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Introduzione.
Il presente lavoro si propone di analizzare il fenomeno dello stress occupazionale, definito
anche “stress lavoro-correlato”, alla luce dei grandi cambiamenti nel mondo del lavoro che
stanno interessando il contesto economico e sociale contemporaneo. L'introduzione di
nuove tecnologie, la globalizzazione e la finanziarizzazione dell'economia e la diffusione di
nuove forme contrattuali flessibili, oltre a portare un profondo mutamento
nell'organizzazione del lavoro, hanno indotto alcuni significativi cambiamenti soggettivi ed
oggettivi del lavoro; insieme agli aspetti positivi che non vanno sottovalutati in fase di
disamina, si sono generate anche nuove insidie, e fra queste l'aumento dello stress
lavorativo. Il termine stress è entrato da anni a far parte di quell'insieme di parole diffuse
che connotano la società contemporanea; tanto si parla e tanti parlano di stress, attribuendo
allo stesso diversi significati in base ai differenti gruppi e situazioni sociali. I significati
sono tanti quante le persone e tanti quanti i diversi contesti in cui i termini vengono
utilizzati. Il fenomeno sociale stress deriva da un processo di costruzione sociale della realtà
da parte degli individui: come affermano Berger e Luckman, la realtà non è un assoluto che
si manifesta in modo identico al di fuori di contesti sociali e temporali ed è un prodotto
sociale continuo e caotico degli atti cognitivi e delle azioni contingenti di ciascuno e di tutti
i soggetti1. Lo stress risulta avere una forte componente soggettiva: ciò che è stressante per
un individuo o un gruppo, può non esserlo per altri e viceversa. Molto dipende dalla
percezione soggettiva della realtà, o, per dirla à la Bateson, la mappa non è mai il territorio,
l'idea della realtà non corrisponde mai alla realtà ontologicamente data. Per definire questo
aspetto molto importante della rappresentazione dello stress, si è preso a prestito dalla
letteratura sociologica il concetto di definizione della situazione coniato da Thomas e
Znaniecki, che si basa sull'interazione tra individuo e ambiente ed è il frame concettuale
attraverso il quale il soggetto percepisce e valuta un evento che può costituire stress e
reagisce di fronte ad esso. Le cause di insorgenza di stress sono da attribuire ad uno
squilibrio cognitivamente percepito tra gli impegni che l'ambiente fisico e sociale impone di
fronteggiare e la propria capacità (percepita) di affrontarli; quando si sperimenta una
condizione di questo tipo nella realtà lavorativa si parla di stress-lavoro correlato. Nel primo
1
Cifiello S., Strumenti di rilevazione e intervento nelle situazioni di stress lavorativo, Angeli, Milano, 2004,
pagina 30.
2
capitolo si tenterà, tenendo conto dei principali studi sociologici in materia, di tracciare un
excursus sui principali cambiamenti avvenuti nel passaggio dalla cosiddetta società fordista
a quella post-fordista: tali mutamenti hanno condizionato l'emergere di un nuovo
“lavoratore”, apparentemente più autonomo, creativo e meno eterodiretto che in passato, ma
anche maggiormente esposto ai rischi di tale società che Ulrich Beck ha definito appunto
“società del rischio”2. Nel secondo capitolo si affronterà l'analisi del concetto di stress
occupazionale partendo dalla teorizzazione generale dello stress per giungere ad una
disamina del fenomeno definito “stress occupazionale” e dei suoi principali fattori causali. Il
terzo capitolo, infine, tenendo conto dei fattori eziologici emersi, si proporrà di analizzare il
concetto fondamentale di coping, inteso come l'insieme delle risposte che i singoli soggetti e
le organizzazioni possono attuare nei confronti dello stress occupazionale, non solo in
un'ottica di “riduzione del danno” ma in vista di una strategia preventiva, infatti l'ipotesi di
fondo è quella secondo cui la vera strategia veramente efficace e “vincente” pare essere
proprio quella preventiva, ovvero una prassi quotidiana tesa a impedire sul nascere segnali
di disagio promuovendo il benessere organizzativo.
