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Tuttavia la magia vive ancora, e non solo come concetto. In Africa essa
permea totalmente la società, la cultura, la quotidianità stessa. La medicina
tradizionale e la psichiatria africana in essa trovano origine e alimento. In
queste culture esistono infatti manifestazioni comportamentali che localmente
vengono interpretate e usate in chiave terapeutica, mentre in Occidente sono
considerate al limite della patologia. La concezione occidentale è
probabilmente un prestito che in qualche modo abbiamo contratto dal
razionalismo illuminista. Ora, è con questa magia, ossia con i metodi
terapeutici in uso presso queste culture “altre”, che la medicina allopatica
occidentale dovrebbe confrontarsi e integrarsi, soprattutto per superare la
tendenza a considerare l’uomo in parti separate, perdurando nell’errore che
fece Cartesio.
Il successo di alcune forme di medicina alternativa non è altro che una spia
della debolezza della tradizione medica occidentale e della diffusa
insoddisfazione generata da una visione distorta dell’organismo umano.
L’esigenza moderna di specializzazione medica contribuisce poi ad aggravare
ulteriormente tale inadeguatezza, piuttosto che a ridurla. “Anima e spirito -
dice Damasio (1995, p. 341) - sono stati di un organismo: la mente agisce sui
tessuti biologici e deve quindi essere correlata con un organismo intero in
possesso di un cervello e di un corpo integrati e in piena interazione con un
ambiente fisico e sociale”. Nella nostra cultura questo ancora non avviene, ed è
per questo che l’uomo resta tuttora il grande mistero da risolvere.
Il nostro è un mondo di correlazioni e di corrispondenze. Forse aveva ragione
Pitagora nel considerare il cosmo come struttura armonica fatta di sostanza
divina, e l’anima dell’uomo come un frammento di tale sostanza, destinato a
una progressiva purificazione attraverso la conoscenza dell’ordine superiore.
Ce lo conferma l’attuale atteggiamento dei fisici, i quali ora vedono l’universo
come un’armonia di energie dove tutto è interconnesso, e dove le nostre
esistenze riflettono storie antiche, i miti arcaici. I simboli dei miti, come quelli
dei nostri sogni, aprono le porte che conducono alle dimensioni del sacro.
Sono metafore che descrivono il grande disegno dell’universo. E come i sogni,
le tecniche divinatorie e i rituali aiutano a svelare questa verità. Sono uno
specchio in cui possiamo scoprire di incarnare il divino.
Questo era il senso degli antichi testi ermetici e della sibillina frase di Ermete
Trismegisto: “Come in alto, così in basso”. Sulla terra, come in cielo. Con una
sintesi perfetta, egli unì la macrorealtà dello spazio, del tempo, dell’universo, a
quella di livello infinitesimale delle particelle subatomiche. Unì il mondo
visibile all’invisibile. Quando Giordano Bruno (1584) parlava di “infiniti
mondi”, forse non si riferiva solo a ciò che il nostro sguardo riesce a cogliere,
ma ai mondi “invisibili”, alle dimensioni celate ai nostri sensi e tuttavia
esistenti, di cui solo pochi grandi iniziati hanno avuto l’intuizione o la
conoscenza precisa.
La materia che scolpisce il mondo, e con esso l’uomo, - dice Bergson (1907-
1919) - è un flusso indiviso attraversato da energia spirituale. L’energia è
qualcosa che è intorno a noi, dentro di noi, è noi. E’ l’élan vital. Lavorare con
l’energia, in armonia col cosmo, è la nuova magia, la scienza del mondo sottile
che dà vesti scientifiche all’antica magia.
La capacità di muovere le energie è insita nell’essere umano, ma occorre che
l’uomo accantoni la presunzione di considerarlo un suo potere. Sono forze non
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sue. Appartengono all’universo, e quando si manifestano l’uomo non è che
spettatore di un atto creativo che fa parte della vita. Anche quella che viene
definita “spinta motivazionale” e il “flusso di coscienza”, che ci portano a
essere creativi, non sono da considerare solo come atteggiamenti psicologici
positivi, ma come una manifestazione di queste forze sottili di cui noi siamo
solo dei canali energetici attraverso cui esse fluiscono. Gli effetti di queste
forze possono anche sembrare soprannaturali, ispirati o magici, perchè noi non
siamo più consapevoli di poterne disporre. Secoli di condizionamenti hanno
avvolto la nostra anima nel buio dei sensi di colpa e l’hanno allontanata dal
divino. E’ così che noi non riusciamo più a percepirlo e che abbiamo
dimenticato l’élan vital che è in noi e che ci fa parte di esso.
