2
La prospettiva psicologica nello studio dei media è estremamente
importante perché il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa è
fittamente intersecato con le dinamiche di costruzione del mondo
che sostengono la società.
Secondo l’ approccio sociocostruzionista la società stessa si risolve
nell’ insieme delle forme di comunicazione. La conoscenza, intesa
come possibilità di sapere qualcosa sul mondo e su se stessi come
esseri sociali, è dovuta a conversazioni e comunicazioni che ci
permettono di tessere una fitta rete di relazioni sociali. È proprio in
base alle diverse modalità di comunicazione utilizzate dalle persone
che si creano e mantengono i rapporti tra i diversi gruppi presenti
nella società. Essi, nei vari momenti storici, hanno dato vita a
diversi tipi di relazioni, spesso impostate sulla modalità dominante
vs. dominato. Tendenzialmente i gruppi più forti cercano sempre di
cercare di mantenere lo status quo. La comunicazione è il mezzo
che, in primis, permette che avvenga ciò. In linea di massima, ad
ogni evoluzione storica nella società (da primitiva a tradizionale a
moderna), corrisponde un cambiamento delle forme comunicative
usate. Nella società moderna coesistono più forme di
comunicazione (monoculturale, moderna, cosmopolita,
etnocentrica), ma sicuramente quella etnocentrica ha assunto un
ruolo fondamentale.
3
Tramite questa forma di comunicazione, che promuove una
differenziazione ingroup/outgroup ed una difesa delle risorse del
proprio gruppo, i gruppi dominanti tendono a conservare il potere e
a favorire i propri interessi.
Una delle tecniche utilizzate per fare ciò è la guerra psicologica.
Essa ha l’ obiettivo di mantenere il controllo di grandi strati di
popolazione, pilotandone opinioni e giudizi, da parte dei potentati.
Si parte dall’ individuazione di un malcontento nella popolazione,
endemico in una società in cui ci sono forti divisioni sociali. Sono
elaborate, in seguito , proposte che vengono propagandate come dei
miglioramenti socio-economici per la popolazione, ma che in realtà
sono del tutto funzionali ai centri del potere. Questo vale soprattutto
nel quadro internazionale, quando è impossibile per i governi
democratici fare ricorso a forme d’ intervento diretto e risolutivo
che non siano supportate dall’ opinione pubblica.
Per fare questo i governi hanno bisogno dei mezzi di
comunicazione di massa, veicoli tramite i quali sono trasmessi i
messaggi sotto forma di notizie. Esse sono importanti perché
costituiscono una “memoria collettiva”,delineando ciò che deve e
non deve essere ricordato. La guerra psicologica agisce con la
disinformazione e la manipolazione della notizie, attuando una
“guerra dell’ informazione”, possibile grazie al ruolo sempre più
importante che i media hanno acquisito col passare del tempo.
4
Essi sono il tramite tra l’ individuo ed il mondo. Ogni informazione
emessa ha perciò degli effetti sul pubblico. Chi ha il dominio
sull’informazione ha anche la possibilità di esercitare una forte
influenza sull’ opinione pubblica. Secondo la teoria della “spirale
del silenzio” essa si crea tramite un meccanismo per mezzo del
quale le opinioni espresse con più veemenza diventano quelle più
visibili, mentre le opinioni minoritarie restano sullo sfondo, anche
perché contro chi le esprime viene praticato l’ isolamento sociale. Il
monitoraggio del clima d’ opinione è favorito dai media che,
pertanto, promuovono l’ integrazione degli individui alla tendenza
emergente.
I media, inoltre, mettono in atto la propaganda, ossia la forma di
comunicazione più importante nell’ ambito della guerra psicologica.
Essa è l’ uso di simboli per promuovere o avversare qualcosa presso
un pubblico. Tramite l’ uso di simboli prendono forma i miti. Essi si
costruiscono su una catena semiologica già edificata (significante –
significato - segno/simbolo) e danno vita ad un sistema più grande,
fittamente intersecato con lo sviluppo culturale di una società. Nel
momento in cui si diventa schiavi del mito prefabbricato e quindi
pensiero ed azione sono svincolati dal pensiero critico, si apre la
strada all’ influenza, fine ultimo della propaganda. Essa viene
attuata col supporto dei media che, con i loro impegni finanziari
sono vulnerabili alle pressioni esercitate dai potentati.
