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localizzazione che, pur presentandosi con una frequenza
temporale diversa, spesso si affianca alla prima.
Si è così deciso di prendere in esame solo alcuni casi aziendali
per i quali il fattore esportazione, da o verso l’Italia, si è rivelato
come elemento sostanziale o, addirittura, ha suscitato scalpore,
come vedremo, in particolare, per il caso Müller. Tale scelta ci è
stata dettata dalla volontà di valutare una situazione reale e vedere
se, alla fine, ci possa essere la possibilità di definire quale sia la
strada migliore da seguire per un’azienda che decida di lanciarsi
su nuovi mercati esteri.
1.1 - Speranze di globalizzazione e disillusione.
A riprova del frequente alternarsi e della compresenza delle
due filosofie (globalizzazione e localizzazione), basta andare a
sfogliare le pagine delle riviste specializzate nel trattare argomenti
quali i consumi, la distribuzione e l’industria italiana in generale.
Non si può fare a meno di avvertire, nelle edizioni dello scorso
decennio, un clima di trepidante attesa dell’anno 1992, anno in cui
tutte le frontiere tra i paesi membri della Comunità Economica
Europea sarebbero state eliminate.
Erano in molti, all’epoca, a sostenere che un tale evento
avrebbe portato al conseguimento di una nuova situazione sociale
ed economica profondamente diversa da quella che allora si
viveva. Molti credevano o speravano in una realtà nuova, fatta di
libera circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e delle
persone.
Si aspirava alla realizzazione di un nuovo mercato allargato in
cui fosse possibile integrare le attività produttive, scambiare
liberamente know-how, instaurare proficue alleanze tra imprese e,
per quanto attiene al mondo della distribuzione, razionalizzare ed
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omogeneizzare gli assortimenti a livello europeo, legandoli
all’omogeneizzazione dei modelli di consumo.
Tornando a sfogliare le stesse riviste, all’inizio degli anni 90,
si può avvertire uno strisciante clima di disillusione: il mercato
non è poi tanto cambiato!
In un’intervista al Dott. Gavotto, allora Amministratore
Delegato dell’Armando Testa International, si legge:
[…] L’ostracismo è destinato a smorzarsi nel tempo, ma
rivela che la decantata globalizzazione è ancora lontana dalla
demagogia dei politici e dai discorsi di maniera che
caratterizzano molti convegni, dibattiti e tavole rotonde dedicate
al 1992. […] I beni di servizio, di status o di recente creazione
possono avere un comune denominatore europeo e, in tempi
brevi, essere pubblicizzati in modo analogo perché consumati
allo stesso modo: auto, detersivi, bevande sono probabilmente tra
i beni più globalizzati. Gli alimentari, invece, hanno ancora una
forte caratterizzazione etnica, dato che ogni nazione ha plasmato
il suo modello alimentare in base ad esigenze nutrizionali nate
dalle diverse situazioni climatiche ed ambientali (Ferrario, 1990:
265).
La situazione dei consumi e della comunicazione, a livello
europeo, ci viene descritta anche da Alemanni (Alemanni, 1991:
156).
Il target della nuova comunicazione, svolta con nuovi mezzi e
portata in una dimensione internazionale, risulta essere un target
allargato in termini numerici e variegato in termini psicologici.
Un possibile sistema imprenditoriale europeo, per i marchi
globali, dovrà cercare maggiore conformità internazionale
attraverso uguaglianze di posizionamento e di comunicazione nei
vari paesi, ma dovrà altresì prepararsi ad affrontare una forte
componente concorrenziale, data dalle piccole imprese operanti
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sul territorio locale e che puntano con decisione su prodotti di
qualità. Inoltre, dovrà sapere che la proiezione internazionale dei
beni e l’accettazione di una campagna internazionale non sono
sicure a priori, in quanto potrebbero andare a scontrarsi con
diverse abitudini e con comportamenti di consumo locali che
potrebbero differire o addirittura essere in contrasto con il
prodotto o con il linguaggio di comunicazione adottato.
Tutto ciò non toglie che un prodotto globale dovrebbe proprio
essere caratterizzato da un’impronta d’internazionalità non solo
concettuale, ma di name, look, funzione. La stessa cosa vale per la
pubblicità, il cui linguaggio deve essere comprensibile ovunque e
comunicare valori universali.
