2Infine vi è la consapevolezza nell’utilizzare gli strumenti informatici: l’introduzione del
calcolo elettronico ha permesso di lavorare con una quantità di dati sempre maggiore e ha
consentito di applicare procedure che, altrimenti, sarebbero rimaste “lettera morta”. Perciò la
gestione consapevole delle tecniche offerte dai softwares è un elemento necessario per
raggiungere risultati concreti sul piano sostanziale.
In questo lavoro sono stati applicati alcuni procedimenti di clustering a files dati di
natura sociologica, cercando una continua tensione dialettica tra teoria e prassi, tra la fase
della formulazione delle ipotesi e il controllo empirico delle stesse.
La tesi si articola in quattro capitoli. I primi due sono di natura teorica; negli altri due si
presenteranno i risultati di alcune applicazioni di classificazione.
Nel primo capitolo si focalizzerà l’attenzione sul concetto di classificazione,
sottolineandone l’ampiezza terminologica e denunciando lo scarso rigore con cui alcune
denominazioni vengono utilizzate. Vi sarà una panoramica introduttiva dalla quale si potrà
comprendere la vastità del tema trattato, e la vivacità del dibattito sociologico sull’argomento.
Una delle questioni più interessanti si troverà nella distinzione fra il piano concettuale e
quello empirico: alcuni autori vedono tale distinzione come una frattura insanabile, altri
sottolineano la possibilità di un connubio tra i due momenti.
Dopo l’ampia panoramica introduttiva verranno descritti gli strumenti per la
classificazione automatica. Questo capitolo avrà un’impostazione particolare: data
l’abbondante letteratura riguardante la classificazione, si è deciso di concentrare l’attenzione
sugli elementi e gli aspetti più innovativi, o su quelli generalmente ignorati.
Gli argomenti trattati saranno molti: dalle tecniche di clustering tradizionali a quelle
sfocate, dal modello delle classi latenti all’utilizzo delle reti neurali artificiali. Ci si renderà
conto che gli strumenti più diffusi e utilizzati sono solo un goccia in un mare di alternative
possibili.
Verranno esaminati molti principi teorici, ma l’occhio alla ricerca empirica sociologica
sarà sempre presente, e spesso ci si interrogherà sull’effettiva utilità di alcune procedure.
La seconda parte del lavoro è di natura empirica. In un capitolo si lavorerà con dati
ecologici, nell’altro con dati individuali sperimentando, così, le differenze tra questi due tipi
di dati, ed evidenziando il modo in cui cambia l’intervento del ricercatore.
Lavorando con dati ecologici si metterà alla prova un particolare tipo di strategia mista,
valutandone l’efficacia; inoltre verrà paragonata una classificazione semisfocata con una
tipologia classica.
3Invece, nella classificazione dei dati individuali, l’attenzione sarà concentrata
soprattutto sui criteri per la scelta del numero dei gruppi.
In questo secondo capitolo la riduzione della complessità sarà duplice: infatti si farà un
uso integrato di un’analisi delle corrispondenze multiple (sintesi delle variabili) e di una
cluster analysis (sintesi dei casi). E’ importante saper gestire molte tecniche d’analisi dei dati
perché, in una ricerca concreta, l’utilizzo di più tecniche in successione è un fatto frequente.
Questo lavoro non va letto con l’ottica del risultato, l’attenzione deve essere posta sulle
procedure con cui tale risultato è stato conseguito, sulle scelte compiute, sul modo in cui si
sono fatti i confronti.
Non si è avuta la pretesa di migliorare classificazioni già esistenti, né la volontà di
studiare un particolare fenomeno sociale, bensì si è scelto di sottolineare le questioni con cui
un ricercatore sociale deve confrontarsi in un problema concreto di classificazione.
I termini utilizzati in questa tesi seguono le definizioni concordate dal comitato
editoriale della collana “metodologia delle scienze umane”.
Alla fine di questo lavoro mi sento di ricordare e ringraziare alcune persone che, più o
meno direttamente e consapevolmente, mi hanno accompagnato in questo cammino e aiutato
nel raggiungere tale traguardo. Fra tutti vi sono i miei genitori, e ancora gli amici
dell’Università con cui ho condiviso tanti momenti.
Un pensiero speciale è per Wayne per la sua costante e fondamentale presenza.
Grazie a Francesco Middei per la sua disponibilità completamente disinteressata.
Ultimo ad essere citato, ma sicuramente il più importante, è il mio professore Giovanni
Di Franco. Mi ha dedicato giornate intere insegnandomi a fare le cose prima che a fare una
tesi. Ora io so, e so fare molto più di prima, e questo è venuto da lui.
