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Introduzione
Da quando il termine “stress” è entrato a far parte del linguaggio terminologico
specifico della psicologia (Selye, 1955), si assiste ad un proliferare di diverse scuole di
pensiero che, raggruppate nel loro insieme, possono essere divise tra quelle che
enfatizzano il ruolo attivo dello stimolo esterno che agisce sulla persona (che in questo
caso lo subisce passivamente) e quelle che intendono invece lo stress come risultato di
un’interazione tra persona e ambiente e che vedendo, quindi, lo stress come il risultato
di tale interazione, presuppongono un ruolo attivo della persona. In ogni modo,
qualunque sia l’approccio, è bene sottolineare che un eccesso di stress sulla (e nella)
persona può avere una diretta conseguenza sulla salute e sul benessere.
Quotidianamente siamo esposti a numerosi stimoli che possono rappresentare una fonte
di stress, e tra questi sempre maggiore importanza viene attribuita al lavoro. Sebbene il
lavoro rappresenti soltanto uno dei possibili aspetti della vita da cui può derivare
l’esperienza di stress e di malattia, in realtà viene identificato come una delle principali
fonti di stress da molti gruppi di soggetti studiati.
Ad esempio in uno studio condotto da Dohrenwend&Dohrenwend, nel 1974, su alcuni
gruppi di persone, veniva chiesto loro di attribuire un punteggio ad alcuni eventi –
paragonandoli con il matrimonio – a cui era attribuito un valore arbitrario di 500. Nella
lista di 102 eventi stressanti, 21 erano relativi al lavoro. I punteggi più alti vennero
assegnati ad eventi lavorativi superati soltanto da “morte di un figlio” e dal “divorzio”.
Secondo altri dati, ottenuti da Cox et. al., in una ricerca del 1981, più della metà degli
intervistati (54%) ha indicato il lavoro come la principale fonte di problemi e stress; un
altro 12% di intervistati ha, invece, imputato all’interfaccia lavoro-casa l’origine del
proprio stress. Infatti non è possibile considerare “netto” il confine tra ambito lavorativo
e non; di conseguenza – come hanno dimostrato alcuni studi – lo stress lavorativo
influenza la vita privata e viceversa. Si può quindi affermare che entrambi questi aspetti
della vita agiscono ed interagiscono tra di loro nel determinare effetti sull’uomo.
Ad ogni fase storica di evoluzione delle organizzazioni si è accompagnato l’uso di
nuove macchine e/o tecnologie e ogni volta queste hanno comportato processi di
adattamento dell’uomo (organizzazione del lavoro, meccanizzazione, automazione,
informatizzazione, etc.). A tali processi la psicologia del lavoro ha attribuito
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un’importanza connessa alla potenziale minaccia che tali nuovi strumenti avevano nei
confronti dell’identità sociale, del ruolo e della “soggettività” dei lavoratori.
I nuovi modelli integrati del lavoro umano e, in particolare, dell’organizzazione del
lavoro, sempre più improntata sulla ricerca della qualità, hanno prodotto profonde
modificazioni nelle attività lavorative: ossia si sta passando progressivamente, nel
tempo, da attività a carattere prevalentemente “motorio” ad attività di carattere
prevalentemente “cognitivo”.
Nella maggior parte dei paesi industrializzati le continue trasformazioni economiche e
lavorative hanno sollevato una nuova domanda di salute con cui gli operatori della
prevenzione si trovano oggi a confrontarsi.
Nella prima parte del mio lavoro, ho cercato di spiegare il concetto di “lavoro” non solo
come insieme di attività strumentali, ma come un’attività sociale con implicazioni
complesse sull’individuo, riportando alcuni risultati di ricerche effettuate da Elton G.
Mayo. Egli, infatti, ricorda che l’uomo ricerca nel lavoro soprattutto una motivazione
sociale che lo spinge verso una valida motivazione psicologica ovvero
all’autoaffermazione personale. Ed è questo uno dei tanti motivi per cui Mayo ha
migliorato gli studi di F.W. Taylor che, invece, sosteneva che l’uomo è soprattutto
motivato da interessi economici senza alcun coinvolgimento cognitivo.
