei, e per fare
questo serve del tempo4.
Ma delle strategie ben efficaci svolte di comune accordo dai paesi
europei al fine di dare una spinta in questo senso, creando una sfera
pubblica europea, sono necessarie. L’istituzione Unione Europea ha
bisogno di comunicarsi ai cittadini, ha bisogno che questi comunichino
con essa, e infine che questi comunichino tra loro, affinché nasca una
sfera pubblica di respiro europeo, e affinché i cittadini si sentano parte
dello stesso paese, pur nelle diversità.
Vediamo allora le principali linee guida dell’UE al fine di creare
strategie di comunicazione coi cittadini comunitari.
Già l’Action plan del luglio 2005 può darci importanti elementi
nell’individuare delle linee strategiche di fondo. Questo documento
riguarda l’azione della commissione europea nelle strategie
comunicative, e parte dall’osservazione di tre errori di fondo: la
frammentazione delle attività comunicative, la bassa rispondenza di
queste a bisogni dei cittadini, la mancanza di un dialogo effettivo e
proattivo con questi ultimi. Da qui si evidenziano i tre punti
fondamentali: ascoltare (dialogo), comunicare (andare incontro ai
bisogni) e going local (vicinanza a luoghi e rituali dei cittadini). Focus
4
Significativo in questo senso il no della Francia e dell’Olanda alla Costtituzione
europea
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dunque su: “social, societal and cultural aspects, including the linguistic
and cultural dimensions”5, ovvero la necessità di creare una vera
comunicazione bidirezionale col cittadino.
Il Plan D dell’ottobre 2005, rimanda alle tre D: Democrazia, Dialogo,
Dibattito. Gli obiettivi del documento sono la pubblicità dell’istituzione
Commissione Europea, e stabilire la fiducia coi cittadini. Le tre D citate
non possono che rimandare al concetto più generale di partecipazione,
ed infatti il piano prevede manifestazioni in questo senso. Anche il Plan
D fa riferimento ai bisogni dei cittadini: “Any vision of the future of
Europe needs to build on a clear view on citizen’s needs and
expectations. This is the purpose of Plan D”6.
Nel White Paper del febbraio 2006, si afferma infine la centralità di un
approccio decentralizzato al fine di creare una sfera pubblica europea, e
con particolare riferimento all’educazione civica, che costituisce la
possibilità di accedere alle informazioni dei cittadini europei, ma anche
la capacità di comunicare le loro opinioni alle autorità.
I tre documenti presentati, importanti per le tematiche della società
dell’informazione nell’Unione Europea, ci permettono di individuare dei
punti comuni che vanno a costituire i principi fondanti una strategia di
comunicazione dell’istituzione, ma soprattutto a favorire la crescita di
una sfera pubblica europea, non meno di una reale comunità
transnazionale.
1. Dialogo e partecipazione – Coinvolgere e ascoltare i bisogni dei
cittadini.
2. Educazione – Conferire capacitazioni7 alla partecipazione e
all’informazione.
5
Europe's Way to the Information Society - An Action Plan, COM(94) 347 final, Brussels
19.07.1994, p. 3, corsivo nostro.
6
The Commission’s contribution to the period of reflection and beyond: Plan-D for
Democracy, Dialogue and Debate, COM(2005) 494 final, Brussels, 13.10.2005, p. 2.
7
Intendiamo il termine “capacitazione” nell’accezione di A. Sen, a cui faremo riferimento
più avanti.
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3. Going Local – Coinvolgere le particolari dimensioni sociali nel loro
stesso contesto, con le leggi, i riti e i linguaggi propri del luogo.
Questi principi dovranno essere utilizzati come una sorta di “mappa”
nella molteplicità di strategie che verranno adottate dai diversi attori in
gioco, istituzionali e no, attraverso i differenti strumenti comunicativi, e
questo al fine di garantire la coerenza dell’azione comunicativa e delle
politiche comunitarie, oltre che l’efficacia di una macro-strategia
integrata di base.
Se queste strategie e queste politiche non verranno messe in atto
concretamente attraverso le pubbliche amministrazioni nazionali,
nell’uso dei servizi al cittadino e dunque nel corretto esercizio dei propri
diritti di cittadinanza europea, risulta chiaro che non si sarà realmente
cittadini.
E quando non si è cittadini a tutti gli effetti, l’esistenza stessa dell’essere
umano, perché questo siamo ancor prima che cittadini, è messa in
pericolo. Ancor di più se si fa questa considerazione nel contesto della
Società del rischio.
Oggi stesso l’Europa, come il resto del mondo, è percorsa da una grave
crisi finanziaria, la guerra in medio-oriente prosegue senza sosta, il
terrorismo resiste con tenacia alla forza bellica, politica ed economica
dell’occidente, e a questo scenario possiamo anche aggiungere i rischi
ambientali che abbiamo accantonato in virtù di problematiche più
evidenti e a portata d’occhi quotidiana, come la recessione, l’inflazione e
il fallimento di tante imprese con la conseguente disoccupazione.
Se in questo scenario che viviamo ogni giorno non siamo “protetti” dai
nostri diritti di cittadini dell’Unione Europea perché chi si è preoccupato
di scriverli e firmarli su un trattato non si è poi preoccupato di come
metterli in pratica, di come questi diritti sarebbero passati
dall’ordinamento comunitario a quelli nazionali, alle pubbliche