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sabotaggio del lavoro e ad azioni illegali. Lo scopo di tali violenze è di
“eliminare” un persone che è, o è divenuta, in qualche modo “scomoda”,
distruggendola psicologicamente e socialmente, onde provocarne il
licenziamento o indurla alle dimissioni, con strategie aziendali messe in atto
con siffatta finalità.
Il mobbing, solitamente, danneggia anche le stesse aziende, facendo registrare
un calo significativo della produttività nei reparti in cui qualcuno è stato
vessato dai colleghi.
Non va dimenticato che per la difficile situazione economica e l'elevato
tasso di disoccupazione in Italia, sui posti di lavoro, c'è molta più tensione nei
rapporti rispetto ad altri paesi. Questa conflittualità, generalmente accettata
come dato di fatto dai lavoratori italiani, sebbene non sia definibile in senso
stretto come mobbing, costituisce un terreno fertile al suo sviluppo.
La famiglia italiana, molto interessata ai problemi anche professionali dei
propri membri, rappresenta per il mobbizzato uno dei luoghi privilegiati di
sfogo. La vittima soffre e trasmette la propria sofferenza ai parenti. Ne
risulterà un ipercoinvolgimento della famiglia che resisterà e compenserà le
perdite, almeno per un certo tempo, ma quando le risorse saranno esaurite
entrerà anch'essa in crisi (doppio mobbing).
Nonostante il mobbing sia un fenomeno molto diffuso negli ambienti di
lavoro, è possibile prevenirlo tramite alcune misure come l’informazione in
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azienda, la creazione di ambienti di lavoro incentrati sulla cultura della
partecipazione e del coinvolgimento costruttivo del lavoratore.
Il mobbing è la causa prima dello stress, quello lavorativo in particolare, ed
in considerazione di ciò il Capitolo I è stato dedicato allo stress. Le persone
sotto stress, quando si trovano in situazioni considerate estreme per la loro
sopravvivenza, sia sul piano della gratificazione, sia su quello del
sostentamento, possono modificare radicalmente il proprio comportamento,
cominciando a perpetuare strategie persecutorie e divenendo frequentemente,
a loro volta, dei mobber.
Nel Capitolo II, dedicato al mobbing, vengono presentati alcuni tipi di
mobber, anche se non va dimenticato che i veri mobber sono imprevedibili e
sfuggono ad ogni schematizzazione. Essi infatti sono determinati, nella loro
azione, dalle circostanze che si trovano intorno. Sempre in questo capitolo è
presente una distinzione tra gli spettatori conformisti, che aiutano attivamente
il mobber compiendo a loro volta piccole azioni mobbizzanti contro la vittima
per portarla fuori dalla squadra di lavoro (side-mobber), e gli spettatori
conformisti che fanno finta di niente, dovrebbero frenare il mobber e non lo
fanno, vedono le ingiustizie e fanno finta di non vedere, rendendo così
possibile il mobbing.
Comunque, se le situazioni di stress non causano necessariamente il
mobbing, quest’ultimo invece si accompagna sempre con il primo.
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Il mobbizzato si trova spesso in situazioni di sovra-attivazione: potrebbe
essere costretto a dover svolgere molte mansioni contemporaneamente o
essere alla ricerca continua di strategie per fronteggiare il mobbing. Il
possibile insuccesso di queste azioni difensive potrebbe aggravare
ulteriormente la situazione di carico.
L’insieme delle strategie attraverso le quali l’individuo cerca di far fronte a
situazioni stressanti può essere definito facendo ricorso al concetto di coping,
analizzato nel Capitolo III.
Nelle capacità di adattamento, insite nelle potenzialità di coping, vengono
prese in considerazione le possibilità che un individuo ha di gestire
efficacemente una situazione di stress, ottenendo degli effetti che perfezionano
la qualità del suo rapporto con l'ambiente organizzativo e con il suo lavoro.
Nel caso del mobbing, comunque, la più efficace strategia di evitamento
sembra essere la prevenzione, che passa attraverso azioni di informazione
presso le vittime, i dipendenti e le aziende.
