Introduzione
“I mercati sono conversazioni” afferma la prima e più famosa, ricordata e ripetuta tesi
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del Cluetrain Manifesto (Levine et al.,1999). Un mantra ancora oggi ripetuto ed
estremamente attuale, eppure pubblicato per la prima volta ormai più di dieci anni fa. Nel
1999, quando le 95 tesi del manifesto vennero pubblicate, Levine, Locke, Searls &
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Weinberger vedevano già in maniera lampante i cambiamenti che l’avanzare dell’età
dell’informazione produceva sull’ambiente in cui operano le imprese e sui mercati. Un
crescente numero di persone connesse attraverso il world wide web, in grado di entrare in
relazione le une con le altre, di comunicare, conversare, scambiarsi opinioni e consigli, che
avevano spesso come oggetto aziende, brand, prodotti e servizi.
Incapaci di ottenere ascolto e risposta dalle imprese chiuse nella loro “torre d’avorio”
e impegnate in un sordo monologo, già alla fine degli anni ‘90 i consumatori cercavano e
trovavano online informazioni concrete e utili su brand, prodotti e servizi, in grado di colmare
il vuoto di una comunicazione pubblicitaria tanto curata, quanto muta, e l’inefficienza dei call
center e servizi di supporto. Online i consumatori si scambiavano assistenza, si raccontavano
le proprie esperienze, paragonavano, consigliavano e sconsigliavano prodotti e servizi,
traendo forza gli uni dagli altri e acquisendo un nuovo potere.
Un processo di reale empowerment del consumatore nutrito nei dieci anni trascorsi
dall’incessante sviluppo degli strumenti digitali e dai media sociali, che hanno finito per
trasformare ogni individuo in un potenziale citizen journalist, in grado di magnificare prodotti
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L’insieme di 95 tesi che gli autori, Levine, Locke, Searls & Weinberger, concepirono come un vero e proprio
manifesto, rappresentavano un invito all’azione delle aziende, perché si rendessero conto e abbracciassero
l’impatto che Internet iniziava ad avere sul mercato e sulle organizzazioni.
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È proprio Weinberger che nel suo intervento allo IAB Forum 2009 a Milano ha ripreso e ribadito i concetti
chiave del Cluetrain Manifesto e in particolare il concetto dei mercati come conversazioni. Il suo intervento è
accessibile all’url: <http://www.iabforum.it/iab-forum-milano-
2009/interventi/intervento.aspx?IDIntervento=26>
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e brand o di denunciare mancanze, errori e truffe con una visibilità e risonanza potenzialmente
globali.
Le tecnologie abilitanti del web 2.0 hanno dotato “le formiche” di un megafono (Anderson,
2008), messo in atto uno spostamento sull’asse del potere che toglie oggi all’impresa il
controllo sulla reputazione propria e dei propri brand, per quelli che Solis (2008) definisce
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“crowd-sourced brand”.
I casi Kryptonite, Dell Hell, Domino’s Pizza, che saranno raccontati nei prossimi
capitoli sono solo alcuni delle decine, centinaia di casi divenuti ormai storia, in grado di
dimostrare quali ripercussioni la nuova dotazione di potere dei consumatori ha sul tema della
gestione della reputazione.
Tuttavia, benché esempi di questo tipo abbiano nel corso degli ultimi anni costellato la
rete e trovato spazio sui mainstream media, occupando le pagine dei quotidiani e lo schermo
delle televisioni, l’attualità della prima tesi del Cluetrain Manifesto suggerisce che è ancora
necessario ricordare alle imprese che quelli con cui hanno a che fare non sono obiettivi da
colpire, né territori da conquistare, ma persone che cercano informazione, assistenza, che
vogliono essere ascoltate, che pretendono onestà e trasparenza. Persone con cui, in una
economia che alcuni hanno definito “trust economy” entrare in contatto, instaurare una
relazione di fiducia non è più un’opzione o un’opportunità ma un imperativo.
