8
In un articolo uscito su Repubblica e risalente ad aprile 2005, la
giornalista Maria Stella Conte
1
denunciava la forte influenza che la
pubblicità, in modo particolare gli spot, esercita nei confronti della
psiche infantile. A supporto delle sue argomentazioni l’autrice riportava
un dato elaborato dalla Società Italiana di Pediatria secondo cui «se un
bambino guardasse per due ore al giorno Italia 1 nella fascia oraria
compresa tra le 15 e le 18, durante la quale è trasmessa una
programmazione specificatamente destinata all’infanzia, quel bambino
rischierebbe di vedere in un anno 31.500 spot pubblicitari»
2
.
A tale riguardo va aggiunto un secondo dato e cioè la particolare
fascinazione che i più piccoli dimostrano verso la pubblicità: è innegabile
la seduzione esercitata nei confronti di tale pubblico dalla presentazione
di una serie di prodotti attraverso immagini e parole attraenti. Per di più,
la fruizione continua di messaggi in cui viene fatto vedere il proprio
gioco prediletto, l’oggetto della propria bramosia, rappresenta
indubbiamente motivo di piacere per un bambino.
Tenendo presenti tali aspetti e omettendo considerazioni di
carattere sociologico, in tale lavoro abbiamo analizzato il linguaggio
pubblicitario utilizzato nei messaggi diretti ai più piccoli; in un primo
tempo abbiamo esaminato gli studi sul linguaggio pubblicitario in
generale sulla base della relativa bibliografia, e successivamente abbiamo
focalizzato l’attenzione sulle strategie retorico argomentative e sulle
modalità linguistiche utilizzate nella comunicazione pubblicitaria rivolta
all’infanzia.
Riteniamo che attualmente la riapertura di un dibattito sul
linguaggio della pubblicità, meriti la profusione di energie da parte del
mondo accademico e della ricerca poiché al momento è la televisione con
1
Cfr. Conte (2005).
2
Ibidem.
9
il suo linguaggio a catalizzare la maggior parte dell’attenzione degli
studiosi: occorre risalire fino agli anni Sessanta e Settanta per rintracciare
un periodo di intensi studi sul linguaggio della pubblicità in sé. Fra gli
esempi più autorevoli possiamo citare a questo proposito Tullio De
Mauro
3
, Mario Medici
4
, Maria Luisa Altieri Biagi
5
e Giorgio Cardona
6
;
anche in anni più recenti il dibattito si è riacceso grazie ai contributi di
vari studiosi
7
.
Oggi nel 2009, questa ricerca intende dare un piccolo contributo
in questo settore, proponendosi di indagare le strategie linguistico
retoriche messe in atto dai creativi delle agenzie nella codificazione dei
messaggi pubblicitari diretti ai bambini. Scegliamo volutamente di
seguire una prospettiva retorica, dal momento che è assodato che per
ottenere il coinvolgimento del destinatario ed influenzarne gli
atteggiamenti, la comunicazione pubblicitaria si serve degli strumenti
messi a disposizione dalla retorica classica.
Come anticipato, per l’elaborazione del lavoro, abbiamo deciso
dapprima di studiare il linguaggio pubblicitario in generale, cercando di
coglierne la natura e le caratteristiche principali. Il primo capitolo intende
fare proprio questo: ripercorrere certe considerazioni degli studiosi in
quanto hanno colto aspetti basilari del linguaggio della pubblicità.
Nel secondo capitolo viene invece delineato un sintetico quadro
della storia del linguaggio pubblicitario in Italia in quanto la conoscenza
della storia stessa è indispensabile per la comprensione delle condizioni
del presente.
3
Cfr. De Mauro (1967).
4
Cfr. Medici (1973, 1974).
5
Cfr. Altieri Biagi (1979).
6
Cfr. Cardona (1972) e (1974) in Chiantera (1989).
7
Fra gli altri, citiamo Massimo Arcangeli (2008) e Maria Rosa Capozzi (2008).
10
Nel terzo capitolo, di impostazione prettamente retorica, viene
presentato un percorso diacronico in cui vengono analizzati gli strumenti
della retorica antica al fine di mettere in luce quali siano oggi i mezzi che
i copywriter hanno a disposizione per persuadere il loro uditorio.
Questo capitolo chiude anche la prima parte del lavoro.
Il quarto capitolo introduce la seconda parte del lavoro, il cui
obiettivo è quello di verificare se il codice linguistico adoperato nei
messaggi pubblicitari di oggi rivolti ai bambini, presenta qualcosa di
ricorrente. Nello specifico analizzeremo le funzioni della comunicazione
messe in evidenza dai creativi e gli schemi argomentativi proposti negli
annunci pubblicitari diretti ai più piccoli.
Il capitolo cinque prosegue nell’indagine con un’analisi delle
figure retoriche, presenti nel corpus di pubblicità, scelto per questa
ricerca, che segue lo schema fatto da Bice Mortara Garavelli nel suo
Manuale di retorica
8
.