Se all’inizio degli anni 90 si dubitava sul fatto che un’azienda
potesse attuare una severa impostazione globale, alla luce delle
difficoltà d’integrazione tra i diversi stati europei e nonostante
l’abbattimento delle frontiere doganali, negli ultimi anni si è
giunti addirittura a discutere della necessità di flessibilità
nell’approccio ad altri mercati. Tutto questo sembra valere sia per
le aziende che esportano, sia per le società che si occupano di
distribuzione.
Le strategie generali non possono, in genere, essere trasferite
meccanicamente da un paese all’altro, ma devono essere
costantemente riviste alla luce della continua evoluzione dei
mercati e delle preferenze dei consumatori.
È certo che, quando ci si avventura in un altro paese, il primo
tentativo da fare sarà quello di cercare di creare delle analogie e
limitare le differenze ed il personale direttivo dovrà avere una
preparazione manageriale internazionale ma essere a conoscenza
delle singole situazioni locali.
In definitiva, dunque, per quanto riguarda l’esportazione dei
prodotti e la comunicazione che se ne dà sui nuovi mercati, i
teorici del settore economico sembrano giungere a questa
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conclusione: pur perseguendo un’impostazione globale, occorre
mediare con le caratteristiche del mercato attuale che, non la
consentono ancora e quindi occorre ancora, per il momento,
creare e mantenere un difficile equilibrio tra localizzazione e
globalizzazione.
1.2 - Il pensiero accademico
Il rapporto tra localizzazione e globalizzazione non è mai stato
trattato in modo esaustivo.
Le poche ricerche condotte si basano sulla relazione tra
cultura, comunicazione e mercato internazionale e se ne possono
distinguere diversi tipi: parrocchiale, etnocentrica, policentrica,
comparativa, geocentrica, sinergica (Shufer, 1989).
Nessuna di tali ricerche è sufficientemente esauriente. Al
contrario, pare che tra gli studiosi non ci sia accordo su come la
cultura nazionale influenzi il management della comunicazione
tra le varie società e su come questo debba agire in presenza di
una nuova cultura, di un nuovo popolo, di un nuovo mercato da
conquistare (ibidem).
I pochi studi sullo sviluppo delle organizzazioni interculturali
trattano spesso le caratteristiche del mercato americano e non se
ne trovano che trattino delle problematiche europee. Alcune
ricerche danno soluzioni pratiche per una migliore gestione di
operazioni globali svolte all’interno di società multinazionali, ma
nessuna focalizza il nocciolo del problema: localizzazione o
globalizzazione?
Fino al 1983 prevaleva la filosofia del marketing
internazionale, sia a livello accademico sia a livello di business.
Si supponeva che le multinazionali confezionassero i prodotti
ed impostassero la loro campagna comunicativa per mercati
individuali. Nel 1988, le teorie di Levitt hanno fatto si che il
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marketing globale rimpiazzasse quello internazionale. Secondo
tale impostazione, lo stesso prodotto doveva poter essere venduto
nello stesso modo in tutto il mondo in quanto i gusti ed i bisogni
dei consumatori e dei mercati stavano diventando sempre più
omogenei a livello planetario.
Quest’impostazione standardizzata, inoltre, comporta un minor
costo dei prodotti nella fase di produzione, un minor dispendio di
energie e denaro per il packaging e, di conseguenza, un minor
costo generale del prodotto.
Cerchiamo di vedere queste teorie in modo più dettagliato.
1.2.1 - Levitt e la globalizzazione: pro e contro
I pochi documenti rintracciati che trattano di comunicazione a
livello internazionale concordano tutti su alcuni punti già
accennati. Innanzi tutto il considerare la tecnologia come motore
scatenante e trascinante della “globalizzazione culturale”.
Se fino a pochi anni orsono, ad esempio, l’informatizzazione
era dominio di banche, enti e media, ora essa è presente, nelle
case della maggior parte delle famiglie italiane, così come in
quasi tutti i paesi industrializzati. Ma questo processo non
riguarda solo i paesi industrializzati in quanto i nuovi media, i
sistemi satellitari, sempre più alla portata di tutte le tasche,
coinvolgono anche le nazioni più povere che, tramite questa
tecnologia, entrano giocoforza in contatto con le nazioni più
ricche e vengono a conoscenza dell’esistenza di realtà diverse e
più affascinanti.
Ovviamente, ciò che è o diventa desiderabile per americani ed
europei, lo diventerà anche per popolazioni più arretrate.