Appare allora indispensabile per l'impresa porsi in ascolto, comprendere le dinamiche
che caratterizzano l’interazione sui media sociali e presidiare i luoghi di discussione online.
È alla luce di queste considerazioni che trova origine questo lavoro, il cui scopo è
quello di indagare il tema della reputazione online per definire una metodologia di gestione e
descrivere gli strumenti utilizzabili a questo scopo, con un particolare focus su uno strumento
italiano, Blogmeter, di cui si analizzeranno funzionalità, offerta e clientela.
Il primo capitolo dell'elaborato è inteso come un'introduzione al tema della
reputazione aziendale, comprendente: un imprescindibile tentativo di definire il concetto, un
esame delle dimensioni che lo costituiscono e una panoramica delle metodologie classiche di
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Con il termine “crowdsourcing” (dall’unione dei termini inglesi crowd -folla e source-sorgente/origine) si
intende “l’atto di prendere un lavoro tradizionalmente realizzato da un agente designato (di solito un dipendente)
e esternalizzarlo a un indefinito e generalmente ampio gruppo di persone nella forma di una open call”.
(Definizione tratta dal blog di Jeff Howe, giornalista collaboratore della rivista Wired
<http://crowdsourcing.typepad.com/>).
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misurazione. Successivamente si descriverà il cambiamento che diffusione e sviluppo dei
media digitali hanno prodotto sulla gestione e il controllo della reputazione. Un esame dei casi
emblematici degli ultimi anni permetterà di mostrare i rischi e le conseguenze derivanti
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dall’ignorare ciò che Forrester Research ha definito the Groundswell (Li & Bernoff, 2008) e
ciò che in rete viene detto dell’impresa e dei suoi prodotti.
Il secondo capitolo è dedicato alle attività di gestione della reputazione, un compito
tradizionalmente affidato alle relazione pubbliche. Dopo aver analizzato in che modo
l’introduzione e diffusione dei social media abbia trasformato la professione, si descriveranno
gli strumenti del reputation building e presenteranno due possibili approcci strategici, uno
difensivo e uno proattivo, analizzando le diverse fasi che l’impresa dovrà affrontare per una
gestione completa, attenta ed efficace della propria reputazione online.
Alla luce del sempre minore controllo che l’impresa esercita sulla propria stessa
reputazione, appare rivestire un’importanza centrale l’attività di ascolto della rete e
monitoraggio della reputazione. Il terzo capitolo approfondirà quindi il tema del Reputation
Monitoring, con un’analisi concreta degli strumenti gratuiti e a pagamento oggi a disposizione
delle imprese. Ampio spazio sarà dedicato al tema correlato della misurazione dell’efficacia
delle strategie di Online Reputation Management (ORM) messe in atto. Verranno quindi
esaminate le diverse forme di impatto che le attività di online public relation sono in grado di
generare e per ognuna di esse si offrirà una dettagliata panoramica delle metriche che
consentono oggi di misurare i risultati raggiunti.
Il quarto capitolo è dedicato al caso Blogmeter, uno degli strumenti a pagamento più
accreditati sul mercato italiano. Dopo averne raccontato le origini, se ne descriveranno
l’offerta e la metodologia. Per una dimostrazione concreta degli elementi e potenzialità dei
servizi offerti da Blogmeter, verrà inoltre presentata un’analisi esemplificativa realizzata
attraverso una delle versioni della piattaforma proprietaria.
I dati in merito ai progetti svolti da Blogmeter durante lo scorso anno, acquisiti nel
corso di uno stage presso l’azienda, e la testimonianza fornita da due delle agenzie clienti di
Blogmeter, consentiranno inoltre di delineare un quadro dell’attuale catena del valore
dell’ORM.
