INTRODUZIONE
Da alcuni anni il mercato del lavoro sta vivendo un momento di crisi senza precedenti a cui si
vanno ad aggiungere le continue riforme che stanno investendo il sistema scolastico. È proprio
all’interno di questo quadro globale che la figura dell’insegnante si è dovuta innovare, attraverso la
riqualificazione delle proprie competenze.
Rispetto al passato l’insegnante deve far fronte ad una molteplicità di richieste e funzioni che
derivano dalla complessità della società d’oggi, nella quale i valori della famiglia e della comunità
hanno perso d’importanza. I genitori infatti, tra un impegno e l’altro, hanno sempre meno tempo da
dedicare ai loro figli e di conseguenza ci si aspetta che sia la scuola ad educarli e ci si lamenta
quando questo non avviene.
Queste aspettative si traducono però in pressioni verso gli insegnanti e, quando la loro preparazione
e formazione non consente di rispondere adeguatamente a queste pressioni, sfociano nello stress.
Se poi, come spesso accade, questa situazione stressogena viene sottovalutata può sfociare burnout,
sindrome nata agli inizi degli anni ’70 per indicare una condizione di sofferenza sia psichica che
fisica, che si sviluppa sul posto di lavoro, la scuola appunto.
Gli individui affetti da burnout non sono più un grado di far fronte alle richieste lavorative, anche
gli ostacoli più semplici sembrano insormontabili, tendono a diventare cinici e distaccati nel
proprio lavoro e con le persone che ne fanno parte e ovviamente quelli a risentirne di più sono gli
allievi. A lungo andare i soggetti finiscono con l’isolarsi sia psicologicamente, cercando proprio di
evitare i problemi della classe evitando il disagio derivante dal non saperli affrontare, sia
fisicamente, con l’assenteismo, fino ad arrivare all’abbandono del posto di lavoro, anche se varie
ricerche hanno dimostrato che difficilmente si arriva a quest’epilogo.
A tutto questo si arriva partendo da una condizione iniziale totalmente opposta caratterizzata da
docenti che quando si affacciano in questa professione hanno grandi aspettative, impegno, voglia di
fare, che però non reggono l’impatto con la realtà. Questo perché, oltre alla formazione, manca
l’adeguato supporto sociale ed emotivo quando le aspettative vengono disattese, quando i tentativi
di cambiamento falliscono, quando la voglia di fare viene meno, queste persone di ritrovano da
sole.
Come se non bastasse è credenza comune che l’insegnante sia un lavoro sicuro, dove si lavora solo
mezza giornata con tre mesi di vacanze l’anno; si pensa che sia semplice stare a contatto con
ragazzi e bambini, quasi un divertimento; ma quando una coppia di genitori viene messa in
difficoltà dai comportamenti e atteggiamenti del proprio di figlio, come si può solo pensare che sia
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facile avere a che fare con classi composte da venti, a volte addirittura trenta elementi senza andare
incontro a delle difficoltà?
La sindrome del burnout colpisce soprattutto le professioni nelle quali il rapporto con gli altri è di
massima importanza, le cosiddette helping professions, all’interno delle quali possiamo
sicuramente collocare gli insegnanti, in quanto passano il loro orario scolastico a diretto contatto
con le loro classi, in un rapporto forte con gli alunni, dei quali si caricano i problemi e cercano di
darvi risposta, in un contesto in cui fare l’insegnante non è più solo insegnare. Oltre a ciò, anche il
loro orario extrascolastico è caratterizzato dai rapporti interpersonali, dai colloqui con i genitori alle
riunioni con i colleghi, che spesso sono fonte di discussioni e contrasti.
In tutti questi rapporti interpersonali con alunni, genitori e colleghi, è di fondamentale importanza
che i docenti riescano a “staccare la spina” al di fuori della scuola, evitando di portarsi anche a casa
i problemi degli altri, ma non è sempre facile.
Per apportare davvero dei miglioramenti al servizio scolastico, invece delle continue riforme,
bisognerebbe porre l’attenzione su coloro che sono considerati i “mediatori di cultura”, in quanto
molta della qualità del servizio dipende dal loro benessere fisico, emotivo e psicologico, perché
quando questo viene a mancare rappresenta un costo non indifferente sia per gli insegnanti, in
termini di salute; che per le istituzioni, in termine economici, ed è proprio per questo motivo che
bisogna puntare sull’azione preventiva attraverso tecniche individuali, piuttosto che sul lungo
periodo tramite cambiamenti organizzativi.
Resta in ogni caso inspiegabile la frequente indifferenza dei responsabili delle istituzioni educative
e più in generale della società, che dimostrano di non voler affrontare o addirittura di ignorare
questo problema con l’impegno e le risorse che esso meriterebbe.
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CAPITOLO I - Prima del burnout: lo stress
Per apprendere a pieno il fenomeno del burnout, dobbiamo prima comprendere lo stress in quanto
fattore scatenante del primo male.