5
Dei mezzi di comunicazione, la TV è stata senz’ altro tra quelli che
hanno maggiormente attirato l’ attenzione degli studiosi.
L’eminenza di questo medium è dovuta alle caratteristiche che gli
conferiscono un plusvalore. La TV funziona a flusso continuo e
costituisce una presenza costante e sempre disponibile. Si può
accendere e spegnere, ma lei è sempre là a fare qualcosa.
Quest’aspetto è legato anche alla capacità della TV di assumere un
carattere di domesticità, legandosi alle abitudini ed agli spazi di vita
familiari. La televisione, inoltre, assume anche un valore affettivo
pari a quello di presenze animate. La sua presenza garantita e la sua
circolarità nella programmazione infondono un che di riposante e
rassicurante. Ciò rende la televisione un mezzo ideale per entrare
nella quotidianità delle persone, fornendo loro una determinata
costruzione della realtà. Col presente lavoro si è cercato di
comprendere questo effetto di costruzione della realtà attuato dalla
TV e di capire se ci sono differenze tra le persone nella ricezione
del messaggio a causa di fattori di mediazione che intervengono tra
la sua emissione ed interpretazione. L’ ipotesi di base che ha
guidato la realizzazione della parte empirica è che persone con un
grado di istruzione più alto, poiché sono in possesso di strumenti
critici (istruzione, contatto con più agenzie di socializzazione, etc.),
sono più indipendenti nella loro costruzione della realtà, da quella
realizzata tramite la TV.
6
PARTE PRIMA
ASPETTI TEORICI
CAPITOLO 1
LA GUERRA PSICOLOGICA
Premessa
L’ uomo è un animale sociale. Data tale natura, se ne deduce che
l’essere umano non può non comunicare. Per millenni sono stati
utilizzati strumenti corporei per realizzare una comunicazione che si
risolveva nella modalità faccia a faccia o nel rapporto scrittura-
lettura. L’ introduzione dei mezzi di comunicazione di massa, o
mass media, ha costituito un fattore di mediazione che ha
trasformato la natura delle comunicazioni possibili.
I media sono artefatti culturali che forniscono alle persone le risorse
simboliche necessarie ad inserire e ad integrare le proprie
esperienze di vita all’interno di una cornice di senso.
7
I contenuti mediali offrono una base comune per una fitta rete di
comunicazioni tra familiari o conoscenti, allargando il loro ambito
di conoscenze e fornendo loro modelli per fronteggiare le più
disparate situazioni di vita quotidiana. Inoltre, le persone
attribuiscono ai media un ruolo sempre più rilevante in un ambito
che, precedentemente, era di azione della scuola, della Chiesa e
della famiglia. I media hanno sostituito queste agenzie di
socializzazione nel compito di trasmettere agli individui le trame di
significato ed i valori culturali per mezzo dei quali vengono
costruiti mondi di riferimento condivisi.
Un ambito in cui l’ identità dell’ uomo occupa un posto tanto
rilevante, non poteva non attirare l’ attenzione della psicologia. A
prima vista, il suo ruolo nello studio della comunicazione di massa
può sembrare discutibile, soprattutto laddove si consideri la
psicologia un sapere del tutto incentrato sull’ aspetto
individualistico dell’ essere umano. In realtà, se si considera che
quasi tutto ciò che avviene nella comunicazione di massa riguarda il
modo in cui l’ uomo costruisce il suo mondo e si riproduce come
essere sociale, la prospettiva psicologica acquisisce un ruolo
centrale.