In tal senso, per meglio comprendere gli aspetti legati alla prevenzione, alla
fine del presente lavoro è stata in Appendice, analizzata la legislazione vigente
in Italia in materia di mobbing.
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CAPITOLO 1
LO STRESS
La parola stress deriva dal latino strictus, che significa stretto, e dal
francese antico estrece, che significa situazione stretta ed oppressione. La
parola stress era già in uso nell’Inghilterra illuministica del 1700. Il fisico e
naturalista inglese Robert Hooke (1635-1703), scoprì il rapporto esistente tra
una forza esterna e la distorsione del corpo elastico che la subisce, ma fu un
altro naturalista inglese, Thomas Young (1773-1829), che formulò “la legge di
Hooke”.
In tale formulazione, Young definiva stress “il rapporto tra la forza che
dall’interno del corpo elastico contrasta la forza esterna e l’area sulla quale la
forza agisce”(Young, cit. in Asprea, Villone Betocchi, 1998, p.32).
La legge di Hooke aveva come conseguenza fondamentale, la possibilità
di una misurazione dello stress. Infatti, i cambiamenti di forma e di volume
furono indicati da Young come strains e furono definiti come “il rapporto tra
il cambiamento di dimensione di un oggetto e le dimensioni originali”
(Young, cit. in Asprea, Villone Betocchi, 1998, p.32). Lentamente, l’uso dei
termini stress e strain si ampliò, entrando in campi diversi, dalla medicina alla
psicologia. La ricerca teorica e pratica sullo stress comincia con gli studi
compiuti in psicofisiologia da Cannon (1914). Egli elaborò la descrizione del
concetto di reazione d’allarme. Tale reazione si verifica quando un soggetto
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affronta un pericolo esterno. La concettualizzazione del fenomeno dello stress
è dovuta però al chimico organico Hans Selye (1936), e la testimonianza di ciò
risulta da una lettera spedita nello stesso anno alla rivista Nature. L’interesse
di Selye era quello di studiare le risposte fisiologiche che gli animali di
laboratorio (conigli, ratti) mostravano nei confronti dell’introduzione, nel loro
organismo, di vari tipi di agenti nocivi. Una volta trattati, a seguito di
vivisezione, Selye procedeva ad uno studio dei cambiamenti biochimici e della
morfologia degli organi interni causati dalle varie sostanze iniettate. Il dato
interessante che emerse dagli studi di Selye fu la tendenza, in tali animali, a
manifestare un insieme omogeneo di reazioni e di cambiamenti morfologici e
patologici. Fu questa constatazione a indurre Selye a scrivere la lettera alla
prestigiosa rivista. La lettera proponeva la tesi che esistesse, nei meccanismi
biologici che presiedono alle risposte di adattamento di un organismo a fronte
di un agente nocivo, un insieme di segni e sintomi tra loro correlati, tale da far
pensare all’esistenza di una sindrome generalizzata di risposte. L’idea era già
maturata in Selye quando, studente di medicina all’università di Praga, allievo
dell’ematologo Von Jaksch, aveva ipotizzato, in un’intuizione scaturita da una
domanda posta al suo illustre maestro in merito al fatto che tutti gli ammalati
sembravano avere un qualche cosa in comune, l’esistenza di una specie di
“sindrome dell’ammalamento”. Una sindrome che riteneva fosse in grado di
descrivere alcune somiglianze generali riconoscibili in ammalati colpiti da
patologie diverse. Selye nel 1932 a Montreal si ritrova di fronte a un problema
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consimile quando, assistente ricercatore del biochimico canadese Collip,
(Collip, cit. in Favretto,1994, p.9) per sostenere le ricerche di questo sugli
ormoni ovarici, si rende conto che iniettando non solo sostanze ovariche, ma
estratti di fegato, di rene, ottiene sempre gli stessi sintomi sugli animali di