Ho cercato, poi, di illustrare il concetto di stress associato al lavoro, l’attenzione e la
responsabilizzazione da parte dei datori di lavoro, che negli ultimi tempi hanno dovuto
adeguarsi alla normativa, e come il concetto “stress” sia cambiato nel corso degli anni
proseguendo nella descrizione dei vari modelli teorici di riferimento e i vari approcci
per gestirlo all’interno dell’ambiente lavorativo. Lo stress legato all’attività lavorativa
può essere definito come un modello di reazioni emotive, cognitive, comportamentali e
fisiologiche ad aspetti avversi e nocivi del contenuto, dell’organizzazione e
dell’ambiente di lavoro. Diversi approcci teorici si sono occupati di dare una definizione
al fenomeno “stress” in rapporto alla dimensione lavorativa e quelli riportati nel mio
lavoro possono essere raggruppati in tre fondamentali macro-categorie: approccio
tecnico, fisiologico e psicologico e di cui riporto le differenze sostanziali. La mia
attenzione si è focalizzata sul modello interazionale di Karasek, che basa il suo costrutto
su due doppie variabili, ovvero domanda e controllo. Secondo questo modello, infatti,
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queste due variabili danno vita a quattro probabili situazioni che possono risultare più o
meno stressanti per la persona.
L’esposizione della prima parte di questo lavoro continua con le conclusioni dello
studio della European Agency for Safety and Health at Work e il coinvolgimento delle
Organizzazioni come “luogo” lavorativo vissuto dal lavoratore, con le sue implicazioni,
appunto, fisiche e psicologiche (cambiate negli anni) e soprattutto temporali. Questa
missione viene perseguita diffondendo la cultura della prevenzione in collaborazione
con i diversi Governi Locali, diffondendo linee guida, buone pratiche e qualsiasi tipo di
consiglio ai vari stakeholders sociali.
Concludendo la prima parte, il mio interesse si sposta sui “costi” causati dallo stress
sulle Organizzazioni: lo stress rappresenta uno dei principali problemi di salute legato
all’attività lavorativa e rappresenta anche un costo economico sostenuto, nell’unione
Europea nell’anno 2002, dalle Organizzazioni che è pari a 20 miliardi di euro. Infatti il
“calo” di salute (fisica e mentale) del lavoratore porta al deterioramento delle
prestazione dell’intera organizzazione, con conseguenti fenomeni di assenteismo, di
aumento di turnover e di riduzione della produttività. Importanti, come spiegato nel
paragrafo 1.7, i modelli della European Agency in cui si possono osservare diverse
dimensioni di rischio, come quelle relative al contenuto del lavoro (ambiente ed
attrezzatura, il lavoro ripetitivo, carico di lavoro, orario di lavoro, etc.) e quelle relative
al contesto lavorativo (quale organizzazione del lavoro, i rapporti interpersonali,
controllo e libertà decisionale, etc.).
Nonostante le applicazioni normative, l’attenzione e la consapevolezza da parte dei
datori di lavoro, la patologia da lavoro tradizionale è in diminuzione mentre sono in
aumento il disagio lavorativo e le patologie di tipo aspecifico, attribuibili ad un’origine
multifattoriale. Le caratteristiche culturali ed organizzative del lavoro assumono
crescente significatività per l’interpretazione del rapporto ambiente-individuo nella
ricerca delle cause delle malattie cronico-degenerative legate soprattutto alla sfera
psichica, agli apparati cardiovascolare, locomotore e digerente. Ciò premesso, il
compito delle scienze psicosociali sarà orientato allo studio delle work-related diseases
o malattie “lavoro-associate” ad origine multifattoriale, ovvero causate da varie
motivazioni.
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Per questo motivo l’interesse delle “discipline del lavoro” si sta focalizzando sulle
caratteristiche umane (percettive, cognitive, relazionali) coinvolte dall’introduzione di
sistemi flessibili automatizzati e autocontrollati. Si può, quindi, ipotizzare che la
differenziazione del carico di lavoro, conseguente all’introduzione delle nuove
tecnologie, possa dare – contemporaneamente - una maggiore soddisfazione lavorativa,
come risultato di una risposta creativa che genera un maggior livello di controllo tra la
persona e la realtà lavorativa, ma anche una sindrome da deprivazione o monotonia
industriale dovuta all’automatizzazione di comportamenti di routine come conseguenza
di risposte solite a richieste solite.
