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indiscutibile efficacia nel processo di presentazione di sé, ma anche fattori di condizionamento (obiettivi, contesto,
consapevolezza), limiti che ne impediscono un uso completamente controllato, e richiede esigenza di specifiche abilità.
Infine il quinto capitolo riporta informazioni di carattere più strettamente sperimentale, descrivendo i metodi di ricerca e le
scale di misura dei costrutti attraverso le quali sono stati realizzati nel corso degli anni gli studi sulla presentazione di sé.
L’ultimo capitolo descrive ipotesi, metodi e risultati di una ricerca sperimentale che ho condotto su un campione di
studenti universitari per mezzo della distribuzione di questionari. Tale ricerca è volta ad indagare l’uso delle strategie di
presentazione di sé sul campione preso in esame, misurando la relazione tra le strategie di presentazione di sé e
l’autoefficacia percepita in ambito emotivo ed interpersonale.
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CAPITOLO 1
L’evoluzione del concetto di presentazione di sé
L’immagine che noi trasmettiamo attraverso il nostro comportamento è una parte fondamentale della comunicazione nei
nostri rapporti sociali. Essa è frutto della presentazione di noi stessi e del controllo che esercitiamo sulle impressioni che
vogliamo trasmettere.
La presentazione di sé e l’impression management sono argomenti affrontati dapprima in modo teorico da Goffman nella
seconda metà del secolo scorso. Sebbene in principio non siano stati accolti con particolare entusiasmo dagli studiosi
della psicologia sociale, col passare del tempo essi hanno suscitato un interesse sempre maggiore fino ad essere
considerati, oggi, costrutti di indiscutibile rilevanza che giocano un ruolo significativo in ogni tipo di rapporto sociale.
1. ESSERE O NON ESSERE SÉ STESSI? L’IMPORTANZA DELL’IMMAGINE
Le persone nutrono un forte interesse sul come gli altri individui le percepiscono e le valutano. Ogni anno vengono spese
cifre altissime di denaro in diete, cosmetici, cure di bellezza e interventi estetici per ottenere un aspetto migliore, per
apparire più belli agli occhi di chi ci guarda.
Non è possibile sostenere l’inutilità dell’immagine. L’immagine non è tutto; ma certo è molto importante. Essa influisce
sugli altri e anche su noi stessi.
Spesso ci siamo sentiti ripetere di non preoccuparci di ciò che gli altri pensano di noi; “Sii, te stesso!” è un’esortazione
senza dubbio familiare. Eppure altrettante volte i nostri genitori ci hanno istruito sull’importanza di suscitare una buona
impressione e, tentando di controllare il nostro comportamento e farci notare i nostri errori, ci hanno ammonito
chiedendoci: “Che cosa penseranno di te?!”
Ora, mi sento di affermare con certezza che l’impressione che noi suscitiamo negli altri fa la differenza. Ognuno di noi, di
fatto, nelle interazioni sociali, si basa principalmente sull’impressione che riceve dagli altri e risponde a tale impressione
che si può rivelare più o meno accurata. Ogni giorno nei nostri incontri a scuola, al lavoro, a casa, per strada facciamo
affidamento sull’impressione che gli altri ci trasmettono e, a nostra volta, cerchiamo di trasmettere un’impressione di noi
agli altri con l’intento di perseguire i nostri obiettivi. Siamo talmente abituati a formarci impressioni sulle altre persone
badando solo al loro aspetto che nemmeno ne siamo più del tutto consapevoli.
Si può, dunque, affermare che l’immagine è parte integrante della comunicazione umana, se non addirittura
comunicazione stessa. La presentazione di sé viene così a delinearsi come una determinante sana e adattiva della
comunicazione, alla quale deve essere riservata particolare attenzione. Proviamo per un attimo a considerare come
sarebbe la vita sociale nel caso in cui nessuno si preoccupasse del giudizio degli altri: la nostra vita sarebbe sicuramente
peggiore! Questo perchè l’attenzione al giudizio altrui sviluppa dentro di noi precisi limiti di comportamento che
favoriscono la vita sociale e sono indispensabili per lo sviluppo di relazioni strette [DERLEGA, METTS, PETRONIO & MARGULIS,
1993]; le persone che si comportano in modo inadeguato, non attenendosi a questi limiti, risultano, invece, vittime
dell’ostracismo o della denigrazione.