8
Il contributo della psicologia è decisivo in almeno tre punti:
“1) esplorare la trama fittissima dell’ intenzionalità della
comunicazione di massa: quando le persone, i gruppi e le
organizzazioni sono coinvolti in interazioni di tipo
comunicativo, essi cercano di incontrarsi in un mondo
intenzionale, cioè verificano se hanno scopi comuni, presentano
i loro obiettivi e tentano di riconoscere gli scopi altrui,
bilanciando le opposte tendenze alla collaborazione e alla
competizione;
2) analizzare i processi cognitivi attivati nell’ interpretazione dei
testi immessi nei circuiti della comunicazione di massa:
dall’attenzione prestata selettivamente a certi messaggi alla
loro comprensione e alla loro sistematizzazione in memoria;
3) esibire il grado di coinvolgimento emozionale che le persone
realizzano quando interagiscono con ( e attraverso i media).”
1
Una psicologia dei media impostata in modo propositivo si
colloca nella prospettiva della “psicologia culturale” e mira a
mostrare come gli individui nel loro rapporto con i media,
“rivelino la loro natura di animale simbolico, interessato a
inserire la propria vita quotidiana in una trama di significati”
2
.
Soprattutto, un tale approccio è intrinsecamente critico, perché
interessato a rilevare in che modo le
“potenzialità del sense-making messe a disposizione dai media
possono sfuggire al controllo delle persone ed essere funzionali
a programmi di dominio sociale”.
3
1
G. Mininni, Psicologia e media, Bari 2004: Laterza, pag. 6, corsivo mio
2
ivi, pag. XI
3
ibidem
9
1.1 Gruppi, società e conflitti
Uno degli sviluppi più importanti avuti in psicologia è stato lo
studio degli individui nel contesto delle relazioni all’ interno del
gruppo, della formazione e del cambiamento degli atteggiamenti,
del pregiudizio e di altri problemi relativi alle relazioni umane.
Tajfel
4
utilizza la definizione di “nazione” proposta da Emerson:
“l’affermazione più semplice che si può fare a proposito di una
nazione, è che essa è un corpo di persone che sentono di essere una
nazione”.
I membri di un gruppo possono, cioè, essere considerati tali quando
essi stessi si categorizzano con un elevato grado di consenso e
vengono categorizzati nello stesso modo dagli altri.
La definizione di sé come appartenente ad un gruppo è influenzata
da tre componenti:
1) valutativa: indica che la nozione di gruppo può avere una
connotazione positiva e/o negativa;
2) cognitiva: rappresenta la conoscenza di appartenere ad un
gruppo;
3) emozionale: collega gli aspetti cognitivi e valutativi ad
emozioni come odio, amore, vergogna, piacere, etc., diretti
verso coloro che fanno parte del gruppo ed intrattengono
relazioni con esso.
5
4
H. Tajfel, Human Groups and Social Categories. Studies in Social Psychlogy, Cambridge
1981: Cambridge Press University, trad. it. Carla Caprioli, Gruppi Umani e Categorie Sociali,
Bologna 1985: Il Mulino, pag. 346
5
G. Speltini, A. Polmonari, I gruppi sociali, Bologna 1999: Il Mulino, pag. 43
10
La definizione del sé è pertanto legata all’appartenenza ad un
gruppo. La stessa identità dell’individuo ne è, di conseguenza,
influenzata. I rapporti all’interno di uno stesso gruppo e tra gruppi
diversi sono perciò di fondamentale interesse per la comprensione
della realtà sociale, all’interno della quale sono continuamente in
atto processi di confronto, collaborazione, tensione e conflitto.
Il comportamento di un individuo in questo complicato sistema di
relazioni umane,
“non è quello che avrebbe potuto avere in condizioni di isolamento,
ma quello invece influenzato, e modificato, che egli assume
all’interno di una struttura di reciprocità in cui egli abbia un posto
particolare”
6
.
Vivere in una società nella quale c’è un confronto continuo con gli
altri, ha, dunque, delle conseguenze sull’agire dell’individuo e sulla
definizione della propria identità. Si evince, pertanto, che il
comportamento di un individuo e la definizione della sua identità
sono collegati. Ogni soggetto, di fronte ad una qualsiasi situazione,
ha a disposizione tutta una serie di comportamenti virtuali che
potrebbero essere applicati. La scelta del soggetto cadrà sul
comportamento che è più aderente alla percezione che egli ha di sé.