Gli studi psicologici sul carico di lavoro si sono concentrati essenzialmente sulla
performance, cioè sulla prestazione che l’individuo può fornire in base alle sue capacità
e al contesto lavorativo. È chiaro che un carico di lavoro eccessivo, ma anche
sottodimensionato, può rappresentare un fattore di rischio e quindi essere causa di
situazioni stressanti per il lavoratore. Da una indagine svolta nel 1996 dalla Fondazione
Europea per il Miglioramento delle Condizioni di Vita e di Lavoro
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, con sede a
Dublino, è emerso che lo stress, dopo il mal di schiena, è il secondo problema tra quelli
più frequentemente segnalato dai lavoratori europei. La stessa indagine evidenzia come
la quota di lavoratori, che utilizza strumenti informatici, sia rilevante e in continua
espansione. Circa il 20% dei lavoratori usa il computer come strumento base del proprio
lavoro.
Si è, pertanto, sviluppata una ricca letteratura volta a stabilire il ruolo del lavoro come
causa di stress. Di seguito vengono riportate le posizioni più autorevoli nell’ambito
delle attività di studio del rapporto stress e lavoro.
Il NIOSH (National Institute for Occupational Safety and Health), l’agenzia federale
statunitense responsabile di condurre ricerche e fornire raccomandazioni per la
prevenzione delle patologie e degli infortuni sul lavoro, i cui studi e indicazioni
costituiscono un riferimento per la medicina del lavoro a livello mondiale, ha definito lo
stress da lavoro come l’insieme delle risposte psichiche e fisiche di allarme che si
manifestano quando richieste da parte del lavoro non corrispondono alle capacità, alle
risorse o alle necessità del lavoratore.
1
Fondazione Europea di Dublino per il Miglioramento delle Condizioni di Vita e di Lavoro. Le
condizioni di lavoro nell’Unione Europea. Rapporto 1996.
www.europa.eu.int./agencies/efilwc/wceuen.htm
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Anche nella Ricerca sullo stress da lavoro dell’Agenzia europea per la sicurezza e la
salute sul lavoro esiste un crescente consenso sulla definizione di stress legato al lavoro
in termini di “interazioni” tra lavoratore ed ambiente di lavoro. Un particolare rilievo su
questa “interazione” è stato formulato da numerosi autori.
Tra questi French (1982) ed altri hanno formulato la teoria dell’”Adattamento Uomo-
Ambiente” in cui vengono identificati due aspetti fondamentali di questo adattamento e
cioè il grado con cui le capacità e le abilità del lavoratore soddisfano le richieste
dell’ambiente di lavoro ed il grado con cui l’ambiente di lavoro soddisfa le necessità del
lavoratore e, in modo particolare, fino a che punto l’individuo può usare le proprie
capacità e conoscenze e fino a che punto è incoraggiato a farlo.
Karasek è, forse, lo psicologo che più di altri nei suoi studi si è occupato del ruolo
svolto dalle caratteristiche del lavoro nel determinare stress e conseguenti effetti sulla
salute. Egli ha proposto un modello che comprende ed integra quei fattori a cui di solito
si attribuisce un elevato potere stressogeno e cioè: l’elevato carico di lavoro, le scarse
possibilità di decisione, il basso livello di capacità richieste e l’isolamento sociale.
Karasek (1990) sostiene che la soddisfazione sul lavoro dipende dall’autonomia
decisionale e che lo stress origina da valutazioni di carichi eccessivi del lavoro.
Individua così le variabili dell’organizzazione del lavoro sulle quali agire per ridurre lo
stress e le patologie ad esso correlate ed aumentare la soddisfazione ed il benessere dei
lavoratori. Queste variabili sono: il carico di lavoro, cioè la quantità e la qualità della
domanda di operazioni da svolgere e la pressione dei compiti; l’autonomia decisionale
sui comportamenti da intraprendere per svolgere il proprio lavoro, e la varietà del
lavoro ovvero la possibilità di ricorrere ad altri per aiuto e cooperazione nella soluzione
dei problemi.