Tutta la cultura animistica di tradizioni e pratiche sciamaniche si basa invece
sul contatto dell’anima con la natura e sul sentire il divino immanente. E’ per
questo che nelle società tradizionali esiste tuttora la capacità di manipolare le
forze presenti nell’universo attorno a noi. E tuttavia in noi sopravvivono,
sopite, queste capacità divine che ci permetterebbero di essere causa di noi
stessi e della nostra vita. Il problema è come conciliare due realtà così diverse:
un mondo governato dai cicli della natura e l’altro dominato dal tempo e dal
profitto; l’uno regno del divino, l’altro della materia. Noi viviamo in un regno
sotterraneo, la terra desolata del materialismo vuoto, privo della vitalità dello
spirito. Il dio che ci governa è Plutone, il dio degli inferi, il cui nome greco
Plutos significa appunto “ricchezza”. Per risalire la china, non è necessario che
ci rivolgiamo a un Dio: siamo noi l’espressione e l’incarnazione del divino su
questa terra, e quindi siamo noi che dobbiamo agire. In un certo senso, affidarsi
a Dio è come restare bambini, ad aspettare che qualcuno si prenda cura di noi.
Ma come vivere nel reale questo concetto, che razionalmente è così facile
capire? Il primo passo importante è il riconoscimento della nostra essenza
interiore, perchè senza di essa all’esterno non abbiamo che “i vestiti nuovi
dell’imperatore” della favola, qualcosa di illusorio che è visto attraverso gli
specchi deformanti dei nostri condizionamenti e che riceve continua linfa dal
materialismo che ci circonda.
Questa introduzione vuol fungere da cornice alla descrizione di alcune società
tradizionali dell’Africa Nera, i cui rituali, le usanze, le credenze e la particolare
visione del mondo trovano alimento in un patrimonio culturale e ancestrale
dove la magia gioca un ruolo di primaria importanza. Non si tratta tuttavia di
magia nel senso occidentale, come pratica aberrante e primordiale, ma di una
vera e propria religione, e soprattutto di spiritualità e di vita quotidiana
dominata dal senso del divino. La civiltà ci ha allontanato da tutto ciò che
queste culture tradizionalmente continuano a vivere, e nell’addentrarsi nelle
loro concezioni di vita, nel tentare di interpretare quel loro mondo affascinante,
si giunge perfino a percepire che forse qualcosa abbiamo perso.
Nel corso di questo lavoro vengono utilizzati alcuni concetti e termini di
carattere prettamente psicologico che necessitano di qualche chiarimento per
una miglior comprensione del contesto al quale saranno applicati. Nel Capitolo
I vengono appunto esposte sinteticamente queste precisazioni.
Il percorso storico che verrà esposto nel Capitolo II - Parte I: Il Passato - è
generalizzato all’intero continente, anche per dar conto delle alterne vicende
che hanno portato l’Africa, ad eccezione di alcuni Paesi, a un arresto nello
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sviluppo economico e a una sorta di chiusura su se stessa. Attraverso un arido
excursus storico non è ovviamente possibile riportare le immani sofferenze
causate a queste popolazioni da tante brutalizzazioni e ingerenze da parte
dell’Occidente. Il colonialismo non ha peggiorato di molto le condizioni di
vita materiali degli Africani, ma ne ha impedito l’evoluzione e ha sconvolto la
loro cultura e le loro società, e con esse l’identità africana stessa. Le loro forme
di vita, povere dal punto di vista materiale ma eccezionalmente ricche dal
punto di vista sociale, sono state stravolte da un’acculturazione forzata che ha
imposto mutamenti socio-economici spesso privi di significato per coloro che
li subivano. Ma non basta, perchè taluni regimi dittatoriali africani succedutisi
al colonialismo hanno praticato un’oppressione sui propri cittadini a livelli di
vera barbarie, non di rado superiori a quelli del peggiore colonialismo, fino alla
deflagrazione di una violenza etnica superiore al razzismo che contrappose
bianchi e neri.
Anche la storia della stregoneria, trattata nel Capitolo III - Parte I , sarà
necessariamente una panoramica riferita al mondo intero, antico e moderno,
essendo quest’arte antica quanto l’umanità e facendo appello addirittura
all’energia cosmica che anima l’universo.