2
Accornero A., “Dal fordismo al post-fordismo: il lavoro e i lavori”, in Quaderni di rassegna sindacale, n. 1
gennaio – aprile 2001.
3
1. Trasformazioni del lavoro contemporaneo e nuovi malesseri del lavoratore.
1.1 I cambiamenti del lavoro nella transizione dal fordismo al postfordismo.
Numerose sono le trasformazioni che negli ultimi anni si sono verificate nel contesto socio-
economico internazionale; si tratta di cambiamenti che pervadono non soltanto tutto il
sistema economico ma quello sociale e nel suo complesso possono sintetizzarsi nei termini,
talvolta anche abusati, di globalizzazione, new economy, esplosione delle tecnologie
dell‟informazione, apertura dei mercati internazionali, economia della conoscenza. Questi
complessi mutamenti possono essere letti attraverso un “macro” passaggio di natura
paradigmatica relativo alla transizione avvenuta da un modello produttivo, economico e
sociale definito di stampo fordista ad un altro definito postfordista.
Il passaggio dal fordismo al postfordismo è una transizione difficilmente definibile in
maniera univoca, e numerosi ed accesi sono i dibattiti tra chi considera il postfordismo un
modello del tutto nuovo, che nasce da una frattura netta con il passato e chi invece lo
interpreta nel segno della continuità e in evoluzione del precedente paradigma fordista. E‟
una transizione lunga che sembra passare quasi inavvertita proprio perché non mostra cesure
nette, pertanto si tenterà di delineare i tratti fondamentali del taylorismo-fordismo e del
post-fordismo in riferimento all‟organizzazione del lavoro ed ai mutamenti del lavoro e dei
suoi significati. Il paradigma taylor-fordista, fondato sui principi del “management
scientifico” sviluppati dall'ingegnere americano Frederik Winslow Taylor, che divenne il
sistema egemone a partire dagli anni Venti del nostro secolo, si incentrava sulla produzione
di massa grazie ad economie di scala di prodotti omogenei: la prima applicazione per
produrre su vasta scala fu realizzata, infatti, dalla Ford che nel 1908 realizzò la catena di
montaggio per avviare la creazione del modello T, l'automobile destinata a conquistare il
mercato con i suoi prezzi particolarmente competitivi.
Il fordismo rappresenta il modello industriale statunitense affermatosi nel secondo
dopoguerra, basato sulla produzione in grande scala di prodotti standardizzati,che fa
riferimento e riprende l'organizzazione del lavoro di tipo taylorista (la cosiddetta
organizzazione scientifica del lavoro), nella scomposizione del lavoro in atti elementari e
nell'identificazione di una “one best way” relativa alla loro corretta realizzazione. L'imporsi
ed il diffondersi di modelli di vita consumistici hanno poi costituito l'evoluzione sociale
4
complementare ed il presupposto stesso per il successo su scala mondiale di tale
paradigma3.
I punti di forza dell'analisi di Taylor erano orientati a risolvere i due problemi fondamentali
nell'organizzazione del lavoro, cioè una scarsa razionalizzazione del processo produttivo,
una conoscenza empirica e non scientifica dei tempi e dei metodi di lavoro, e “l'infingarda”
natura umana che delinea una tipologia di operaio preoccupato di lavorare il meno possibile
perché sospettoso e indolente. Superando attraverso un progettato e razionale sistema di
principi e di regole questi due limiti allo sviluppo, diventava possibile ottenere la massima
efficienza dell'impresa con conseguente massimo profitto per gli imprenditori e massimo
benessere per i lavoratori oltre a una stabile condizione di collaborazione fra le due classi
che poneva fine ad una situazione conflittuale.