In un’epoca in cui si pensava che il “taylorismo” (“La massima prosperità può esistere
solo come risultato della massima produttività possibile degli uomini e delle macchine
della fabbrica, vale a dire quando ciascun uomo e ciascuna macchina producono al
massimo delle loro possibilità, perché solo nel caso in cui i vostri uomini e le vostre
macchine producano più lavoro di tutti gli altri intorno a voi, la concorrenza non vi
obbligherà a pagare ai vostri lavoratori salari più alti di quelli pagati dal vostro
concorrente” – F.W. Taylor durante lo Scientific Management Preliminary Statement
Conferenza del 28 aprile 1909) fosse in via d’estinzione permangono, e hanno ancora
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una notevole diffusione, le attività lavorative di tipo ripetitivo e monotono. Il notevole
incremento dei ritmi e della velocità del lavoro, oltre ad essere determinato da una
maggiore competitività, è anche conseguente al fatto che l’automazione, introdotta a
blocchi nei cicli lavorativi, ha determinato a carico dei lavoratori superstiti, cioè su
quelli ancora non sostituiti dalle macchine, un aumento dei ritmi. Un altro elemento
importante da considerare è che in Europa la popolazione lavorativa ha già un’età media
abbastanza alta (il 31% dei lavoratori ha più di 45 anni) e ciò non è un fattore
favorevole alla capacità di adattamento alle mutate condizioni di lavoro o ai futuri
ulteriori cambiamenti.
A tutto ciò si aggiunge un ulteriore elemento: la differenza di “genere”. Nella seconda
parte del mio lavoro ho voluto rilevare l’importanza del “genere” sia a livello
lavorativo che di stress associato al lavoro ed ho voluto evidenziare come sia importante
un approccio diverso nel genere – da parte di Istituzioni e delle stesse Organizzazioni -
sia nella prevenzione che nella gestione dello stress. Infatti l’essere uomo o donna
identifica differenze nei ruoli sociali che sono così codificate e “cristallizzate” da
costituire vere e proprie gerarchie, nelle quali le donne occupano – nel mondo – i
gradini più bassi avendo anche un livello di istruzione uguale, o addirittura, più elevato
relegandole ad un ceto sociale inferiore.
Ho voluto evidenziare che fin dal 2001 l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità)
ha inserito la medicina di genere nell’Equity act, inteso non solo come equità di accesso
alla cura, ma anche come appropriatezza di cura secondo il proprio genere. Per quanto
riguarda lo stress cronico e, quindi, le malattie stress correlate le differenze biologiche
giocano un ruolo determinante.
Per quanto riguarda la dimensione specificatamente di genere, si possono, inoltre
sottolineare ulteriori importanti differenze:
Le donne sono assorbite dal ruolo di caregiver e da quello di shock absorber
della famiglia, perciò hanno minore disponibilità di tempo da dedicare ai mezzi
di informazione e tutto ciò le porta a fruire meno delle campagne di prevenzione
primarie e secondarie;
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La responsabilità della cura dei familiari e la coesistenza di più lavori riducono il
tempo libero delle donne limitando la possibilità di svolgere una regolare attività
fisica, favorendo quindi l’insorgenza dell’obesità con tutte le sue conseguenze;
Il lavoro casalingo, inoltre, produce un gran numero di infortuni domestici
(4.500.000 l’anno) di cui 8.000 mortali con una ripartizione donna/uomo del
65% e 35% rispettivamente (ISPESL – Osservatorio Epidemiologico Nazionale
sulle condizioni di salute e sicurezza negli ambienti di vita);
Un altro fattore che non trova la giusta attenzione è la violenza. Violenza che
non riguarda solo gli altri, ma ci coinvolge tutti perché 6 milioni e 743 mila
donne tra i 16 e i 70 anni sono state vittime di una violenza (ISTAT) e tra i 16 e i
44 anni la violenza uccide più donne del cancro e degli incidenti stradali. Se noti
sono gli esiti immediati della violenza, meno note sono le conseguenze a lungo
termine che vanno ben al di là di quelle psichiatriche arrivando a minare anche
la vita dei figli e figlie.