La II Parte - Il Presente - sarà quella più specifica, il vero argomento della
presente ricerca, che prende in esame in modo approfondito i vari aspetti della
vita culturale africana. Risulterà particolarmente evidente la pervasività della
magia nelle società tradizionali, anche in senso terapeutico. Le credenze e le
usanze descritte, affiancate e supportate dagli studi di numerosi studiosi,
etnologi e antropologi, possono aiutare a penetrare e a interpretare quel mondo
affascinante, tuttora in parte avvolto nel mistero. Qui la natura, nella sua
inquietante bellezza e spettacolarità, opera anch’essa una sua forma di magia:
esercita una tale suggestione sull’osservatore o sullo studioso che essi,
ammaliati, hanno trascurato di approfondire la conoscenza dell’uomo africano,
di comprendere il perchè di certe differenze e il loro valore culturale.
La III Parte - Il Futuro - cercherà infine di fornire una base razionale per capire
gli antichi metodi di guarigione. Vi si auspica l’integrazione delle due culture,
tradizionale e occidentale, soprattutto in una medicina olistica, libera dal
conservatorismo e dai dogmi precostituiti di matrice razionalistica; una
medicina dove una corretta analisi di tutti gli aspetti multidimensionali
dell’uomo potrebbe favorire il collegamento ideale tra la guarigione e la
spiritualità. E’ quanto afferma il medico americano Jeffrey Levin (1996),
gerontologo ed epidemiologo presso la Medical School of West Virginia.
CAPITOLO I
PREMESSE TEORICHE
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1.1 - ORIENTAMENTI NELLO STUDIO DELLE
CULTURE
Si distinguono diversi tipi di orientamenti nello studio delle culture e delle loro
espressioni, ossia dei rapporti mente-cultura-comportamento.
Orientamento assolutista: considera l’invarianza dei vari fenomeni e
processi psichici attraverso le culture, ossia ritiene che le strutture alla base del
comportamento abbiano carattere prettamente biologico e siano quindi
determinate da caratteristiche biologiche pan-umane, sulle quali la cultura ha
un influsso limitato. Le culture vengono pertanto studiate dall’esterno, e i
comportamenti vengono analizzati al di là del contesto culturale, usando
strumenti di valutazione standard e criteri di interpretazione universali (in
genere di matrice europea o statunitense). Questo punto di vista corrisponde
alla posizione cosiddetta etica, che si basa sulla comparabilità delle culture. E’
l’approccio tipico della Psicologia Transculturale.
Orientamento relativista: ritiene che la cultura eserciti un’influenza
sostanziale sui fenomeni comportamentali (espressioni della cultura), che di
conseguenza appaiono diversi nelle diverse culture. Le eventuali analogie sono
semplicemente frutto di percorsi culturali simili. Questo è il punto di vista
emico, che quindi si focalizza su come si manifesta un comportamento
all’interno di una cultura. Il fenomeno viene studiato in relazione al contesto
socio-culturale in cui si sviluppa, usando strumenti di valutazione specifici
della cultura allo studio. I confronti sono evitati, perchè i comportamenti sono
considerati unici e tipici di ogni cultura. Questo è l’approccio tipico della
Psicologia Culturale.
Orientamento universalista: I due approcci sopra descritti sono in
contrapposizione. Una loro integrazione ha dato modo di sviluppare negli
ultimi anni l’indirizzo universalista o bio-culturale, che vede nel
comportamento sia l’influenza fondamentale della cultura, che una base
biologica. Le differenze comportamentali derivano dall’interazione che ogni
individuo mette in atto con le informazioni della propria cultura, mentre le
analogie sono dovute a processi psicologici comuni a tutta la specie. In altre
parole, i processi psicologici sono gli stessi in tutti gli esseri umani, ma si
manifestano in modo diverso nelle diverse culture, e di conseguenza danno
origine a differenze comportamentali. L’approccio in questo caso è di tipo
etico derivato; mettendo a raffronto la propria cultura con la cultura “altra”,
rileva gli elementi comuni ad entrambe per poi elaborare teorie realmente
etiche. E’ l’approccio tipico della psicologia clinica e della moderna
etnopsichiatria, che considera il mondo interiore del paziente come una cultura
“altra” , la cui conoscenza permette di allargare i paradigmi originari e i
costrutti teorici disponibili. Anche la psicologia generale punta su metodologie
e teorie integrate, ad esempio considerando legate a fattori ambientali e
culturali le illusioni ottiche geometriche e i processi percettivi. In questa
prospettiva, il condizionamento (che è culturale) determina avversione o
preferenza verso determinati stimoli, come nel gusto; il minor rumore
ambientale acuisce la percezione uditiva delle alte frequenze in individui di
gruppi indigeni africani; l’esposizione a condizioni ambientali ad ampia
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visuale rende più sensibili all’illusione ottica orizzontale-verticale (dove le
linee verticali che si allontanano dallo sguardo possono rappresentare grandi
distanze), piuttosto che all’illusione prospettica che ricavano da un’immagine
coloro che vivono in ambienti strutturati; e così via.