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Ciò non toglie che in diversi casi la presentazione di sé, sebbene componente essenziale delle interazioni sociali, possa
creare difficoltà. Ad esempio, nel caso in cui le persone siano preoccupate in modo esagerato di cosa gli altri possano
pensare di loro, o usino la presentazione di sé in situazioni inappropriate; o, ancora, la presentazione di sé può essere
d’ostacolo allo svolgimento di particolari compiti causando ansia e, di conseguenza, un fallimento nella performance.
Pochi comportamenti umani sono esenti dai motivi di impression management. In alcuni casi l’impression management è
lo scopo principale del comportamento; in altri, la maggioranza, è solo un mezzo per perseguire obiettivi condizionati
dall’impressione che ricavano gli altri di noi.
2. PRESENTAZIONE DI SÉ E IMPRESSION MANAGEMENT
Data l’importanza della percezione altrui nelle interazioni sociali, non dobbiamo sorprenderci del fatto che le persone
siano influenzate da come gli altri le considerino e a loro volta cerchino di condizionarne il giudizio, ovvero di controllare
l’impressione che generano negli osservatori.
La presentazione di sé o impression management non è altro che il processo attraverso il quale gli individui tentano
di controllare la loro impressione sugli altri [LEARY & KOWALSKI, 1990; SCHNEIDER, 1981; SCHLENKER, 1980]. Siccome
l’impressione che si genera negli osservatori ha importanti implicazioni sulla percezione, la valutazione, il modo di
interagire e anche sulla considerazione di sé, le persone spesso si comportano in modo tale da creare volontariamente
una certa impressione sugli altri.
Sebbene molti autori usino il termine impression management e presentazione di sé in modo intercambiabile, altri hanno
distinto i due termini.
Ad esempio, Schlenker [1980] definisce l’impression management come “il tentativo di controllare le immagini progettate
in interazioni sociali reali o immaginarie” e riserva il termine di presentazione di sé per i casi in cui le immagini costruite
sono “pertinenti al sé” [p. 6].
In modo simile, D. J. Schneider [1981] mette in rilievo che l’impressione può essere gestita anche per mezzo di altri
metodi, oltre che con la presentazione di sé. Generalmente, poi, impression management è un termine più ampio e
maggiormente esteso rispetto alla presentazione di sé.
Alcuni teorici hanno suggerito che la presentazione di sé coinvolga non solo i tentativi delle persone di controllare le
impressioni che gli altri si formano su di loro; essi sono anche diretti a controllare le impressioni che gli stessi soggetti
hanno di sé [GREENWALD & BRECKLER, 1985; HOGAN, JONES, & CHEEK, 1985; SCHLENKER, 1985]. In quest’ottica, però, secondo
Leary & Kowlaski [1990], questo concetto può essere definito più specificamente come presentazione di sé al Sé (self-
presentation to self). È necessario, infatti, considerare come le manifestazioni psicologiche di questi due processi siano
spesso piuttosto differenti. Nessun pensiero relativo a sé può potenzialmente essere visto come autopresentazione al sé
poiché, in ogni caso, è frutto di processi cognitivi personali; mentre la pubblica presentazione di sé è esclusivamente a
livello comportamentale, ovvero interpersonale.
Secondariamente, i fattori che motivano e limitano il pubblico impression management e l’immagine personale di
sé si differenziano in molti aspetti: numerosi fattori puramente sociali che condizionano l’immagine pubblica degli
individui giocano un ruolo irrilevante o di scarsa importanza nella conservazione personale dell’immagine di sé.
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Schlenker è riuscito a trovare una possibile via di uscita per riconciliare i due approcci che vedono da una parte il sé e
dall’altra gli altri come pubblico. Egli usa il termine più ampio di identificazione di sé per riferirsi al “processo risultante dal
mostrare a se stessi di essere un particolare tipo di persona, specificando la propria identità” [SCHLENKER,1986, p. 23; vedi
anche SCHLENKER, 1985]. In questa definizione, le immagini pubblica e privata di sé si configurano come sottotipi della
identificazione di sé.
Il modello di Schlenker rappresenta un importante significato per l’integrazione delle analisi concettuali dei processi sia
privati che pubblici, sebbene si renda necessario un ampio lavoro empirico che documenti le loro differenze e le loro
uguaglianze. In ogni caso, nulla nel modello di Schlenker suggerisce che l’identificazione di sé pubblica e privata siano in
qualche modo isomorfe o indistinguibili.