La concezione di fondo su cui si basava l'analisi fordista era quella dell'homo oeconomicus,
ossia di un individuo che agisce razionalmente perseguendo la massimizzazione del profitto
economico: secondo Taylor, il lavoratore dipendente era esclusivamente motivato dalla
necessità di produrre un reddito sufficiente per garantire la sopravvivenza per sé e la sua
famiglia, per cui bastava offrirgli la possibilità di guadagnare di più per assicurarsi una
prestazione lavorativa adeguata e conforme agli standards produttivi4. L'operaio taylor-
fordista era essenzialmente una macchina “non pensante”5 al servizio di un'organizzazione
rigida e strutturata sulla base della one best way: un principio di razionalità assoluta che
individua il migliore ed unico modo di svolgere un compito lavorativo. Il modello aziendale
indicato da Taylor consisteva nell'adozione di una conduzione programmata e controllata dei
processi di produzione, definita come controllo statistico dei processi di produzione, sulla
base di alcune assunzioni:
- osservazione, analisi e cronometraggio dei movimenti dei lavoratori;
- precisa misurazione del costo di lavoro di ogni operazione;
- adozione di norme organizzative e procedurali riferite a quel computo.
La fabbrica taylorizzata prevedeva una strutturazione fortemente gerarchica data da una
frammentazione verticale tra il livello della dirigenza, quello intermedio che era
3
La Rosa M., (a cura di), Sociologia dei lavori, Angeli, Milano, 2002, pag 30.
4
La Rosa M., (a cura di), Sociologia dei lavori, Angeli, Milano, 2002, pag 29.
5
Risulta significativa per una migliore comprensione di questa visione taylorista un espressione rivolta
frequentemente da Taylor agli operai: “Voi non dovete pensare; nell'azienda ci sono altre persone pagate per farlo”.
5
responsabile dell'analisi dettagliata delle procedure lavorative ed il piano più basso,
destinato alla esecuzione materiale del lavoro.
La proposta di Taylor riguardava la minuziosa scomposizione di ciascun lavoro in minimi
frammenti allo scopo di garantire un costante ed omogeneo rendimento ottenuto in base al
principio della prevedibilità. Ogni lavoratore doveva conoscere la tipologia delle operazioni
da compiere, le modalità con cui le stesse andavano compiute ed il tempo ad esse destinato
in modo da ottenere esattamente il risultato complessivo giornaliero previsto, senza
introdurre alcuna personale “iniziativa”. Riguardo al pensiero di Taylor in una grande
industria le macchine e la progettazione industriale potevano essere anche enormemente
complicate, ma non occorreva che i lavoratori comprendessero tale complessità. Egli
asseriva che meno gli operai erano “distratti” dalla comprensione del disegno d'assieme
tanto maggiore sarebbe stata l'efficienza con cui si sarebbero limitati a eseguire i propri
compiti6.
L'aspetto di maggiore negatività che il taylorismo ha portato con sé è riconducibile alla
negazione dell'umanità, cioè alla negazione del riconoscimento della soggettività umana al
soggetto produttivo. Il lavoratore è privo di qualunque forma di emozione e di qualunque
altro tipo di bisogno che non sia quello di guadagnare7.
E' bene precisare che quando si fa riferimento al cosiddetto modello fordista non si indica
soltanto una determinata modalità di organizzazione di impresa, ma si allude ad uno
scenario sociale complessivo che ha profondamente segnato la vita quotidiana degli
individui che di esso sono stati partecipi e che ancora oggi rappresenta lo sfondo sul quale
proiettiamo le attuali trasformazioni, al fine di delineare e comprenderne meglio i contorni
ancora in evoluzione di queste ultime. “Il fordismo postbellico deve essere visto, quindi,
non tanto come un semplice sistema di produzione in serie, quanto come uno stile di vita”:
modelli organizzativi, concezione ed implementazione dei servizi, pianificazione famigliare,
distribuzione dei tempi di vita, modelli di soddisfazione dei bisogni, consumi culturali ed
altri aspetti ancora, contribuivano a formare un quadro d'insieme relativamente coerente e
funzionale.8
Questo scenario sociale ha cominciato a sgretolarsi con l'irrompere della complessità e con
l'emergere di un nuovo paradigma organizzativo con annesse nuove concezioni del lavoro. I
6
Sennet R., L'uomo flessibile, Feltrinelli, Milano, 2001. pag 40
7
Sforza G., Il male di lavorare tra isolamento e solitudine, Angeli, Milano, 2005.