In realtà, i membri dei diversi gruppi etnici che vivono a stretto contatto
possono sviluppare, in base alla propria esperienza culturale e sociale, delle
reazioni adattative alle culture con cui scambiano informazione, e per questo
motivo spesso i ricercatori optano per un amalgama di caratteristiche etiche ed
emiche, universaliste e relativiste.
1.2 – PSICOLOGIA TRANSCULTURALE e
PSICOLOGIA CULTURALE
La Psicologia Transculturale è lo studio del comportamento umano nelle
diverse culture e delle influenze che l’ambiente socio-culturale esercita su di
esso (Berry, Poortinga, Segall e Dasen, 1992, p. 3).
La cultura è il modello di vita condiviso dai componenti di una data
popolazione, ed è stata variamente definita, ma tutte le definizioni vedono una
causalità reciproca tra comportamento, mente e cultura. In effetti il
comportamento umano può essere compreso solo valutando il contesto
ecologico - ossia l’ambiente fisico con cui l’individuo interagisce e in cui
svolge la propria attività economica - le caratteristiche biologiche, il contesto
culturale e i fattori acculturanti.
La Psicologia Transculturale si occupa proprio di questi rapporti tra il
comportamento e i fattori biologici, culturali e psichici. Nasce dall’incontro tra
culture diverse, soprattutto non occidentali, e dalla conseguente esigenza di
sviluppare dei costrutti teorici generali utilizzabili in ogni cultura. Si propone
quindi la generalizzazione, integrando dati socio-culturali forniti da varie altre
discipline (biologia, ecologia, sociologia, antropologia), e dati psicologici
individuali tratti dalla psicologia generale, onde identificare i processi
psicologici pan-umani - ossia comuni a tutta la specie umana - e sviluppare una
“psicologia universale”. L’approccio è pertanto etico e assolutista o
universalista; applica metodi scientifici e strumenti di misurazione standard.
La Psicologia Culturale è invece lo studio di singole culture, ciascuna delle
quali aiuta lo sviluppo dell’individuo e ne plasma la personalità in modo che si
adegui al suo contesto socio-culturale. Il comportamento è visto come
indissociabile dal contesto culturale (p. XI). Il comportamento è cultura e
specifico di ogni cultura, e come tale va interpretato. Scopo di questa disciplina
è la piena comprensione di un fenomeno culturale e di come esso si manifesta
all’interno di una data cultura; usa quindi un approccio emico e relativista.
La Psicologia Transculturale si differenzia pertanto dalla Psicologia Culturale
in quanto considera il comportamento indipendente dalla cultura, nel senso che
lo ritiene dettato da basi biologiche comuni, legate alla sopravvivenza. Ciò ne
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rende possibile il raffronto tra culture diverse, le cui differenze si ritengono
dovute solo a fattori ambientali e storici.
I tre indirizzi di studio del comportamento sopra citati - assolutista, relativista,
universalista - danno molto rilievo ai fattori biologici e culturali, ma non
vedono il ruolo della mente. In realtà il comportamento, pur essendo
indissociabile dall’informazione biologica ereditata e dall’informazione
culturale acquisita, deriva dalla qualità dell’esperienza soggettiva, una
caratteristica pan-umana che però si manifesta in forme diverse nelle diverse
culture perchè è legata alle attività specifiche che in esse si svolgono. La
tendenza alla ripetizione di queste attività per effetto della qualità positiva
dell’esperienza è ciò dà luogo alla selezione psicologica quotidiana
individuale. Sono questi processi pan-umani, sulla base dei quali si sviluppano
individui e popolazioni, che la Psicologia Transculturale tenta di comprendere,
anche se i suoi strumenti teorici e metodologici non sono sempre adeguati.
1.3 - INDIVIDUALISMO e COLLETTIVISMO
Le dimensioni dell’individualismo e del collettivismo sono quelle che
maggiormente caratterizzano e differenziano le società occidentali da quelle
tradizionali africane.