6
M. Sherif, Social Interaction, Process and Products, Chicago 1967: Aldine Publishing
Company, trad. it.a cura di Maria Chiara Celletti, Interazione Sociale, Bologna 1972: Il
Mulino, pag.28
11
L’individuo opterà per un comportamento interpersonale se, in una
determinata situazione, la sua identità è definita in base alle sue
caratteristiche idiosincratiche, sceglierà un comportamento
intergruppo se definisce se stesso come appartenente ad un
determinato gruppo.
La distinzione “comportamento interpersonale/intergruppo” è
mutuata da Tajfel, che ha “costruito” un continuum lungo il quale
ha ampio spazio di posizionamento tutta la gamma di
comportamenti umani. Gli estremi di tale continuum vanno da un
comportamento prettamente interpersonale ad uno del tutto
intergruppo. Per Tajfel non può essere attuato un comportamento
puramente interpersonale. Nella vita reale esso non si può verificare
poiché nessun incontro sociale rimane immune dalle influenze che
le categorie sociali esercitano e verso le quali ci si crea una serie di
aspettative.
7
Tendenzialmente tutte le situazioni nelle quali gli
individui si possono trovare, si collocano tra questi due estremi ed il
loro comportamento è caratterizzato dalla percezione che essi hanno
della situazione.
7
H. Tajfel, Human groups and Social Categories. Studies in Social Psychology, Cambridge
1981: cambridge press University, trad. it. Carla Caprioli, Gruppi Umani e categorie Sociali,
Bologna 1985: Il Mulino, pag. 346
12
Nell’ampia gamma di comportamenti che l’individuo o i gruppi
possono attuare, di non secondaria importanza sono quelli
concernenti i conflitti. Per Sherif
8
“il comportamento motivazionale nei rapporti interpersonali non
può essere studiato in analogia alle situazioni di interazione
dell’ambito dei gruppi, poiché le relazioni operative all’interno del
singolo gruppo non sono necessariamente analoghe a quelle tra
gruppi diversi.Ciò che determina gli stati di pregiudizio o di
tolleranza, di cooperazione o di competizione, o di conflitto è la
natura delle relazioni tra i gruppi.”
Se l’altro gruppo è percepito come un ostacolo per il perseguimento
delle proprie mete, come un nemico da sconfiggere, sorgerà allora
inevitabilmente uno stato di competizione e di conflitto che
condurrà alla formazione di pregiudizi e stereotipi sfavorevoli,
impiegati di volta in volta al fine di giustificare il corso dell’azione
intrapresa dal gruppo.
Di solito, un conflitto interpersonale si riscontra più facilmente
all’interno delle relazioni intragruppo. Il conflitto, in tali situazioni,
rappresenta una delle dinamiche disgreganti. Esso conduce a costi e
benefici a livello di gruppo, oltre che individuale. Entrare in
conflitto con un'altra persona significa in primo luogo crearsi
inimicizie ed instaurare un meccanismo che potenzialmente
potrebbe portare alla disgregazione del gruppo.
8
M. Sherif, Social Interaction, Products and Process, Chicago 1967: Aldine Publishing
Company, trad. it. Maria Chiara Celletti, Gruppi Umani e Categorie Sociali, Bologna 1985: Il
Mulino, pag. 34
13
D’altra parte, un conflitto può innescare anche meccanismi positivi
a livello individuale, in quanto favorisce un aumento della creatività
nel problem solving e, di conseguenza, può facilitare il gruppo nel
raggiungimento dei suoi scopi.
Le aree nelle quali solitamente si attua un conflitto sono quelle di
interdipendenza, in cui i “destini” dei singoli soggetti sono collegati
tra loro e che sono, tra l’altro, intrecciate e difficilmente
discriminabili. Esse sono l’ area dell’interdipendenza delle
informazioni, in cui nasce il “conflitto di pensiero”, dovuto a forti
contrasti per opinioni diverse e l’area dell’ “interdipendenza dei
risultati”, nella quale il conflitto nasce per incompatibilità tra scopi
e mezzi utilizzati dai membri del gruppo per il raggiungimento di
tali scopi.