laboratorio. In questo modo viene a configurarsi una situazione che riecheggia
per certi versi quell’iniziale intuizione sulla “sindrome di ammalamento” che
aveva avuto da studente; infatti anche negli animali accadeva che,
indipendentemente dalla natura di alcune potenziali cause specifiche, gli
organismi rispondevano con una sindrome comune. In generale, le principali
reazioni che Selye aveva notato riguardavano, un incremento volumetrico
delle ghiandole surrenali in associazione con la presenza di ulcere peptiche
della mucosa dello stomaco; successivamente Selye rileva l’aumento della
glicemia dovuto all’incremento da parte del fegato della produzione di
glicogeno. Nel corso degli esperimenti Selye osserva anche l’esistenza, negli
animali studiati, di alcune delle reazioni che appartenevano alla già nota
“risposta di allarme” di Cannon (1935). Cannon aveva messo in luce come un
incremento di adrenalina e noradrenalina nel midollo delle ghiandole surrenali
avesse una funzione indispensabile, anche negli animali, nel predisporre
l’organismo a comportamenti di attacco e di fuga (incremento del battito
cardiaco, dilatazione pupillare, riduzione della salivazione). Selye scoprì che
le reazioni fisiologiche studiate da Cannon non erano le uniche manifestate da
un organismo in difficoltà ma che esse costituivano una concatenazione di
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eventi omeostatici; adattamenti e modificazioni fisiologiche di cui la “reazione
di allarme” non è che il primo anello. Prendendo in prestito un termine
derivato dalla metallurgia che indicava in quel contesto gli effetti che grandi
pressioni determinavano sui materiali, quell’insieme di cambiamenti che Selye
aveva descritto nella sua lettera alla rivista viene chiamato “stress” o più
specificamente “sindrome generale di adattamento”. Selye definisce lo stress
come “una risposta (generale) aspecifica a qualsiasi richiesta proveniente
dall’ambiente” (Selye, 1975, cit. in Favretto, 1994, p.10). In questa definizione
è importante evidenziare i termini “aspecifico” e “qualsiasi”. Con
“aspecificità” Selye mette in luce l’esistenza di un meccanismo complesso di
risposte dell’organismo che elude la tradizionale visione che un effetto, una
risposta biologica, sia sempre riconducibile ad una sola causa. Infatti si è soliti
considerare qualsiasi stimolo ambientale come in grado di attivare delle
risposte specifiche: il caldo, ad esempio, induce un incremento di sudorazione.
Ma Selye enfatizza il fatto che questi stessi stimoli possono indurre una
risposta stereotipata, chiamata appunto sindrome generale di stress, in cui il
rilievo principale non è dato alla natura dello stimolo, ma alla sua intensità. La
risposta dell’organismo deve intendersi come aspecifica in quanto la sua
finalità è favorire un generale adattamento dell’organismo. Col termine
“qualsiasi” si intende indicare che stimoli anche diversi, sono in grado di
attivare una medesima risposta. Viene, quindi, enfatizzato il fatto che non sono
solo eventi straordinari ad attivare una sindrome generale di adattamento ma
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che anche richieste ambientali solite, se accentuate, sono in grado di attivare
una risposta di stress. In seguito Selye si mise alla ricerca di quel principio in
grado di giustificare quel complesso di reazioni che lui aveva considerato
generalizzate e sintoniche in grado di presentarsi in maniera stereotipata anche
di fronte a stimoli ambientali diversi; l’autore chiama questo principio first
mediator. Il first mediator, (mediatore unico) ha le caratteristiche di un
traduttore universale, in grado di tradurre tutte le lingue (stimoli esterni
differenziati) in un’unica lingua comprensibile, appunto, la sindrome generale
di adattamento.