Nella grandiosa ricerca di Hofstede (1980), queste caratteristiche sono
annoverate tra i quattro valori che questo studioso ha rilevato universalmente:
ξ distanza dal potere, ossia il limite oltre il quale in una società diventa
inaccettabile la disuguaglianza tra responsabili e subordinati;
ξ mascolinità, che attribuisce importanza all’affermazione personale e agli
obiettivi sul lavoro, rispetto alla femminilità, che dà preferenza ai rapporti
interpersonali (amicizia, armonia, assistenza)
ξ controllo dell’incertezza, che consiste nel bisogno di precise regole formali
ξ individualismo, in opposizione al collettivismo
I valori dell’individualismo e del collettivismo, a detta di Triandis (1988) sono
forse all’origine delle più ampie differenze comportamentali attraverso le
culture (p. 60). In particolare sembra che esista una fondamentale relazione tra
di essi e lo sviluppo economico, che sembra non sia favorito dal collettivismo,
mentre l’individualismo ne è la base, anche se la condivisione delle risorse, che
è tipica del collettivismo, non risulta prevalere nell’uno o nell’altro contesto.
Nelle società comunitarie, come i kibbutz israeliani, si cerca di bilanciare le
tendenze individualistiche e collettivistiche, poichè questa è la premessa
migliore per una buona salute mentale e un proficuo sviluppo socio-
economico.
Hofstede (1991) afferma che l’individualismo caratterizza una società nella
quale non esistono stretti legami tra gli individui, e ognuno si autogestisce e
pensa a se stesso, mentre i membri delle società collettivistiche sono
incastonati fin dalla nascita in gruppi coesi, dai quali ricevono protezione e
supporto in cambio di un’incondizionata dedizione (p. 60).
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Triandis attribuisce all’individualismo l’assenza di legami a gruppi, il distacco
emotivo e lo spirito di competizione, e al collettivismo la solidarietà e la
coesione familiare. Altri aggiungono all’uno la tendenza a privilegiare gli
obiettivi personali piuttosto che quelli del gruppo, e un comportamento
motivato da spinte egoistiche; all’altro, un comportamento regolato da norme
sociali, rapporti gerarchici armoniosi, omogeneità all’interno del gruppo. Si
possono comunque rilevare contemporaneamente i due tipi di comportamento
in una stessa persona o all’interno di uno stesso gruppo: nelle culture
collettivistiche si nota infatti una tendenza alla giustizia, coerente con tali
culture, solo nei confronti dei membri del proprio gruppo, mentre nei confronti
di membri di altre comunità il comportamento diventa analogo a quello dei
soggetti di culture individualistiche. C’è quindi una forte differenziazione
nelle società collettivistiche tra i membri appartenenti al gruppo e quelli ad
esso estranei; ovviamente in questo contesto la socializzazione diventa un
dovere di obbedienza e si crea nell’individuo lo spirito di sacrificio in favore
del gruppo.
C’è inoltre nell’individualismo la disponibilità al cambiamento e la tendenza
all’autorealizzazione, contro il conformismo e il conservatorismo (Schwartz,
S.H., 1994).
Triandis (1985) distingue i valori di gruppo, relativi al sistema sociale, che
danno luogo alla distinzione tra individualismo e collettivismo, dai valori
individuali, più pertinenti alla personalità, che distingue in idiocentrici e
allocentrici. I membri di culture individualistiche coltivano valori e
comportamenti idiocentrici, ossia tendenti all’isolamento, mentre coloro che
vivono in società collettivistiche hanno valori e comportamenti allocentrici,
tendenti alla relazione.
Un’ulteriore differenziazione è stata effettuata da Triandis (1994) tra due tipi di
individualismo e collettivismo: orizzontale e verticale, in riferimento alle
relazioni interpersonali di carattere egualitario o gerarchico. Il collettivismo
verticale prevede un sè immerso in un gruppo gerarchicamente organizzato,
quello orizzontale lo stesso sè interdipendente ma appartenente a un gruppo
egualitario. Al contrario, l’individualismo verticale vede un sè autonomo in un
gruppo non egualitario, e quello orizzontale in un gruppo egualitario.
Nell’individualismo si evidenzia soprattutto un sè distaccato, indipendente, che
tende a distinguersi dagli altri, rispetto a un sè relazionale, interdipendente.
L’interdipendenza è tipica di economie di sussistenza e di società agrarie,
poichè è necessaria per la sopravvivenza, mentre l’indipendenza è più specifica
delle culture individualistiche in contesti urbani occidentali. La formula
migliore sarebbe una combinazione delle due qualità, che soddisfi entrambi i
bisogni umani di autonomia e di relazione.