Molti studi allora investigano questo stato di cose o si pongono
il problema della regolamentazione del flusso comunicativo tra i
vari paesi, dell’evoluzione di quelli più sottosviluppati e della
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salvaguardia di questi ultimi dalla dominazione culturale di quelli
più ricchi (Molefi, Gudykunst, 1989).
Tecnologia significa, però, anche agevolazioni nella vita di
tutti i giorni: dai supporti magnetici che sostituiscono il materiale
cartaceo, denaro compreso, ai trasporti che sono oggi più rapidi ed
accessibili.
Levitt parte proprio da questi presupposti (Levitt, 1983),
dichiarando che anche le popolazioni più arretrate o quelle in
guerra mostrano il desiderio di prodotti più nuovi e più moderni a
dimostrazione del fatto che i bisogni ed i desideri del mondo sono
stati irrevocabilmente omogeneizzati.
Diventa allora fondamentale, economicamente parlando,
impostare le strategie aziendali su quest’ottica di globalizzazione,
standardizzando il più possibile i prodotti che si vendono. A
dimostrazione della validità di questo approccio, Levitt cita come
esempi diverse aziende che hanno già intrapreso questa strada:
Coca Cola, Pepsi, Mc Donald’s, Levi’s, ecc.
Levitt ovvia alla realtà delle differenziazioni etniche, nazionali
ed anche metropolitane, considerando che un segmento di
mercato in un paese ha sicuramente un segmento-parente in
qualche altra parte del mondo. Il competitor globale, comunque,
non dovrà mai allontanarsi dallo scopo di standardizzare la sua
offerta. Invece di disperdere energie e denaro nel tentativo di
accontentare più fasce di consumatori ed i loro singoli desideri, le
corporazioni globali, per essere competitive sul mercato
mondiale, dovrebbero concentrare i loro sforzi su ciò che sanno
fare meglio.
Le differenze culturali, i gusti nazionali, dice Levitt, sono
vestigia del passato; alcune di esse muoiono, altre vengono
fagocitate da più vaste preferenze globali. Levitt, nel corso della
sua analisi, porta l’esempio di prodotti “etnici” universalmente
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riconosciuti ed apprezzati quali la pizza, la cucina cinese e la
musica jazz. Il punto è che non si dovrebbe ascoltare il
consumatore in merito ai suoi gusti o desideri, ma immaginare
quello di cui, in realtà, questi potrebbe aver bisogno o potrebbe
trarre vantaggio dall’avere.
Il grande fattore a vantaggio della standardizzazione è che essa
consente di contenere, a volte in misura notevole, i costi. Non
occorrono, infatti, né molte analisi di mercato, né ricerche sul
prodotto, né diversi packaging, né una diversa comunicazione.
Secondo Levitt, il consumatore ricerca soprattutto un prezzo
contenuto, anche se magari nelle interviste sostiene il contrario.
Egli ricerca un maggiore potere di spesa e continue agevolazioni
nella conduzione della propria vita quotidiana; di conseguenza, è
sempre più incline a servirsi dell’operato delle macchine
automatiche e delle tecnologie che in sostanza gli possano
regalare più tempo libero.
Ad ogni modo, sottolinea Levitt, basso prezzo non si oppone
ad alta qualità, quindi non si parla di speculazioni su prodotti
scadenti. In generale le grandi Aziende globali, col loro operato,
devono cercare di piallare le differenze esistenti in modo da
portare i consumatori ad esigenze ed obiettivi comuni.
Le teorie di Levitt hanno destato non poco scalpore e le
posizioni che le Aziende, gli opinionisti e gli esperti di marketing
hanno preso nei loro confronti, spesso hanno toni accesi,
indipendentemente dal fatto che siano ad esse favorevoli o
contrarie.
Boddewyn, cerca di analizzare obiettivamente se nell’arco di
un decennio, dal 1973 al 1983 più una proiezione fino al 1988, la
realtà si sia evoluta effettivamente nella direzione della
formazione del famoso villaggio globale (Boddewyn, 1986).
Anch’egli deve riscontrare la carenza di studi in tal senso ed il
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fatto che quelli rintracciati si basano tutti sull’ambito americano,
tuttavia individua alcune variabili che si possono seguire
nell’analisi.
Egli distingue, innanzi tutto, tra beni non durevoli, quali gli
alimenti, beni durevoli, quali i piccoli e grandi elettrodomestici e
beni industriali. La seconda distinzione che opera è il considerare,
variabili come il prezzo, la qualità, la pubblicità e l’assortimento.