La ricerca si chiude nel capitolo sei con un’analisi dei diversi
fenomeni di natura lessicale, morfologica e sintattica concernenti il
codice linguistico attraverso cui si esprimono i messaggi del corpus di
pubblicità scelto, cercando in modo particolare di verificare se in questi
messaggi, si ricerca un adattamento al target dei bambini, attraverso
l’utilizzo di forme di baby talk
9
, oppure no.
8
Cfr. Mortara Garavelli (1994
8
).
9
Il baby talk è la varietà linguistica usata dagli adulti nel rivolgersi ai bambini. Per
approfondimenti si veda più avanti.
11
CAPITOLO 1
LA DEFINIZIONE DEL LINGUAGGIO
PUBBLICITARIO
«Tutto quello che sappiamo e pensiamo lo dobbiamo alle nostre parole, che
abbiamo appreso da altri: non siamo mai soli a usare le parole»
Albert Einstein
12
1.1 Lingua oppure linguaggio?
È essenziale, all’interno di un’indagine dell’aspetto linguistico del
fenomeno pubblicitario, porre, sia pure concisamente, una questione di
criterio e spiegare inizialmente cosa si intende con l’espressione
“linguaggio pubblicitario”.
Comunemente non viene prestata molta attenzione alla differenza
fra il significato di linguaggio e quello di lingua, tant’è che spesso questi
due termini vengono utilizzati in maniera non differenziata, quasi
emulando gli inglesi i quali, nel loro sistema, hanno soltanto la parola
language. Di fatto però, è molto importante mantenere distinta la nozione
di linguaggio da quella di lingua per quanto non sia agevole dare una
definizione univoca ed universalmente valida.
Giorgio Graffi e Sergio Scalise pur riconoscendo la difficoltà del
compito di esplicitazione hanno scritto che:
con linguaggio intendiamo dunque la capacità comune a tutti gli
esseri umani di sviluppare un sistema di comunicazione dotato di quelle
caratteristiche proprie che abbiamo descritto (discretezza, ricorsività e
dipendenza dalla struttura) e che lo distinguono da altri sistemi di
comunicazione. Con lingua intendiamo la forma specifica che questo
sistema di comunicazione assume nelle varie comunità.
1
La tesi maggiormente accreditata ad oggi ci dice che il codice
linguistico attraverso cui si esprime e si diffonde il messaggio
pubblicitario è un linguaggio e non una lingua. Esso è costituito da
espressioni e formule che designano una terminologia specialistica
1
Cfr. Graffi, Scalise (2003: 23).
13
distinta da altri linguaggi settoriali: tale terminologia utilizzata da un
gruppo più o meno vasto di parlanti fa parte di un vocabolario
riconoscibile come un sottocodice all’interno del sistema della lingua
italiana. I termini del linguaggio pubblicitario infatti sono riconosciuti,
codificati e condivisi da coloro che agiscono entro una medesima
categoria professionale. Citiamo in proposito la definizione di linguaggio
pubblicitario data da Enrico Borello e Silvia Mannori e tratta dal loro
volume sulla teoria e la tecnica della comunicazione di massa
Con l’espressione “linguaggio pubblicitario” si intende quell’insieme
di strumenti e di strategie (codice linguistico compreso) di cui i
professionisti di questo settore si avvalgono per convincere e persuadere un
pubblico sollecitandone la curiosità e l’interesse attraverso connotazioni
specialistiche. Si tratta quindi di una particolare lingua settoriale, con il suo
lessico, la sua grammatica e la sua sintassi.
2
Il linguaggio della pubblicità però è ben lontano dal configurarsi
solo come un vocabolario settoriale. Esso deve rendersi accessibile e
comprensibile anche al grande insieme dei destinatari per stabilire il
contatto mentale con l’uditorio al quale si rivolge. Sostengono Perleman
e Olbrecht-Tyteca in proposito:
Nessun oratore può trascurare lo sforzo di adattamento al suo
uditorio.
3
Solo così infatti si riescono a gettare le basi per ottenere
quell’adesione delle menti che è il fine ultimo di ogni argomentazione.
2
Cfr. Borello, Mannori (2007: 66-67).
3
Cfr. Perelman, Olbrechts-Tyteca (1989: 26).
14
Nei fatti tutto questo si traduce nell’impiego di formule linguistiche che,
pur rimanendo nello spazio della comprensibilità, protendono verso una
certa arditezza nella produzione di vocaboli nuovi e nell’uso di
costruzioni originali e seducenti. Il linguaggio pubblicitario, di cui
occorre sempre ricordare il fine principale e ultimo di indurre
all’acquisto di un determinato prodotto, deve quindi mitigare
attentamente due necessità che raramente convergono e compiere una
morbida sintesi fra arditezza e intelligibilità. Dal momento che l’uditorio
del messaggio pubblicitario è formato da un pubblico che impiega e
identifica un proprio variegato vocabolario standard, la pubblicità deve
fare regolare riferimento ad esso, sia per conformità sia per discordanza.