Individualismo e collettivismo presentano ambedue una serie di significati
connotativi di carattere comportamentale, cognitivo, emozionale e
motivazionale.
Le emozioni dei sè indipendenti degli individualisti sono egocentriche, come la
rabbia, la frustrazione, l’orgoglio; invece, nei sè interdipendenti (collettivistici)
sono più marcate le emozioni di tipo relazionale, quali la simpatia, la vergogna,
l’empatia.
Anche la spinta motivazionale è in favore della società nei contesti
collettivistici, e tuttavia, al pari dell’autostima, soddisfa non solo il gruppo, ma
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anche il sè. Non si tratta, come spesso si è ritenuto, di umiliare o di sacrificare
le esigenze del sè in favore del gruppo, ma piuttosto di fonderle con quelle
della collettività. Ciò porta anche al consenso del gruppo, altro elemento
importante di questo tipo di società.
I rapporti e la comunicazione con gli altri ovviamente si articolano in misura
molto maggiore nelle società collettivistiche, col risultato di un ampliamento
della cognitività, della gamma emozionale e della sensibilità. A sfavore del
collettivismo c’è però la corruzione a livello governativo, la condizione
subordinata della donna, e la sottomissione all’autorità.
L’individualismo è invece associato a una maggiore complessità della cultura,
allo sviluppo economico, alla capacità di autogestione e di organizzazione
sociale, alla creatività, alla modernità. Sull’altro piatto della bilancia c’è però
un aumento della criminalità, delle patologie e delle malattie psicosomatiche,
per via delle inibizioni e degli inevitabili conflitti a cui conduce un’esistenza
strettamente dipendente dalla comunità (Hofstede, 1980; Triandis, 1987, 1988;
Triandis et al., 1988).
Tutto ciò non è però comprovato, perchè può essere dovuto ad altri fattori: la
condivisione delle risorse materiali può aver a che fare più con la povertà e col
tipo di vita rurale o con la tradizione che col collettivismo; e può essere la
povertà o un’educazione carente a compromettere la capacità organizzativa e
l’iniziativa, come possono essere gli interessi personali o politici e finanziari a
corrompere i governi e a pregiudicare il bene pubblico, perchè la dedizione alla
famiglia non è una pregiudiziale alla corruzione dei governi, in quanto si
estende ben al di là di essa, fino al livello etnico e nazionale.
Dice Hofstede (1991) “Modernization corresponds to individualization” (p.
74), in quanto ritiene l’individualismo più confacente alla vita urbana e
all’identità nazionale più che tribale, ai credo scientifici più che religiosi, alla
libertà dalle autorità parentali e ancestrali, a più elevate aspirazioni sia in
campo educativo che lavorativo. E tuttavia questo è un punto di vista che molti
rifiutano. La modernizzazione non deve essere identificata con l’Occidente, nè
con l’individualismo. Il modernismo oggi non è più visto in contrasto con la
tradizione, ma col post-modernismo, e non prevede alcun progresso sociale da
uno stato meno evoluto a uno più evoluto. Oltre tutto, individualismo e
collettivismo possono coesistere anche in ambito urbano. Solo gli aspetti
normativi del collettivismo riflettono la tradizione e il conservatorismo e si
contrappongono alla modernizzazione. Infatti essi cambiano in corrispondenza
delle trasformazioni sociali e dello sviluppo socio-economico, trasformandosi
in norme individualistiche: l’interdipendenza materiale si riduce, e con essa
l’obbligo del supporto nei confronti della generazione precedente, pur restando
immutato l’elemento affettivo e relazionale. Il sè interdipendente sviluppatosi a
seguito dell’educazione al consenso finisce col coesistere con un sè separato
dal contesto e capace di autonomia, e questa è la miglior soluzione, perchè
soddisfa al contempo due bisogni dell’essere umano (Kagitçibasi, 1990).
La misura in cui il sè è percepito come separato o coesistente col sè relazionale
è forse l’elemento basilare della distinzione tra individualismo e collettivismo,
perchè è questo che dà origine a tutte le altre implicazioni comportamentali.
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1.4 - INCULTURAZIONE e ACCULTURAZIONE
Le caratteristiche culturali e comportamentali di una società vengono trasmesse
alle generazioni successive attraverso l’insegnamento e l’apprendimento. La
trasmissione culturale avviene in senso verticale, orizzontale e obliquo.