Le analisi svolte nell’arco di tempo accennato e le proiezioni
sugli anni futuri a tale intervallo, dimostrano che, effettivamente,
c’è un progressivo avvicinamento alla produzione standardizzata
di beni, ma ci sono altresì altri aspetti che vanno considerati e
diverse distinzioni da operare e sottolineare.
In primo luogo, c’è da dire che questo trend di
standardizzazione non è stato così accentuato come sembrava
dovesse essere. In secondo luogo, le variabili suesposte non sono
evolute verso la standardizzazione nello stesso modo e con le
stesse tempistiche.
Per quanto riguarda i beni non durevoli, la standardizzazione
risulta più difficoltosa in quanto si tratta di cambiare, a volte in
modo molto marcato, abitudini e gusti nazionali.
Per quanto attiene, invece, ai beni durevoli, il processo appare
più facile, essendo supportato dalla tecnologia che,
effettivamente, traina verso l’omogeneizzazione dei mercati.
Per i beni industriali, infine, la standardizzazione è quasi
completa in quanto vengono prodotti sfruttando le economie di
scala, quindi a costi minori, e per un utilizzo funzionale che non
richiede un particolare sforzo di adattamento; si pensi, ad
esempio, ai mobili per ufficio.
Contro la standardizzazione giocano, in ordine d’importanza,
le differenze nazionali (gusti, abitudini, regolamentazioni ed
equipaggiamento tecnico), la concorrenza di altri paesi e la
floridità o meno delle condizioni economiche.
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Questi fattori, secondo Boddewyn, hanno ancora troppo peso e
non rendono attuabili strategie globali. La pubblicità è, di solito,
la variabile più resistente all’uniformità. Ciò è dovuto,
probabilmente, al fatto che essa è il punto di collegamento
intermedio tra la produzione e la ricezione dei prodotti e delle
idee.
Boddewyn contesta Levitt sul piano del risparmio economico
in quanto, dalle sue ricerche, emerge che il prezzo vantaggioso
non è una priorità per i consumatori. Prima vengono la qualità e
l’assortimento. Egli conclude poi con un parere che non possiamo
non condividere: mentre la competizione globale è ormai una
realtà per molte Aziende, la standardizzazione non è
necessariamente un dovere da assolvere per fronteggiarla. A
sostegno di ciò valga il fatto che, dalle proiezioni per il 1988 ad
oggi, sono trascorsi più di dieci anni e non ci sembra che la
situazione attuale si discosti in modo marcato da quella che
Boddewyn ha studiato e descritto.
Nonostante questo, le Aziende continuano a lavorare con
un’impostazione globale o meno. Sarà dai risultati delle nostre
analisi che potremo esprimere un giudizio sulla validità o meno
della filosofia di globalizzazione delineata.
Al di là delle teorie di Levitt e Boddewyn, vorremmo ora
vedere i problemi che incontra il marketing in una gestione
d’impronta globale.
Quelch e Hoff, sostengono che è ovvio che, per un’azienda che
operi su più paesi, sia preferibile avere un’unica linea di
conduzione ed un’unica immagine comunicata, in quanto ciò
porterebbe ad un enorme risparmio di energie e denaro (Quelch,
Hoff, 1986). La questione non è quindi se essere o non essere
“globali”, ma è su come gestire un marketing globale per adattarlo
al business e farlo funzionare.
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Dagli esempi che danno, si evince che non esiste una regola
fissa. Coca Cola, ad esempio, è molto accentratrice e lascia poca
autonomia, mentre Nestlè, all’opposto, lascia molta autonomia
alle sue filiali nel mondo.
Quelch e Hoff osservano che il marketing è una delle funzioni
del business cui viene lasciata più libertà di operare, molta più di
quanta non ne venga lasciata alla produzione, alla ricerca e
sviluppo ed alla parte finanziaria dell’azienda. Se, infatti, è
preferibile avere un solo prodotto per tutti i mercati, per
compensarne l’accettazione, specie all’interno delle filiali
dislocate all’estero, è indicato lasciare ampio respiro al marketing
per consentirgli di gestire direttamente tale prodotto su un
mercato locale.
Di solito, tanto più i mercati sono ampi, tanto maggiore sarà la
resistenza ad accettare le imposizioni di stampo globale della casa
madre da parte dei responsabili locali.