Selye ritenne di avere individuato questo mediatore unico nell’ormone
adrenocorticotropo (ACTH), che sembrava accompagnare tutte le risposte di
stress degli animali di laboratorio da lui studiati, anche se la presenza di questo
ormone, come è stato poi dimostrato, si accentua soprattutto nella fase di
resistenza della reazione di stress. Per Selye la reazione di stress si articola in
tre fasi che costituiscono, nel complesso, la sindrome generale di adattamento:
la fase di allarme, la fase di resistenza, la fase di esaurimento. Nella fase di
allarme c’è una mobilitazione dell’organismo per far fronte allo stimolo
stressore. In questa fase il soggetto sopporta una pressione specifica, di fronte
alla quale prova paura e ansia. In tali condizioni l’individuo cercherà di far uso
delle più svariate energie e difese in suo possesso per affrontare efficacemente
ciò che lo sovrasta. All’interno della fase di allarme Selye distingue due
momenti opposti, shock e controshock, momenti nei quali, ad una iniziale
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caduta al di sotto del livello fisiologico di funzionamento dell’organismo (base
line), corrisponde un secondo momento reattivo, controshock, attivato e
sostenuto dal sistema neurovegetativo. Si potrebbe quindi dire che, se da un
lato ci si deve difendere da situazioni contingenti esterne, è anche possibile
che si provochino intenzionalmente delle situazioni da cui altri dovranno
difendersi. Per esemplificare tale relazione, basta pensare al rapporto
dell’uomo con la natura: quando si verificano dei cataclismi, siamo impotenti
di fronte all’immensità dell’evento e non possiamo difenderci in alcun modo,
così come la natura deve subire le azioni distruttive dell’uomo quando
interviene in modo invasivo. La fase di resistenza o di omeostasi è
caratterizzata da una serie di momenti durante i quali il soggetto tende a
ristabilire il proprio equilibrio perduto nella fase precedente, attraverso
l’adattamento. Adattarsi a una situazione significa trovare i metodi per
affrontarla e immaginare come la situazione si potrà sviluppare. Selye ha
dedicato le sue iniziali ricerche su questa fase, alla secrezione di
glicocorticoidi e al potenziamento delle funzioni della corteccia surrenale.
Selye, aveva scoperto che molti dei fenomeni che accompagnavano le risposte
degli animali di laboratorio, sottoposti ad una esposizione prolungata di agenti
nocivi, erano l’effetto della presenza di una quantità consistente di
glicocorticoidi, in particolare del cortisolo, nell’organismo. Gli effetti di questi
ormoni si configurano in quelle che Selye chiama tracce biochimiche
irreversibili comprimarie nei processi di deterioramento e degenerazione
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dell’organismo. Nella fase di esaurimento le risorse, mobilitate
precedentemente, vanno ad esaurirsi e, se lo stimolo stressore persiste,
l’organismo può andare incontro ad ulteriori stimoli stressori. In altre parole,
quelle modifiche reattive allo stimolo, che avevano consentito all’organismo
di fronteggiare bene lo stress di breve durata, possono diventare patogene se
persistono come risposta a lunga durata, sollecitate dal persistere dello
stimolo.
L’analisi dei fenomeni che costituiscono la risposta di stress non può
prescindere dalla constatazione che se esiste lo stress devono esistere anche
degli agenti, delle cause che hanno determinato quello stress.
Si è soliti indicare con il termine stressors, le cause, gli agenti nocivi, in
grado di indurre la sindrome generale di adattamento.
Gli stressors, di cui inizialmente si sono occupate le prime ricerche, erano
di natura fisica o chimica, ed erano solitamente esterni.
Selye infatti indagò sugli effetti di sostanze nocive inoculate e di stimoli
fisici particolarmente accentuati; si trattava, in questi casi, di stressors nocivi
caratterizzati da un rapporto prossimale, cioè introdotti a stretto contatto con
l’organismo dell’animale di laboratorio. La contiguità non è comunque l’unica
caratteristica posseduta da uno stressor.
Altri due aspetti fondamentali sono l’intensità e la durata dello stimolo che
ne denotano le potenzialità stressogene. Quantità molto contenute e una durata
limitata non configurano un potenziale stressogeno significativo di uno
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stimolo, ma possono addirittura avere delle denotazioni positive, tonificanti:
ad esempio una doccia gelida può avere effetti terapeutici.
Ma via via che l’attenzione degli studiosi si è spostata dalle risposte di
stress di organismi animali a quelle di organismi umani, ci si è resi conto che
un’altra serie di stimoli, di natura più complessa, era in grado di attivare una
risposta generale di adattamento.