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Il termine, che in italiano può essere tradotto come “onda anomala”, è utilizzato da Li & Bernoff (2008) per
indicare lo “spontaneo movimento di persone che utilizzano gli strumenti della rete per entrare in contatto, farsi
carico della propria esperienza, e ottenere ciò di cui hanno bisogno- informazioni, assistenza, idee, prodotti, e
potere contrattuale- l’uno dall’altro” e che le imprese vedono spesso come una minaccia. Si parlerà di esso più
approfonditamente nel capitolo 1.
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Nelle pagine del capitolo conclusivo sarà, infine, riepilogato quanto esposto, si
descriveranno i principali ostacoli frapposti al raggiungimento della piena maturità del settore
e si presenterà una proposta di impiego ulteriore degli strumenti di monitoring descritti.
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1. La Corporate Reputation
“Organizations can work to win the reputation they wish; whatever they do, they
will get the one they deserve”.
(Haywood, 2005)
“Reputation is not owned by the managers of the organization. It really exists only
in the perceptions of its stakeholders”.
(Haywood, 2005)
“You don’t own your reputation, your stakeholders do”.
(Kasper Nielsen, Reputation Institute, 2009)
Il capitolo che segue si pone come un'introduzione al tema della reputazione aziendale
oggi. Esso prende avvio con un imprescindibile tentativo di definire il concetto di reputazione
e un esame delle dimensioni che lo costituiscono. Si approfondisce in seguito il legame
esistente tra reputazione e fiducia e quindi il peso che la costruzione della reputazione riveste
nella creazione di relazioni durature e profittevoli con gli stakeholder. Dopo aver presentato
una panoramica delle metodologie classiche di misurazione della reputazione, divise in
metodi quantitativi e qualitativi, si descrivono i cambiamenti che la diffusione e sviluppo dei
media digitali hanno prodotto sull’ambiente in cui operano le imprese e, più in particolare,
sulla gestione e il controllo della reputazione. Approfondendo il tema dell’empowerment del
consumatore e attraverso un esame dei casi emblematici degli ultimi anni si mostrano, infine,
i rischi e le conseguenze derivanti dall’ignorare la forza del passaparola che ha
quotidianamente luogo online su aziende, brand e prodotti in un’economia in cui la capacità di
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attrarre e influenzare consumatori, dipendenti, investitori, partner commerciali, dipende
dall’abilità nel costruire rapporti basati sulla fiducia.
1.1 Che cos’è la reputazione?
Il dizionario Garzanti definisce la reputazione come la “stima, considerazione in cui si
è tenuti dagli altri”. Il sociologo Steven Nock (1993, p.2) la considera “una condivisa, o
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comune, percezione rispetto una persona”. Secondo Wikipedia la reputazione è:
“the opinion (more technically, a social evaluation) of the public toward a person,
a group of people, or an organization. It is an important factor in many fields,
such as education, business, online communities or social status.
Reputation can be considered as a component of the identity as defined by others.
Reputation is known to be a ubiquitous, spontaneous and highly efficient
mechanism of social control in natural societies. It is a subject of study in social,
management and technological sciences. Its influence ranges from competitive
settings, like markets, to cooperative ones, like firms, organisations, institutions
and communities. Furthermore, reputation acts on different levels of agency,
individual and supra-individual. At the supra-individual level, it concerns groups,
communities, collectives and abstract social entities (such as firms, corporations,
organizations, countries, cultures and even civilizations). It affects phenomena of
different scale, from everyday life to relationships between nations. Reputation is a
fundamental instrument of social order, based upon distributed, spontaneous
social control”.
La complessità del concetto e la diversità degli ambiti in cui esso trova applicazione
hanno da un lato stimolato la discussione e l’approfondimento in proposito in svariate
discipline, dall’altro, moltiplicando le prospettive di studio, hanno ostacolato lo sviluppo di un
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La definizione è tratta dalla pagina web: < http://en.wikipedia.org/wiki/Reputation> [consultato il 3 settembre
2009]
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discorso unico e multidisciplinare. Per questa ragione non è possibile individuare un’univoca
e condivisa definizione del concetto di Corporate Reputation.