3. CENNI STORICI
3.1. I precursori del concetto di presentazione di sé
In letteratura sono state usate diverse metafore per descrivere il modo in cui gli individui intraprendono l’impression
management. William James [1980] usò la “metafora dei sé multipli” per descrivere il comportamento umano; secondo
James le persone non hanno un unico concetto di sé, bensì vari sé, per mezzo dei quali riescono a mostrare diverse
personalità a seconda delle situazioni.
L’idea dei sé sociali multipli strategicamente mostrati per ottenere l’approvazione dei diversi interlocutori influenzò in
modo evidente i teorici che seguirono, inclusi gli psicologi postmoderni. Questi ultimi credono che “noi non abbiamo un
solo, separato, unificato sé. Essi sostengono che noi nascondiamo molti sé e che la risposta corretta alle esortazioni
‘Trova te stesso’ o ‘Sii te stesso’ sia ‘Quale?’” [STEPHENS, 1992, p. 40].
L’approccio teorico dell’interazionismo simbolico formulò un’interessante teoria della vita sociale. Secondo gli autori
appartenenti a questa scuola, Cooley [1902] e Mead [1934], ogni individuo struttura la propria conoscenza e la propria
percezione di sé sulla base delle relazioni con gli altri. In questo senso, quindi, lo sviluppo del Sé è il frutto dell’immagine
che gli altri ci rimandano di noi stessi ed i loro giudizi sono fondamentali per la definizione di noi stessi.
Il Sé, secondo Cooley, è una costruzione mentale personale prodotta dagli atteggiamenti e dai comportamenti degli altri
nei nostri confronti; in questa visione, la società deve essere intesa come la rappresentazione mentale delle reciproche
influenze fra i vari “io” che la compongono.
Cooley formulò il concetto di rispecchiamento (looking glass self o sé rispecchiato) per indicare quel meccanismo
psicologico grazie al quale noi percepiamo, nella rappresentazione altrui, alcune immagini della nostra esistenza ed
appartenenza ed i giudizi che da questa rappresentazione derivano. In questo senso “esistiamo” e ci “autodefiniamo”
sulla base di quante persone hanno coscienza della nostra esistenza.
Secondo Mead [1934] quello che “io” conosco di “me” stesso - in cui l’”io” è da intendersi come soggetto attivo,
conoscitore, e il “me” come oggetto delle denominazioni degli altri, oggetto della conoscenza - è il risultato delle
percezioni che ho ricevuto nell’interazione comunicativa di ogni giorno della mia vita relazionale. L’”io” e il “me” sono
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entrambi necessariamente connessi con l’esperienza sociale; ma mentre l’”io” è la risposta dell’organismo agli
atteggiamenti altrui, che un individuo assume. Il “me” è la dimensione del Sé maggiormente ricollegabile alla dimensione
sociale.
Per Mead la condizione essenziale per lo sviluppo del Sé è la capacità di assumere il ruolo dell’altro in modo tale da
poter orientare i nostri atteggiamenti in maniera conforme a quelli del gruppo di appartenenza.
È ovvio, di conseguenza, che ogni individuo tende a proporre agli altri una sorta di immagine che definisca, per gli altri, il
nostro ruolo nell’interazione.
3.2. I due maggiori teorici della presentazione di sé: Goffman e Jones
La presentazione di sé è divenuta oggetto di interesse sia per la psicologia sia per la sociologia all’incirca durante lo
stesso periodo, la seconda metà del secolo scorso; sebbene queste due discipline avessero molto in comune, le
sovrapposizioni e le convergenze apparivano fra loro molto deboli: i ricercatori interessati alla presentazione di sé,
tuttavia, si avvalsero dei contributi e delle teorie di entrambe.
Il primo apporto di notevole importanza risale allo studio sistematico del sociologo Erving Goffman che nel 1959
pubblicò un testo intitolato “The Presentation of Self in Everyday Life”. Goffman sostiene che le più importanti scoperte e
spiegazioni sul comportamento sociale possono essere ricavate non dall’analisi dei motivi più intimi delle persone o dallo
studio della loro personalità; ma dall’indagine delle immagini che le persone costruiscono nel presentarsi agli altri.
L’attenzione della ricerca viene quindi spostata sul comportamento sociale manifesto delle persone, al fine di
comprendere le vere cause e caratteristiche non esplicite della personalità.