Quelch e Hoff consigliano di vertere verso nuove impostazioni
in modo graduale onde evitare il rischio, reale, che le filiali le
ignorino o non siano sufficientemente aggressive nell’applicarle.
La sede centrale deve sempre confrontarsi con il management
locale e cercare d’instaurare un clima di cooperazione di gruppo
ed un buon dialogo.
Se aspetti come il logo ed il packaging sono fattori critici per
un’immagine universale e, in quanto tali, decisi dalla casa madre,
è sempre meglio lasciare alle filiali decentrate ampi gradi di
libertà su altri aspetti. È anche per questo motivo che il marketing
e la pubblicità sono meno inclini a piegarsi ad una logica globale.
Come abbiamo visto nell’analisi dell’opera di Boddewyn, si
può dire che la pubblicità e il marketing siano forme artistiche
(Diaz, 1985), perché devono coinvolgere consumatori, nel caso
specifico, di diverse culture, con appelli sia razionali sia
emozionali. Per operare su scala internazionale occorre che
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abbiano una solida base: un chiaro ordine ed una chiara
comunicazione interni, un linguaggio uniforme, un comune punto
di referenze.
Esistono tre sistemi di pubblicità adottati per l’estero:
− L’expert advertising che è la forma più vecchia di
pubblicità internazionale. In questo sistema, le decisioni
vengono prese dalla direzione e le agenzie preparano il
materiale che viene poi spedito ai vari mercati.
− Il national advertising in cui ogni paese/mercato determina
i propri bisogni ed è quindi indipendente dalla casa madre.
Il rischio insito in questo sistema è quello di discostarsi
troppo dalle direttive di base o, addirittura, quello di
andarvi contro.
− L’international advertising che si sviluppa secondo linee,
prestabilite dalla direzione, che seguono variabili regionali
o etniche. Vengono individuate tante zone, raggruppando i
paesi, secondo determinate caratteristiche distintive e
l’advertising può essere più o meno centralizzato.
Ad ogni modo, anche se sarebbe conveniente per tutti arrivare
alla situazione globale delineata da Levitt, questa possibilità non
esiste in via universale. Solo se più variabili sono simili tra vari
paesi, sarà ovvio tentare la via della standardizzazione che, in
questi casi, può davvero funzionare.
Per Diaz, comunque, la parte del leone la fa’ la pubblicità in
quanto, per colpire il bersaglio essa deve assorbire la cultura del
mercato-obiettivo, i suoi problemi, le sue opportunità, capire la
sua tecnologia e le sue esperienze, analizzarne gli elementi di
unicità e, cosa fondamentale, parlare la sua stessa lingua.
Egli, a tal proposito, sottolinea la delicatezza della questione
linguistica perché una singola parola, un brand name o un product
name, può suonare male se tradotto nella lingua locale o, se non
tradotto, può risultare impronunciabile o incomprensibile.
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Oltre a tutto questo, c’è da dire che anche il design, il logo ed i
colori non hanno le stesse valenze in tutto il mondo. La cosa
fondamentale è il cercare di avvicinarsi, quanto più sia possibile,
al consumatore finale che non sempre è “omologabile” a quello di
altre nazioni.
Dunque non esiste solo il problema di vendere un determinato
prodotto unico in tutto il mondo, ma esiste anche quello di
comunicarlo, che è il problema che c’interessa maggiormente.
Abbiamo visto come, economicamente parlando, sarebbe
preferibile, oltre che più vantaggioso, esportare gli stessi prodotti
in tutto il mondo.
Anche parlando in termini di comunicazione (includendo in
essa anche questioni “intermedie” tra settore economico-
produttivo e comunicativo, come il problema del packaging),
risulterebbe più redditizio esportare gli stessi spots, le stesse
confezioni, gli stessi redazionali, ecc.
Allo stesso tempo, però, abbiamo anche visto che il marketing
e la comunicazione rimangono gli aspetti aziendali più liberi.
Nondimeno abbiamo notato che a tali aspetti gli operatori delle
filiali delle multinazionali dislocate in tutto il mondo rimangono
saldamente attaccati perché, appunto, permettono loro una
maggiore autonomia decisionale dalla Direzione Centrale e,
conseguentemente, una maggiore soddisfazione personale.
La valenza di queste situazioni ci apparirà in tutta la sua
chiarezza quando prenderemo in esame le strategie di alcune
Aziende che operano a livello internazionale.