1. Che cos’è davvero lo stress?
Il termine stress viene utilizzato quotidianamente per indicare una molteplicità di situazioni in cui
un individuo si trova in una condizione di stanchezza fisica e/o mentale, ma viene anche utilizzato
quando, per esempio, siamo sovraccarichi di impegni di lavoro o di altro genere e le giornate
sembrano non finire mai, quando ci sentiamo delle pressioni addosso, e ancora nelle situazioni di
traffico giornaliero o se ci troviamo a dover utilizzare dei mezzi pubblici sovraffollati. Da questo si
può dedurre che molto spesso la parola stress viene utilizzata anche al di fuori del suo vero
significato, tale è stata la sua diffusione nella nostra lingua, ma nonostante questo pochi ne
conoscono la provenienza.
Il termine “stress” deriva dall’antico francese “estrece”, che significa “strettezza”, “oppressione”
(dal latino “stringere”) ed è entrato in uso nella lingua inglese molto tempo prima della sua
introduzione nel linguaggio scientifico. Nel XVII secolo, infatti, la parola “ stress” veniva utilizzata
dagli anglosassoni per indicare una situazione di “difficoltà, avversità, afflizione”; trasformandosi
poi nel secolo successivo in “forza, tensione, sforzo” e applicato in modo equivalente sia agli
oggetti che agli organismi.
Ma la nascita del termine “stress”, inteso nel senso psicologico attuale, deriva da uno studio del
fisiologo canadese Hans Selye del 1936, che ne formulò una definizione ampia e articolata: “lo
stress è uno stato di tensione aspecifica della materia vivente, che si manifesta mediante
trasformazioni morfologiche tangibili in vari organi, e particolarmente nelle ghiandole endocrine
che stanno sotto il controllo dell'ipofisi anteriore” (citato in Santinello, 1990).
Dopo gli studi di Selye, celebri furono quello di Lazarus (1970), il quale denomino come “stress
psicologico” la mediazione svolta dal sistema cognitivo che tende a individualizzare la modalità di
risposta allo stress. La reazione di stress, quindi, sia nei suoi aspetti psicologico-comportamentali
che fisiologici è resa parzialmente specifica, in quanto è l’insieme cognitivo della persona,
risultante dall’insieme delle valutazioni percettive e dagli schemi cognitivi legati all’esperienza
passata e condizionati nella lettura della realtà da altre strutture come le “rappresentazioni sociali”,
che permette di effettuare una valutazione, a livello cosciente, del significato di minaccia o di
pericolo di un determinato stimolo nel momento in cui esso si presenta (Lazarus et al., 1970).
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Sono state riconosciute due tipologie di stress:
Lo stress negativo o distress si ha quando “le condizioni di stress, e quindi di attivazione
dell’organismo, permangano anche in assenza di eventi stressanti oppure che l’organismo
reagisca a stimoli di lieve entità in maniera sproporzionata” (Gabassi, 2003);
Lo stress positivo o eustress si ha, invece, quando uno o più stimoli, anche di natura
diversa, allenano la capacità di adattamento psicofisica individuale. L’eustress è una forma
di energia utilizzata per poter più agevolmente raggiungere un obiettivo e l’individuo ha
bisogno di questi stimoli ambientali che lo spingono ad adattarsi.
Nel 1999 La Commissione Europea ha definito lo stress legato all’attività lavorativa come “un
modello di reazioni emotive, cognitive, comportamentali e fisiologiche ad aspetti avversi e nocivi
del contenuto, dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro. Si tratta di uno stato caratterizzato da
elevati livelli di eccitazione ed ansia, spesso accompagnati da senso di inadeguatezza.”
L’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute Sul Lavoro afferma che lo stress è il secondo
problema di salute legato all’attività lavorativa che emerge da interviste e questionari
sull’argomento; lo stress interessa un lavoratore europeo su quattro. Inoltre, da recenti studi,
emerge, che una percentuale tra il 50% e il 60% di tutte le giornate lavorative perse è dovuta a
stress e il numero di persone che soffrono di questa patologia è destinato ad aumentare. In Italia
sono oltre nove milioni, il 41% del totale, i lavoratori che soffrono di stress legato al proprio
mestiere.
Accade spesso che la situazione stressante non rimanga circoscritta all’ambito lavorativo, ma
invece che gli individui siano incapaci di distinguere la sfera della vita privata da quella lavorativa
andando a creare la cosiddetta “sindrome di corridoio”.
L’ispesl (Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza su lavoro) sostiene che “Nel contesto
di vita contemporanea si sono annullati i filtri che gestivano le singolarità del quotidiano lavorativo
e di quello privato. Si è creato un corridoio senza soluzione di continuità tra gli stimoli propri
dell'ambiente di lavoro e quelli della vita privata. Sempre più spesso quindi la famiglia genera o
amplifica le tensioni fisiche, emotive e comportamentali restituendole al contesto lavorativo in un
ciclo autogenerante”.
Sostanzialmente questo corridoio rappresenta un collegamento tra gli ambienti “casa-lavoro” e
consente così di far passare da “una stanza all’altra” emozioni e pensieri, siano essi positivi o
negativi. In questo modo, le tensioni lavorative vengono trasportate nella vita privata, non
strutturata per compensarle, e quando tali tensioni assumono carattere di cronicità e di eccesso
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