Nel corso della vita sociale le persone si giudicano l’un l’altra in base all’apparenza, per questo motivo ognuno di noi
presenta in qualsiasi circostanza un’immagine di sé che condiziona il giudizio e la reazione altrui.
Una piena comprensione del comportamento umano può avvenire soltanto prestando l’adeguata attenzione alle
immagini pubbliche. Questa considerazione di Goffman trova pieno consenso nella dichiarazione di Cooley [1902], il
quale sostiene che le immagini che le persone hanno l’una dell’altra siano fatti concreti della società.
Ancora, secondo Goffman, le persone controllano il modo in cui gli altri le trattano influenzando la loro considerazione
della situazione, ovvero: dandogli l’impressione di agire volontariamente, li porteranno invece ad agire in accordo coi loro
obiettivi. Così, quando un individuo si trova a confrontarsi con altri ci saranno di certo alcune ragioni per cui egli
intraprenderà una serie di comportamenti volti a generare in loro un’immagine che gli sia propizia [GOFFMAN 1959].
Goffman, inoltre, sottolinea l’importanza che la presentazione di sé assume nell’interazione sociale; quest’ultima, infatti,
richiede la conoscenza di alcune informazioni sulle persone con cui interagiamo, ad esempio, lo status socioeconomico,
le attitudini, i valori, le competenze e così via.
Poiché, in alcune circostanze, può essere difficile la conoscenza reciproca approfondita, la presentazione di sé gioca un
ruolo fondamentale: l’immagine pubblica offre agli interagenti un’idea su come si aspettano di essere trattati e su come a
loro volta tratteranno con gli altri. Ogni individuo propone agli altri una facciata, ovvero una rappresentazione di sé, che
funziona in maniera fissa e standardizzata e che ha lo scopo di definire l’individuo che propone una certa facciata, di
collocarlo all’interno di un ruolo e di attribuirgli delle caratteristiche chiare. La facciata, secondo Goffman, può essere
ulteriormente suddivisa in: ambientazione, l’ambiente fisico, in cui si svolge l’interazione e che può influenzare
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l’autopresentazione, la facciata personale, che comprende le caratteristiche fisiche che definiscono l’individuo,
l’apparenza, i dettagli che ne indicano lo status sociale, la maniera, la quale comprende tutta quella serie di segnali che
indicano lo stile interattivo che l’individuo sta assumendo come proprio di quella relazione.
Un altro aspetto, preso in considerazione da Goffman, si attiene ai risvolti di una presentazione di sé che non va a buon
fine: nel momento in cui la presentazione di sé viene contraddetta o screditata l’interazione va incontro al fallimento;
sono allora necessarie una serie di misure preventive, al fine di mantenere una buona immagine, e di strategie per
ripristinare l’immagine screditata.
Goffman viene ricordato in particolar modo per il suo frequente ricorso alla cosiddetta metafora teatrale, finalizzata a
rendere più chiaramente l’idea della sua teoria: la vita non è altro che un palcoscenico su cui uomini e donne come attori
recitano la loro parte, parti diverse a seconda del copione.
Nelle sue teorizzazioni Goffman mostra un’acuta osservazione del comportamento umano e una grande perspicacia nel
vedere i processi sociali in una maniera nuova, descrivendoli in modo estremamente affascinate.
All’incirca durante lo stesso periodo in cui Goffman pubblicò “The Presentation of Self in Everyday Life”, lo psicologo
sociale Edward Jones, considerato oggi uno tra i più importanti teorici della presentazione di sé, stava svolgendo uno
studio sull’adulazione, il quale lo portò ad interessarsi alle credenze delle persone sul modo di comportarsi per piacere
agli altri.
Jones si rese conto che le nostre percezioni sulle altre persone sono in parte determinate dai loro tentativi di generare
una determinata impressione di sé. Egli, dunque, arrivò ad affermare che “lo studio dell’impression management e della
presentazione di sé è parte integrante dello studio della percezione interpersonale. Noi non possiamo comprendere
come le persone si considerano, senza, allo stesso tempo, capire le dinamiche che governano la presentazione di sé”
[JONES,1990, p. 170]. Così, dai primi studi centrati sull’ingratiation - come le persone si ingraziano gli altri - e la
formulazione della metafora dello yes-man che usa la strategia del conformismo per essere apprezzato [JONES, 1964], le
ricerche di Jones si spostarono verso tutti gli aspetti riguardanti il processo di presentazione di sé.