8
La Rosa M., (a cura di), Sociologia dei lavori, Angeli, Milano, 2002, pag 33
6
fenomeni della globalizzazione dell'economia e l‟avvento delle nuove tecnologie hanno reso
l'economia fortemente instabile determinando un brusco ed irreversibile aumento di
competitività nei mercati, l‟ambiente esterno diventa sempre meno prevedibile e presenta
caratteristiche di forte turbolenza e dinamicità. I cicli di vita dei prodotti e dei processi
produttivi e tecnologici si accorciano e risulta sempre più difficile fare previsioni sugli
scenari futuri9. Il riconoscimento del carattere complesso dell'attuale società implica uno
spostamento da una concezione delle organizzazioni come “macchine banali”, caratterizzate
“da una relazione uno-a-uno tra i suoi input (stimolo, causa) e i suoi output (risposta,
effetto)”, deterministica, pianificabile ex ante, a una in cui le organizzazioni sono macchine
“non banali”, e cioè molto meno (o affatto) prevedibili, e in cui il rapporto tra input-output
è condizionato dall'output precedentemente dato e non è più interpretabile come una
sequenza ordinata e lineare10. In questa situazione, la “flessibilità” diviene il leitmotiv della
new economy, ogni tentativo di leggere la realtà sociale ed i processi storici attraverso
modelli dicotomici o dualismi schematici, può risultare come riduttivo ed eccessivamente
semplificatore, ma proprio enfatizzando la coerenza di tendenze assai più ambigue e
contraddittorie, risulta possibile cercare di scorgere e di interpretare passaggi e
trasformazioni effettivamente in atto, pur rimanendo consapevoli che il significato loro
attribuito è una proprietà dell'osservatore e non degli eventi in sé. Volendo raggiungere un
maggior grado di oggettività scientifica all'osservazione dello studioso, sarebbe opportuno
attuare quella che che è definita come “un'osservazione di secondo ordine”11.
La discontinuità del modello post-fordista rispetto all‟assetto precedente non è però
riconducibile soltanto al sistema di produzione, variamente ricondotta all'imporsi prima del
modello giapponese, e poi dell'economia reticolare, bensì ad un insieme più complessivo di
dimensioni sociali, culturali, economiche e politiche, il cui mutamento è rinvenibile sia sulla
scala delle dinamiche macro-sociali (accelerazione del processo di compressione spazio-
temporale, intensificazione del carattere planetario delle filiere produttive), sia su quella
9
La Rosa M., (a cura di), Sociologia dei lavori, Angeli, Milano, 2002, pag 33.
10
La distinzione tra macchine banali e non banali è stata introdotta dal cibernetico Von Foerster. Una macchina
banale trasforma certi input in certi output in modo puntuale e ripetitivo, con cui, si può sempre sapere, dato un input,
quale output produrrà indipendentemente dal tempo; una macchina non banale è capace di modificare se stessa ad ogni
operazione ed è imprevedibile: cfr. Monti E., Sentieri del conoscere, Angeli, Milano, 1997.
11
L'osservazione di secondo ordine permette all'osservatore di osservarsi e quindi di rendersi conto di quale
distinzione sta utilizzando, ma questa auto-osservazione non produce affatto una conoscenza più profonda o
definitiva e vera; essa genera soltanto dei paradossi. Cfr. Monti E., (a cura di), Sentieri del conoscere, Angeli,
Milano, 1997, pagina 349.