Un tentativo di definizione complessiva della Corporate Reputation secondo una
prospettiva multidisciplinare è stato avanzato da Fombrun & Van Riel (1997) che hanno
sottolineato la necessità di approcciarsi allo studio della reputazione aziendale facendo
riferimento a sei distinti campi di studio: economico, strategico, di marketing, organizzativo,
sociologico, contabile.
L’approccio economico concepisce la reputazione come tratto o segnale. Entrambe le
concezioni sono d’accordo nel considerare la reputazione una percezione che osservatori
esterni hanno dell’azienda. La teoria dei giochi interpreta la reputazione come un tratto
distintivo delle aziende sulla base del quale è possibile dividere le stesse in gruppi,
accomunati da un simile comportamento strategico. Gli autori che considerano invece la
reputazione come un segnale, tendono a concentrarsi sull’aspetto informativo.
Secondo la teoria dei giochi (Weigelt e Camerer, 1988 in Fombrun & Van Riel, 1997)
la reputazione di un giocatore è la percezione che gli altri hanno dei suoi valori, dai quali
dipendono le sue decisioni strategiche. L’asimmetria informativa tra le parti costringe a basare
le proprie decisioni sulla reputazione. Nel mercato accade lo stesso, sia per ciò che riguarda il
comportamento del consumatore, che non può essere certo della buona fede del produttore, sia
per quello che concerne gli investitori, meno informati dei manager sui piani di azione futuri
(Grossman and Stiglitz, 1980; Stiglitz, 1989 in Fombrun & Van Riel, 1997). La reputazione
ha così un ruolo funzionale: le percezioni che i diversi pubblici dell’impresa si costruiscono a
proposito di ciò che l’impresa è, fa, rappresenta consentono di portare avanti relazioni e
transazioni nonostante la condizione di asimmetria informativa.
Secondo i teorici della segnalazione (Myers and Majluf, 1984; Ross, 1977; Stigler,
1962 in Fombrun & Van Riel, 1997) la reputazione è il risultato degli sforzi messi in atto
dall’impresa per presentarsi come affidabile e degna di fiducia agli occhi degli osservatori. La
costruzione della reputazione è quindi una forma di segnalazione che l’impresa può utilizzare
in modo strategico per aumentare la propria attrattività e quella dei suoi prodotti (es. per dare
una percezione di prodotti di qualità elevata per cui il consumatore sarà disposto a
corrispondere un premium price).
Da un punto di vista strategico (Caves and Porter, 1977; Freeman, 1984; Dutton and
Dukerich, 1991; Barney, 1986 in Fombrun & Van Riel, 1997) la reputazione è allo stesso
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tempo un asset e una barriera alla mobilità. Una reputazione salda genera vantaggi per
l’impresa poiché è difficile da imitare. Essa dipende infatti da caratteristiche uniche interne
all’azienda, sebbene sia una percezione altrui e non sia direttamente controllabile
dall’organizzazione, e prende forma nella mente degli osservatori col tempo e l’interazione.
Per questo, non solo è difficilmente duplicabile, ma è anche ardua da modificare,
rappresentando un limite, una barriera ai cambi di rotta. Come la prospettiva economica,
anche quella sociologica evidenzia il valore competitivo della reputazione, che erige
naturalmente anche barriere alla mobilità dei competitor.