Jones fonda le radici dei suoi studi nel behaviorismo di Skinner, considerando come modello della vita sociale l’assunto
comportamentista secondo il quale le altre persone sono per noi una potenziale fonte di ricompense e di incremento del
potere. In tale prospettiva il comportamento sociale appare come frutto di un’interazione finemente strategica.
Gli studi di Jones ci forniscono un’analisi accurata dell’impression management; egli infatti si occupa di definirne
strategie, obiettivi e metodi.
Un confronto tra gli approcci di Jones e Goffman, riguardo alla presentazione di sé, ne mette in evidenza le principali
differenze di metodo.
Mentre Goffman si occupò di illustrare nei suoi saggi narrativi quelle che erano osservazioni antropologiche sul campo;
Jones e i suoi collaboratori progettarono esperimenti di laboratorio diretti a investigare gli specifici fattori che influenzano
la presentazione di sé. Goffman tentò di persuadere i suoi lettori delle sue intuizioni riportando osservazioni e aneddoti;
al contrario, Jones cercò di confermare le proprie particolari ipotesi teoriche attraverso esperimenti controllati.
Il contributo di entrambi questi studiosi non può essere sottovalutato; infatti possiamo ritrovare riferimenti ai loro lavori in
molti degli autori che in seguito si sono occupati dello studio della presentazione di sé.
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3.3. L’iniziale riluttanza verso la presentazione di sé
Fin dall’inizio diversi psicologi, come anche molte persone comuni, mostrarono grande interesse nei confronti della
presentazione di sé. In molti si resero conto che una vasta parte del comportamento umano è influenzato dall’interesse
delle persone sulla considerazione che gli altri individui hanno di loro. Nonostante questo, la presentazione di sé rimase
un’area trascurata ancora per molti anni nelle ricerche sul comportamento e diversi ricercatori si mostrarono riluttanti
nell’approccio alla presentazione di sé. Addirittura, durante il periodo in cui Jones cominciò ad occuparsi della
presentazione di sé, molti tra i suoi colleghi consideravano un tale argomento disonorevole e sconvolgente quanto la
parapsicologia.
Questo disinteresse appare evidente fino ad oggi; infatti, fino a poco tempo fa era molto difficile trovare termini come
“presentazione di sé” o “impression management” nell’indice di molti testi di psicologia sociale della letteratura
anglosassone ed è tutt’oggi difficile ritrovarlo in testi italiani.
Non è facile dare una spiegazione ad una tale resistenza all’approccio sulla presentazione di sé, specialmente se si
considera quanto il comportamento umano sia influenzato da questo costrutto. Alcuni tra i più importanti cultori
dell’argomento (Jones, Tedeschi, Schlneker e Baumeister) hanno fornito quattro possibili spiegazioni di questa riluttanza
che Leary [1995] riporta in uno dei suoi testi più recenti.
Una prima spiegazione si riferisce al fatto che molti psicologi inizialmente considerarono la presentazione di sé come un
argomento legato alla menzogna e alla manipolazione, il lato meno nobile della vita interpersonale. Secondariamente,
durante il periodo che va dalla metà degli anni Settanta alla metà degli anni Novanta, nella psicologia hanno preso il
sopravvento gli interessi legati ai processi soprattutto cognitivi, e quelli relativi all’ambito motivazionale sono passati in
secondo piano. Ancora, nel corso degli anni Settanta, molti ricercatori rimasero scoraggiati dal fatto che i sostenitori della
presentazione di sé proponevano l’impression management come un’alternativa alle già adottate interpretazioni su
numerosi comportamenti interpersonali. In tal modo sembrava che la prospettiva sulla presentazione di sé fosse una
plausibile spiegazione ad ogni cosa.
Infine, sebbene l’approccio degli studiosi alla presentazione di sé fosse scientifico, la discussione sulle strategie della
presentazione di sé spesso risuonava come metodo per manipolare gli altri, argomento principale tra quelli della
psicologia popolare.