Verticalmente vengono trasmessi dai genitori ai figli sia elementi culturali che
fattori genetici non facilmente distinguibili gli uni dagli altri; in senso
orizzontale l’apprendimento avviene dai propri coetanei, e in senso obliquo
dalle varie istituzioni (scuola, società, ecc.). Se l’apprendimento avviene
totalmente all’interno della propria cultura, si hanno i cosiddetti processi di
inculturazione e socializzazione. Si tratta di due fenomeni affini, e tuttavia
l’inculturazione si distingue dalla socializzazione nel senso che generalmente
non è conseguente a un insegnamento specifico: l’individuo apprende
naturalmente, per imitazione o per condizionamento, nel corso della sua fase di
sviluppo. La socializzazione comporta invece la formazione, l’educazione e
l’insegnamento intenzionale dell’individuo, in base alle norme del proprio
gruppo culturale.
Nel periodo dell’infanzia e dell’adolescenza l’individuo passa gradualmente da
una dipendenza fisica in cui apprende a soddisfare in primo luogo i propri
bisogni fisici e fisiologici, a una dipendenza sociale e psicologica, necessaria
per il soddisfacimento di altre esigenze, classificate in scala nella “piramide dei
bisogni” di Maslow (1954) in: bisogni di sicurezza, di affiliazione, di stima e di
autorealizzazione.
Tra le caratteristiche dell’inculturazione che Barry e colleghi (1957, 1959)
ritengono comuni a tutte le culture si distinguono: l’educazione al consenso -
ossia all’obbedienza, alla responsabilità e all’assistenza - e l’educazione
all’affermazione, che combina il saper contare su se stessi, il rendimento e
l’indipendenza in generale.
Si notano queste differenze soprattutto in relazione alle forme di sussistenza:
nelle società pastorali e agricole, caratterizzate da alta accumulazione di cibo,
l’educazione al consenso forma individui coscienziosi, prudenti, remissivi,
mentre nelle società di cacciatori e raccoglitori, a bassa accumulazione di cibo,
gli individui educati all’affermazione mostrano maggior sicurezza in se stessi,
coraggio e autonomia, perchè queste qualità conducono all’immediata
ricompensa (reperimento di cibo) o punizione.
Se il processo di apprendimento deriva dal contatto con un’altra o con altre
culture, si ha la cosiddetta acculturazione, che può essere vista come una
seconda inculturazione e che può aver luogo in qualsiasi momento della vita
dell’individuo, assieme alla ri-socializzazione, ambedue determinate da
influenze esterne alla propria cultura. Si verifica in questo caso una forma di
ri-apprendimento che può essere fonte sia di problemi che di nuove
opportunità.
In sintesi, l’inculturazione è determinata dall’influenza della propria cultura
durante il periodo di sviluppo cognitivo dell’individuo, mentre l’acculturazione
è subìta dagli individui per via di un cambiamento verificatosi nel contesto
culturale, di solito a seguito del contatto con altre culture. E’ ciò che afferma
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Herskovits (1938) che svolse il primo studio di fondamentale importanza
sull’acculturazione.
Si nota sempre tra due culture in contatto tra di loro la tendenza di una a
dominare l’altra: si distingue dunque una cultura dominante e una acculturante
che ne viene influenzata.
I continenti che sono stati più soggetti a processi di acculturazione sono
l’Africa, l’Asia e l’Oceania (Berry, Segall e Kagitçibasi, 1997). Alcune
popolazioni hanno a volte subito addirittura un’acculturazione secondaria: è il
caso di gruppi indigeni che sono stati influenzati da popolazioni in precedenza
acculturate dalle potenze coloniali. Le popolazioni Bantu della Repubblica
Centro-Africana costituiscono ad esempio la maggior fonte di acculturazione
dei gruppi Pigmei Biaka (Berry, 1986).
A seguito di un’acculturazione si verificano cambiamenti sia a livello di
gruppo - in ambito sociale, economico e politico - che a livello individuale. In
quest’ultimo caso, ciò che più facilmente subisce una trasformazione sono i
valori, gli atteggiamenti e l’identità, anche se non nella stessa misura in tutti gli
individui: alcuni abbracciano il nuovo, altri lo rifiutano, altri scelgono tra le
novità importate solo alcuni elementi che ritengono utile e opportuno
incorporare nel proprio modo di vita. Quest’ultima soluzione determina quello
che viene chiamato biculturalismo, considerato la maggior fonte di sviluppo e
di evoluzione delle culture. Inoltre, possono modificarsi solo alcuni ambiti
della cultura e determinati comportamenti, mentre altri restano inalterati.