Proseguendo ho voluto approfondire alcune ricerche sulle donne che subiscono più
molestie sessuali e mobbing nel mondo del lavoro, il che aumenta lo stress e questo può
avere notevoli conseguenze nel campo della salute. È bene ricordare che l’uomo e la
donna rispondono in maniera diversa allo stress e nelle donne la risposta è anche
modulata dalle fasi della vita, mediante gli ormoni sessuali (Kajantie E., Phillips, 2006).
Poi, introducendo la problematica delle violenze al lavoro, è risultato che la molestia sessuale
al lavoro è un fenomeno che si coniuga al femminile in modo sicuramente ancora più
evidente del mobbing. Esso ha la stessa matrice del mobbing: quando è perpetrata al
lavoro ha tutte le caratteristiche della persecuzione mirata alla lesione della dignità della
lavoratrice. Le molestie sessuali al lavoro rientrano a pieno titolo nella definizione
generale della violenza al lavoro.
Sia il concetto di “genere” sia di rischio da “stress” sono assolute novità nella normativa
relativa alla prevenzione dei luoghi di lavoro. La nuova normativa, infatti, introducendo
l’attenzione alle differenze di genere e ai problemi dello stress in un’ottica di genere,
costituisce un primo passo verso il riconoscimento e la soluzione dei problemi. Sono
novità dovute ai cambiamenti sociali ed economici, che, nel giro di pochi anni, hanno
rivoluzionato la vita delle donne in Europa e in Italia. Il lavoro oggi ha un ruolo molto
importante nella vita delle donne in Europa, dove il 44% della manodopera è composta
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da donne. Questa percentuale è diversa da paese a paese, essendo più alta nei paesi del
Nord Europa e più bassa nell’Europa del Sud. In Italia la condizione delle donne ha
avuto un’importante svolta già negli anni ’70. Oltre al primato di longevità (ora di 84
anni contro i 78 degli uomini) il ritardo dell’età alla prima maternità e la riduzione della
natalità hanno contribuito a un forte aumento dell’occupazione femminile e un più
elevato livello d’istruzione rispetto agli uomini
Storicamente già dal secolo scorso i medici sostenevano che le donne sono più
suscettibili alle malattie del sistema nervoso. Per Freud (1895) l’isteria colpiva
selettivamente le donne mentre per i medici del lavoro statunitensi di inizio secolo “le
donne sono a rischio di reazioni a stress da lavoro e ad ammalarsi di neurastenia, perché
hanno il temperamento più nervoso”. L’attribuzione alle donne di particolare
suscettibilità per la malattia nervosa da lavoro degli anni ’20, è un tipico errore nel
ragionamento epidemiologico: in quel periodo le donne e gli immigrati sono entrati in
massa nel mercato del lavoro, delle comunicazioni e dell’industria e hanno reso visibili
patologie “nuove” (da stress, da movimenti ripetitivi della mano, etc.) osservate per la
prima volta su larga scala.
Oggi, come riportato nella seconda parte di questo lavoro, esistono diversi metodi di
valutazione dello stress lavorativo: alcuni molto laboriosi (più affidabili) altri più
semplici (meno affidabili) e possono essere “soggettivi” e “obiettivi”. Quelli soggettivi,
ad esempio – basati su un questionario di autovalutazione – sono facili da compilare
perché semplici e poco costosi, però potrebbero portare a risultati instabili e di bassa
reperibilità. Il loro uso potrebbe, però, essere utile per confrontare le dimensioni del
problema “stress” in diverse situazioni lavorative e per valutare il suo andamento nel
tempo anche in seguito a interventi di miglioramento delle condizioni di lavoro. Proprio
nella seconda parte di questo lavoro, ho voluto riportare, come esempio, il Questionario
di percezione soggettiva: il “Job Content Questionnaire” (JCQ) di Karasek.
Sono, invece, più affidabili per valutare il disagio da stress lavorativo i test basati su
alcuni parametri come la capacità di memoria, gli errori commessi nello svolgimento di
vari compiti mentali, i cambiamenti di postura, etc. Questi sono più indicati per valutare
le circostanze di stress acuto e il ritorno alla normalità dopo eventi di stress acuto. La
scelta del metodo di valutazione dello stress nell’ambiente di lavoro, comunque,
dipende ovviamente da diversi fattori, tra i quali il numero e le caratteristiche dei