È possibile, però che si creino delle situazioni di conflitto non solo
all’ interno di un gruppo, ma anche tra gruppi. Di solito si
verificano nell’esperienza di tutti gli attori sociali, alcune situazioni
che obbligano la maggior parte degli individui implicati ad agire nei
termini della loro appartenenza di gruppo, anche nel caso in cui il
loro sentirsi identificati sia stato inizialmente debole e poco
importante.
La ricerca sperimentale ha mostrato che è facile creare le condizioni
perché si generi ostilità fra gruppi. Uno dei prototipi di tali ricerche
può essere considerato il lavoro di Sherif et al., riguardante la
14
genesi delle ostilità fra gruppi di adolescenti. L’elaborazione teorica
cui Sherif pervenne è semplice: se due gruppi che sono in rapporto
tra loro si pongono scopi competitivi, giungeranno rapidamente ad
un conflitto intergruppi; se due gruppi in rapporto tra loro si
pongono scopi sovraordinati, giungeranno ad una cooperazione
reciproca.
Il paradigma dei “gruppi minimi”
9
ha abbassato ulteriormente la
soglia oltre la quale la coesistenza tra gruppi diversi, da pacifica
sfocia nell’ostilità. Tajfel ha elaborato la sua teoria in risposta alla
necessità, emersa durante gli anni ’60, di spiegare le motivazioni
dei conflitti culturali, dell’antisemitismo, del razzismo e della
guerra. Ciò aveva insegnato che forme apparentemente innocenti di
pregiudizio possono facilmente trasformarsi in forme aperte e
crudeli di ostilità. Secondo Tajfel, per causare un conflitto
intergruppi basta attivare una categorizzazione in gruppi.
Quando si avvia questo fenomeno, diminuisce nell’individuo
l’attenzione su ciò che c’è di individuale nel soggetto appartenente
ad un gruppo di riferimento diverso dal proprio. In sostanza
l’individuo “perde” le sue caratteristiche idiosincratiche e viene
percepito unicamente come membro dell’ outgroup.
9
H. Tajfel, Human Groups and Social Categories, Cambridge 1981: Cambridge Press
University, trad. it. di Carla Caprili, Gruppi umani e categorie sociali, Bologna 1985: Il
Mulino, pag. 403-415
15
Tajfel giunse dunque alla conclusione che la sola percezione di far
parte di un gruppo basta a produrre comportamenti di
discriminazione intergruppi, tramite i quali è favorito il gruppo di
appartenenza. Tramite questo processo di favoritismo per l’ ingroup
e di discriminazione verso l’ outgroup, che permette di dare conto
di come si creano e sviluppano le relazioni sociali, emerge il
concetto di identità sociale. Gli attori sociali percepiscono il loro
ambiente sociale in un modo che permette di distinguere fra “noi” e
“loro”, orientandolo in diverse categorie di significato. Considerano
cioè sé e gli altri in relazione all’ appartenenza categoriale,
collegando il concetto di sé all’ appartenenza ad un gruppo sociale.
A questa differenziazione “noi/loro” bisogna ricondurre la causa
principale dei conflitti sociali. Per giustificare tale affermazione
bisogna fare riferimento alle relazioni sociali ed al fondamentale
fattore della comunicazione. Il costruzionismo sociale, sostenuto da
autori quali Gergen, Shotter, Harrè, imputa la costruzione della
conoscenza a relazioni sociali o conversazioni o comunicazioni.
“Poichè ogni impianto conoscitivo degli esseri umani è vincolato
alla pratica negoziata e culturalmente situata dei linguaggi, anche la
conoscenza del Sé organizzata dalla psicologia ha uno statuto
discorsivo, che le può consentire un utile spostamento di enfasi
dalla <<rappresentazione>> all’ <<azione>>”
10
10
G. Mininni, Il discorso come forma di vita, Napoli 2003: Guida