L’acculturazione non è quindi un fenomeno uniforme ed è multilineare, nel
senso che determina esiti diversi.
Ciò che sempre e in ogni caso si verifica negli individui sono reazioni
psicologiche di vario genere ed entità. Se l’individuo trova soddisfazione e si
sente perfettamente ancorato nella propria società, il suo atteggiamento nei
confronti della cultura dominante sarà negativo ed è più probabile che in
questo caso le influenze acculturative siano rifiutate.
A seconda della strategia di acculturazione adottata dall’individuo o dal gruppo
nei confronti della società dominante, si distinguono quattro tipi di
acculturazione, che possono anche coesistere in una stessa cultura, pur in
ambiti diversi (Berry, Poortinga, Segall e Dasen, 1992, p. 233):
1. l’assimilazione si manifesta quando l’individuo sceglie di abbandonare la
propria cultura originaria e accetta pienamente la cultura di immissione, che
sente come dominante e che ritiene possa offrirgli maggiori opportunità. In
questo caso egli assume gradualmente una nuova identità in base alla nuova
cultura. Questo processo spesso comporta per l’individuo un senso di
isolamento e di alienazione, perchè non di rado non gli è consentito di
integrarsi perfettamente nella cultura dominante (Massimini, Inghilleri e
Delle Fave, 1996). L’assimilazione è volontaria se l’individuo non ha alcun
interesse al mantenimento della propria cultura e accetta l’interazione con la
società dominante; in questo caso la trasformazione comportamentale è
massima. E’ forzata se imposta dal gruppo dominante, il cui scopo -
soprattutto se si parla di colonizzazione - è di modificare comportamenti,
credenze, usanze, valori, tipo di educazione, ecc., per rendere quella cultura
il più possibile simile alla propria, con conseguenze spesso devastanti per
chi subisce questo abuso.
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2. la separazione si verifica se l’individuo si rifugia nella propria cultura
originaria allo scopo di conservarla. Se è imposta, la separazione diventa
segregazione.
3. l’integrazione è la forma più auspicabile di acculturazione. Si ha quando
l’individuo è interessato a conservare la propria cultura, pur interagendo con
l’altra e facendo propri alcuni elementi di questa che ritiene possano
facilitare una propria evoluzione. Si ha quindi un rapporto equilibrato tra
continuità e cambiamenti.
4. l’emarginazione si verifica quando l’individuo non ha interesse o
possibilità di conservare la propria cultura, e al contempo gli è preclusa la
partecipazione nell’altra. E’ in quest’ambito che si determina il più alto
livello di stress, in quanto l’individuo emarginato, sospeso tra due mondi e
due culture, si trova in uno stato di estrema confusione e incertezza.
Le popolazioni indigene dell’Africa sono state a volte assoggettate a politiche
contraddittorie di segregazione e di assimilazione. Attraverso i tentativi di
assimilazione, molte si deculturarono, perdendo parti essenziali del patrimonio
culturale ereditato (lingua, identità, tecniche di sopravvivenza), e attraverso la
segregazione furono tenute lontane da una piena partecipazione nella società
dominante, e ciò impedì loro di acquisire nuovi valori, identità, certezze,
elementi cognitivi e capacità di gestirsi autonomamente.
Per evitare movimenti separatisti, le politiche integrazioniste attuate dalle
società dominanti dovrebbero incoraggiare i propri membri ad accogliere i
gruppi etnoculturali formatisi a seguito dell’acculturazione, e questi a prendere
parte alla nuova e più ampia società che si va formando.
Nel caso di politiche assimilazioniste, si può invece evitare il rischio della
marginalizzazione accettando a pieno diritto le altre culture e allentando la
pressione volta a creare una cultura omogenea.
Stress da acculturazione
Se i mutamenti di comportamento non determinano conflitti si verificano
gradualmente degli “spostamenti comportamentali”. Se però l’individuo non si
sente all’altezza della situazione, o se l’esperienza di acculturazione non è
percepita come un’opportunità, ma come sopraffazione, l’individuo non accetta
di buon grado il cambiamento nella qualità della vita e il suo stato psichico
sfocia quindi nel cosiddetto “stress da acculturazione” (Berry, Poortinga,
Segall e Dasen, 1992, p. 237). I segni evidenti sono: disturbi mentali, ansietà,
depressione, angoscia, senso di alienazione e di emarginazione, malattie
psicosomatiche, senso di perdita di identità. Questi fattori contribuiscono tutti
in larga misura alla riduzione delle difese immunitarie dell’individuo, e sono
quindi all’origine di molte malattie.