Il riconoscere un modello linguistico è infatti indispensabile per
realizzare un rapporto di dimestichezza, indipendentemente dal fatto che
poi tale dimestichezza venga incoraggiata oppure ribaltata in base alla
strategia scelta dai copywriter. Stefano Calabrese nel suo volume
Retorica del linguaggio pubblicitario ci dice che la scelta del linguaggio
in un messaggio pubblicitario viene fatta
mediando elementi di novità con la chiarezza di una frase priva di
ambiguità o elementi di disturbo (…). In pratica si tratta di partire da una
lingua standard comune a tutti gli osservatori che poi viene manipolata,
plasmata e modificata a seconda delle esigenze del singolo messaggio.
4
Si è appurato come quindi il linguaggio pubblicitario mentre si
avvale dei mezzi forniti dalla lingua comune, crei allo stesso tempo una
propria codificazione del tutto peculiare e specifica. A questo proposito è
interessante citare la triplice prospettiva d’analisi del rapporto fra lingua
4
Cfr. Calabrese (2008: 50).
15
e pubblicità descritta da Alberto Abruzzese e Fausto Colombo nel loro
Dizionario della pubblicità. Secondo gli autori infatti
il rapporto tra lingua e pubblicità può essere analizzato da almeno tre
prospettive:
• La pubblicità è una lingua, in quanto possiede caratteristiche
distintive ben precise.
• La pubblicità usa il codice della lingua, generalmente il
codice della lingua del paese dove la pubblicità è diffusa,
anche se al tempo stesso fa un ampio uso di sottocodici.
• La pubblicità trasforma la lingua, in quanto crea codificazioni
proprie, che per l’effetto di ripetizione continua entrano a far
parte del linguaggio comune delle persone.
5
Proprio per questa sua natura così singolare che lo pone a metà
strada fra il codice specialistico e la lingua comune, il linguaggio
pubblicitario viene a costituire di volta in volta il punto di incontro fra
realtà linguistiche sovente lontanissime ed estranee. Tutta la letteratura è
concorde nel considerare il linguaggio della pubblicità come il risultato
dell’interazione di codici e di registri differenti.
6
Proprio l’interazione di
registri e codici eterogenei contribuisce a rendere la pubblicità non solo
un luogo dove si incontrano e si intrecciano tali diversi codici, dal
linguaggio tecnico al gergo, dalle lingue straniere alla lingua letteraria,
5
Cfr. Abruzzese, Colombo (1994: 242-245).
6
Umberto Eco nel suo saggio La struttura assente. La ricerca semiotica e il
metodo strutturale (1968) ha identificato quattro gruppi di codici (intesi come
sistemi di convenzioni significative, correlazioni tra gli elementi di sistemi diversi)
a cui il linguaggio pubblicitario fa ricorso: i codici del veicolo, ossia i sistemi
linguistici convenzionali propri del mezzo di comunicazione adoperato; i codici
culturali, ovvero i codici che rimandano a una specifica cultura e che riguardano
tutte le sue manifestazioni, come ad esempio sociologia, psicologia, politica; i
codici narrativosemantici, ossia i codici del contenuto e della connotazione; i codici
retorici , desunti dalle differenti retoriche, che il linguaggio pubblicitario utilizza
come codice retorico.
16
ma anche un terreno fertile di sperimentazione linguistica. La parola del
messaggio pubblicitario si trova, per certi versi, in una condizione
privilegiata, in una specie di margine linguistico in cui tutto o
pressappoco tutto è ammesso, in cui i vincoli lessicali, sintattici,
grammaticali, ecc., pur non dissolvendosi totalmente (altrimenti si
avrebbe una non-lingua), si fanno piccoli e fragili, mortificandosi in
nome della creatività incantatrice.
Quello impiegato in pubblicità, insomma, è un linguaggio che
viaggia su più binari, che paiono talvolta paralleli ma che spesso si
allontanano bruscamente; può risultare quindi operazione quasi
disarmante il tentativo di riflettere sistematicamente sulle caratteristiche
di quest’ultimo nel suo impiego nelle pubblicità rivolte ai bambini, in
quanto può succedere di contraddirsi a più riprese e riscontrare tratti
ugualmente rilevanti ma apparentemente inconciliabili. Come sostiene
Guy Cook, la particolarità principale del linguaggio pubblicitario, quella
che forse le riassume tutte, è di invertire tendenza non appena si pensi
che la tendenza passata non sia più efficace
7
. Potrà, ad esempio, accadere
in un futuro più o meno lontano che un qualche pubblicitario originale e
pieno di iniziativa decida di invertire la tendenza del linguaggio di oggi.
Questo per ora non ci è dato di sapere, di conseguenza dobbiamo
necessariamente limitarci nei prossimi capitoli a delineare una
descrizione quanto più esauriente delle caratteristiche attualmente più
consolidate del linguaggio pubblicitario impiegato oggi nei messaggi
rivolti ai bambini.
7
Cfr. Cook (1992).