Nella ricerca di marketing il concetto di reputazione coincide con quello di brand
image, intesa come “immagine nella mente di soggetti esterni” (perlopiù consumatori), come
risultato di un processo informativo in cui essi associano significati cognitivi ed emotivi ai
diversi elementi dell’organizzazione con cui sono venuti a contatto (perlopiù prodotti e servizi
dell’impresa). Alcuni autori individuano tre diversi livelli di elaborazione nel processo
informativo, da cui dipende la profondità e solidità di attributi e significati associati al
prodotto e la capacità del consumatore di esprimere un’opinione più o meno articolata degli
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stessi. Il livello di elaborazione dipende dalle conoscenze pregresse del soggetto, dal suo
livello di coinvolgimento e dalla comunicazione di marketing. La capacità di stimolare
associazioni positive, uniche e forti rispetto al brand è alla base di una forte brand equity
(Keller, 1997).
La teoria organizzativa (Barney, 1986; Dutton and Penner, 1992; Meyer, 1982;
Dutton and Dukerich, 1991; Camerer and Vepsalainen, 1988 in Fombrun & Van Riel, 1997)
ritiene che la reputazione abbia origine nel processo di costruzione di senso dei dipendenti.
Dalla cultura e identità aziendale e da come questa viene socializzata, interiorizzata,
reinterpretata e riprodotta, dipendono infatti i processi dell’azienda, le relazioni instaurate con
gli stakeholder, l’interpretazione dell’ambiente e la reazione agli avvenimenti, nonché le
stesse motivazioni che guidano le decisioni del management. Una cultura forte rende
omogeneo il comportamento dei diversi soggetti, definendo chiaramente qual è il
comportamento ritenuto adatto in determinate circostanze. Questo rende possibile l’esercizio
di sforzi congiunti e favorisce la trasmissione di un’immagine di coerenza all’esterno.
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Si distinguono tre livelli di elaborazione: un livello basso di elaborazione permette al consumatore di definire il
prodotto secondo categorie come bello/brutto, buono/cattivo; un livello medio di elaborazione consente al
consumatore di descrivere l’oggetto attraverso valutazioni e giudizi; un alto livello di elaborazione genera una
complessa rete di significati ben fissati nella memoria che consentono al consumatore di esprimere un’opinione
elaborata dell’oggetto.
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La sociologia (Granovetter, 1985; White, 1981 in Fombrun & Van Riel, 1997) si
concentra sul processo socio-cognitivo che genera le “classifiche reputazionali”. Queste sono
concepite come costruzioni sociali che vengono poste in essere attraverso l’interazione
dell’azienda con i propri stakeholder all’interno di un ambiente condiviso. Diversi stakeholder
applicano diversi criteri di valutazione, tuttavia abitano lo stesso ambiente e interagiscono tra
loro, scambiando informazioni. Al centro della visione sociologica è la natura collettiva della
costruzione della reputazione.
L’approccio contabile (Scheutze, 1993; Lev and Sougiannis, 1996; Deng and Lev,
1997 in Fombrun & Van Riel, 1997) si focalizza sul problema della valutazione e misurazione
degli asset intangibili, evidenziando lo scollamento tra i dati contabili di bilancio e l’effettivo
valore di mercato delle aziende. Si sottolinea che, sebbene le spese per R&S, pubblicità,
branding, training siano ampiamente riconosciute come fondamentali per lo sviluppo
dell’impresa, esse si trovano a risultare come costi, mentre gli asset prodotti, tra cui la
reputazione, sono assenti dal bilancio.
Secondo Fombrun e Rindova (1996, in Fombrun & Van Riel, 1997) da una
valutazione congiunta dei risultati di questi diversi studi la reputazione emerge come una
“subjective, collective assessments of the trustworthiness and reliability of firms” avente le
seguenti caratteristiche:
- la reputazione è una caratteristica derivativa e secondaria che risulta dalla
cristallizzazione delle prime mosse dell’azienda;
- la reputazione è il riflesso esterno dell’identità interna dell’azienda (risultato di un
processo di costruzione di senso);
- la reputazione crea barriere alla mobilità propria e dei concorrenti;
- la reputazione sintetizza le valutazioni di diversi soggetti su azioni passate;
- è un meccanismo di semplificazione che, mettendo insieme le immagini che diversi
soggetti hanno dell’impresa, consente loro di avere un’idea della sua generale
attrattività;
- contiene due indicazioni dell’efficacia dell’impresa: le sue performance finanziarie e
la sua responsabilità sociale.