Questi stimoli sono in grado di attivare una risposta di stress, sulla base
non tanto di una risonanza fisicamente misurabile, quanto piuttosto sulla base
della risonanza psicologica soggettiva che sono in grado di determinare.
Questo ha aperto il campo allo studio dei valori simbolici che tali stimoli
posseggono e della risonanza intrapsichica che essi attivano e, più in
particolare, ha messo in luce l’esistenza di interessanti variabilità che
distinguono le risonanze intrapsichiche di individui diversi nei confronti di
uno stesso stimolo. La constatazione che non solo stimoli biofisici possono
essere considerati stressors, ma anche relazioni interpersonali, fenomeni
simbolici, parole, ha messo in crisi l’individuazione di un singolo fattore
neurormonale, come era stato per l’ormone adrenocorticotropo, quale
mediatore unico.
L’idea di fondo era che il minimo denominatore comune tra stimoli così
diversi quali possono essere, ad esempio, stimoli psicosociali, fisici, e
biologici, potesse essere l’attivazione emozionale. Di questo parere è Mason
(1975).A svolgere un’azione generalizzante, per Mason, sono i medesimi
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meccanismi psicofisiologici coinvolti nelle emozioni e sostenuti dagli apparati
neuroanatomici che presiedono alla genesi e al mantenimento delle
manifestazioni somatiche centrali e periferiche legate alle stesse emozioni.
Un ruolo fondamentale viene attribuito nell’uomo, alla presa di posizione
affettiva e alle implicazioni cognitive, ad essa relative, nel determinare le
qualità della risposta fisiologica allo stress. In questa direzione Mason ha
compiuto una serie di ricerche che supportano l’idea che anche le risposte a
stressors fisici, e le reazioni più immediate allo stress presenti nella fase di
allarme, verrebbero attivate e integrate grazie all’intervento dell’eccitamento
emozionale. Oggi molti ricercatori ritengono che tra fonti di stress e risposte di
stress, esista un processo di connessione, la natura del quale non è ancora
definita, in grado di tradurre tutti gli stressors, diversi per essenza, in un’unica
risposta stereotipata. Infatti, non tutti gli stimoli fisici o biologici, sono di per
sé stessi stressogeni; ad esempio, aver fame, aver sete e riconoscere nel
proprio contesto di vita oggetti in grado di soddisfare tali stimoli non è
occasione di stress, come non è occasione di stress la puntura di un insetto, ma
gli uni come l’altra, in particolari condizioni quali ad esempio troppo cibo,
troppa acqua, o un’eccessiva preoccupazione per la puntura dell'insetto, sono
in grado di trasformare la risposta specifica e ristretta in una risposta
stereotipata e generale. In questo senso i modelli emozionali sembrano
evidenziare, rispetto a questi fenomeni, delle interessanti caratteristiche
teoriche e sperimentali, che permettono di integrare in un unico contesto
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comportamenti relazionali e processi mentali molto complessi con reazioni
vegetative semplici. Queste osservazioni portano a suffragare l’idea che tra
stress ed emozioni esistano delle strette connessioni. Il problema però è ancora
aperto perché, se da un lato Selye aveva preconizzato che le endorfine
avrebbero costituito il primo mediatore, dall’altro, se si accetta l’ipotesi
emozionale, ci si deve chiedere se la complessità dei numerosi pattern
emozionali possa essere uniformata ad un processo compatto come quello
dello stress.
Cox (1978) osserva che il termine stress dovrebbe essere precisato, e
classifica gli approcci di ricerca alle problematiche dello stress, in quelli basati
sulla risposta e in quelli basati sullo stimolo. Tra gli approcci basati sulla
risposta, colloca quei trend di ricerca che evidenziano l’aspecificità della
risposta e della sindrome da stress, dando risalto ai parametri fisiologici dello
stress e alla loro indipendenza dalla situazione esterna. Rappresentante
esemplare di questa linea è Selye.
Per quanto concerne invece gli approcci basati sullo stimolo, Cox osserva
che essi pongono la loro attenzione sulla capacità dello stressor di indurre
risposte specifiche tali da portare, in particolari contigenze stimolative,
l’organismo al limite di rottura.