3.4. Lo sviluppo dell’interesse nella presentazione di sé
Con il passare del tempo l’interesse per la presentazione di sé divenne più diffuso. Inizialmente la ricerca si è occupata
di identificare i fattori che influenzano il genere di impressioni che le persone tentano di suscitare. In studi più recenti, i
ricercatori hanno studiato variabili come l’effetto dello status, gli scopi interpersonali, le valutazioni delle altre persone e i
feed-back sociali alla presentazione delle persone. In seguito i ricercatori cominciarono presto ad applicare le prospettive
della presentazione di sé allo studio di altri fenomeni psicologici, fino ad arrivare a dimostrare che una grande parte dei
comportamenti è condizionata da come le persone credono di essere considerate.
Durante gli anni Settanta, gli studiosi cominciarono a fornire la presentazione di sé come spiegazione a molti
comportamenti. Ad esempio, J. Tedeschi e i suoi collaboratori proposero che molti comportamenti che originariamente
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venivano spiegati come reazione alla dissonanza cognitiva potevano riflettere l’implementazione di strategie di
presentazione di sé [TEDESCHI, SCHLENKER, & BONOMA, 1971].
La presentazione di sé venne anche applicata alla comprensione di alcuni aspetti dell’aggressività, dell’aiuto, del
conformismo, delle attribuzioni, della presa di decisione nei gruppi, della performance nei compiti, della leadership. Più
recentemente la presentazione di sé è stata offerta come spiegazione ad un insieme di problemi di carattere emotivo e
comportamentale, quali ansia, depressione, vergogna, ipocondria, anoressia e svalutazione di sé. Con l’applicazione allo
studio dei problemi psicologici, l’interesse nella presentazione di sé si e diffuso anche nella psicologia clinica e di
counseling [LEARY & MILLER, 1986].
In seguito all’incremento degli studi che dimostravano che il comportamento è influenzato dal desiderio delle persone di
essere percepite in modo particolare, assumevano sempre più rilievo le spiegazioni e le ricerche sulla presentazione di
sé. Oltretutto molte scoperte erano frutto di osservazioni compiute non soltanto in ambito psicosociale, ma anche in altre
aree della psicologia.
Nella metà degli anni Ottanta era difficile trovare la spiegazione di un comportamento interpersonale in cui la
presentazione di sé non fosse coinvolta [BAUMEISTER, 1982].
Il concetto di presentazione di sé si espanse in modo da divenire il più usato e plausibile in un largo numero di ricerche
sul comportamento. Nel suo libro, “Impression Management”, e in altri scritti, B. Schlenker [1980, 1985; SCHLENKER &
WEIGOLD 1992] dimostra che la presentazione di sé va al di là del tentativo di ricercare approvazione. Essa oggi non è più
considerata una semplice curiosità; ma un potente scopo delle relazioni umane che fa parte della vita quotidiana.
Ora la presentazione di sé viene considerata come un processo fondamentale che regola i processi interpersonali.
Recentemente si possono mettere in evidenza due principali sviluppi in tale settore. Dapprima, E. E. Jones e Pittman
[1982], Schlenker [1980, 1985], Baumeister [1982, 1986], Hogan [1982] e altri hanno contribuito con eccellenti analisi
sull’impression management fornendo sempre maggiore coerenza a quest’area di studi; oggi a questi si sommano le
ricerche di altri autori che si sono occupati di applicare la prospettiva dell’impression management ad una crescente
varietà di fenomeni interpersonali, quali l’aggressività [TEDESCHI, SMITH, & BROWN, 1974; FELSON, 1978; TEDESCHI & FELSON,
1994], il cambiamento di atteggiamento [SCHLENKER, FORSYTH, LEARY, & MILLER, 1980; TEDESCHI, SCHLENKER & BONOMA, 1971], le
attribuzioni a servizio del Sé [WEARY & ARKIN, 1981], i sintomi psicotici [BRAGINSKY, BRAGINSKY & RING, 1969], i comportamenti
nelle interviste di selezione [STEVENS & KRISTOF, 1995], l’inibizione dell’ansia sociale [SCHLENKER & LEARY, 1982], il self-
handicapping [KOLDITZ & ARKIN, 1982], la dissonanza cognitiva [TEDESCHI & ROSENFELD, 1981], i comportamenti legati alla
salute [LEARY ET AL. 1994] e molti altri ancora.
Un’analisi esaustiva e completa di impression management e presentazione di sé, infine, si ritrova in Baumeister [1986],
Cody e McLaughlin [1990], Cupach e Metts [1994], Giacalone e Rosenfeld [1991], Leary [1995] e Rosenfeld, Giacalone e
Riordan [1995].