Una definizione complessiva è la seguente:
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“A corporate reputation is a collective representation of a firm's past actions and
results that describes the firm's ability to deliver valued outcomes to multiple
stakeholders. It gauges a firm's relative standing both internally with employees
and externally with its stakeholders, in both its competitive and institutional
environments” (Fombrun & Rindova, 1996, in Fombrun & Van Riel, 1997, p.6).
Nello stesso anno Fombrun definiva la reputazione anche come:
“a perceptual representation of a company's past actions and future prospects that
describes the firm's overall appeal to all of its key constituents” (Fombrun, 1996
in Ingenhoff, & Sommer, 2008).
Fombrun pone l’accento sulla natura collettiva del costrutto della reputazione, e viene
per questo ricondotto alla cosiddetta “scuola relazionale”. Secondo Chun (2005 in Ingenhoff,
& Sommer, 2008), infatti, si possono distinguere diversi paradigmi sulla reputazione a
seconda del tipo e numero di pubblici considerati.
Fombrun prende in considerazione i diversi stakeholder dell’impresa, interni ed esterni, le
loro diverse percezioni e aspettative nei confronti dell’azienda. La reputazione è il risultato
della somma di disposizioni e percezioni individuali dei diversi pubblici dell’azienda, la
somma delle immagini che ciascuno di essi ha costruito per sé della stessa.
Che ruolo ha quindi l’impresa nella costruzione della propria reputazione?
Come sostenuto da Dalton e Craft (2003, p.5) gli stakeholder valutano l’azienda, sulla
base della “loro percezione e interpretazione dell’immagine che la compagnia comunica e del
suo comportamento nel tempo”, una valutazione che dipende naturalmente dall’insieme di
valori, principi in cui essi credono e quindi dalle aspettative che ciascuno di essi nutre rispetto
a un certo tipo di azienda. La reputazione appare così “una valutazione collettiva a lungo
termine dell’integrità di un ente”.
La reputazione non dipende quindi esclusivamente da ciò che l’azienda comunica di
sé, volontariamente o involontariamente, a parole o attraverso i comportamenti, ma anche, in
gran parte, dall’esperienza che i diversi stakeholder hanno con l’impresa, i suoi prodotti,
comportamenti, discorsi, dal modo in cui questi sono interpretati, dalle aspettative che queste
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esperienze formano. A influire è sia l’esperienza diretta dei pubblici con l’azienda che
l’insieme di informazioni sulla sua reputazione fornite da terzi.
È evidente dunque che le aziende possano essere valutate diversamente dai diversi
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pubblici. Inoltre ognuno degli stakeholder rivede e riformula la propria opinione nel tempo,
in ragione di nuovi input, scenari e avvenimenti.
Diversi modelli concordano nell’individuare due fondamentali componenti della
Corporate Reputation: Corporate Identity e Corporate Image. I tre concetti sono
strettamente collegati e parzialmente sovrapposti ma non intercambiabili, sebbene spesso
utilizzati erroneamente in funzione di sinonimi.
Figura 1-1 Corporate Identity e Corporate Image
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Secondo Dalton e Craft (2003) uno degli aspetti più problematici nella gestione della reputazione aziendale è
oggi proprio rappresentato dal conflitto crescente tra gli interessi dei diversi stakeholders. Azionisti,
consumatori, istituzioni, dipendenti, comunità locali hanno interessi diversi, relazioni di natura diversa con
l’azienda, aspettative diverse e interpretano differentemente le scelte dell’impresa, ponendo l’organizzazione di
fronte alla sfida di non compromettere la propria reputazione di fronte a nessuno di essi.
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