4Capitolo 1
LA CLASSIFICAZIONE COME ATTIVITA’ SCIENTIFICA
1. LA CLASSIFICAZIONE E’ PARTE DELLA CONOSCENZA
La classificazione accompagna sempre la conoscenza umana; anzi, si può dire che essa
sia un aspetto imprescindibile del momento cognitivo. L’uomo, infatti, non si accontenta mai
di studiare il singolo evento; spesso la sua curiosità va oltre ciò che è unico e si confronta con
la varietà, il disordine del mondo. E’ proprio in questa sede, cioè nell’analisi del molteplice,
che interviene quella naturale propensione al confronto, a raggruppare ciò che è simile, a
creare categorie mentali. La classificazione serve all’uomo per cristallizzare, in maniera
convenzionale, una realtà sempre cangiante, per affrontare la totalità e renderla intelligibile.
L’operazione di classificazione viene sperimentata quasi istintivamente da parte dei
bambini. Piaget (1959) ha descritto tale esperienza distinguendola in tre fasi: essa comincia
con il riconoscimento delle somiglianze tra coppie di oggetti, culminando con la
comprensione del concetto di gerarchizzazione, e con la capacità di costruire forme isomorfe.
Tali strutture, ovviamente, non esistono in sé: esse sono l’espressione della nostra capacità di
categorizzare (Gil, 1981).
La tendenza a classificare è una facoltà umana. Essa è propria del bambino e
dell’adulto, dell’uomo comune così come dello scienziato. Le scienze, infatti, si basano
sull’ipotesi che esista un ordine dei fenomeni e che l’uomo possa comprendere tale ordine.
Dunque il raggruppamento dei fenomeni e la spiegazione di tale classificazione sono il
sintomo dell’esistenza di un livello di conoscenza all’interno di una disciplina (Tiryakian,
1968). Lo scienziato si trova spesso di fronte a un’ingente mole di dati, per affrontarli è
costretto a ignorare i particolari, e ad organizzare il suo materiale distinguendolo in categorie.
52. LA CLASSIFICAZIONE NELLE ALTRE DISCIPLINE E’ UNA FONTE
IMPORTANTE PER LA SOCIOLOGIA
Abbiamo appena evidenziato che nell’uomo è sempre stata viva l’esigenza di catalogare
i fenomeni della realtà; Bottéro (1974) sottolineava la propensione dei Sumeri ad analizzare e
ordinare, il loro interesse per la compilazione di liste, per la classificazione, e i dizionari
(Gil,1981). E questa stessa passione la ritroviamo nei Greci, con gli importanti contributi di
Aristotele, nelle raccolte medievali, nelle enciclopedie, e così via fino ad arrivare alle scienze
moderne, sia naturali che umane.
In questa sede non possiamo elencare tutte le esperienze di classificazione che hanno
attraversato le discipline. Sarà opportuno, però, evidenziare, a grandi linee, quali sono le fonti
che hanno fatto da sfondo alla tradizione tipologica delle scienze sociali.
Tiryakian (1968) suggerisce prevalentemente quattro spunti.
Il primo approccio lo si può rintracciare nell’ambito degli studi anatomici, e trova in
Ippocrate (460a.C.-377a.C.) un importante esponente. Egli formulò l’esistenza di un tipo
normale, teorico, definito “sano”, e in base ad esso distinse due tipi patologici (il tisico e
l’apoplettico) che si discostavano simmetricamente dalla media: ogni tipo manifestava una
predisposizione per uno stato deviante di salute. L’esperienza di Ippocrate ha dato l’avvio a
tutti quegli studi “costituzionali” che cercarono di collegare il tipo di struttura fisica con le
propensioni verso certi comportamenti: ricordiamo, per esempio, le ricerche di Lombroso
(1876) sui comportamenti criminali o dell’americano Sheldon (1940).
Un’altra tradizione è quella degli studi sulla personalità ed il carattere. A questo
proposito possiamo citare il lavoro di Platone (387a.C.-366a.C.) che, nella Repubblica,
individuava una tipologia della personalità e della struttura sociale composta da cinque tipi, e
gli studi di Aristotele (384a.C.-322a.C.), volti alla creazione di una tipologia del carattere
sociale.
Più recentemente possiamo ricordare la teoria delle due personalità politiche di Pareto
(gli astuti e i violenti); e ancora Adorno e altri (1950) che trovarono nella “personalità
autoritaria” il punto di congiunzione fra due tipi apparentemente opposti: l’accondiscendente
e il prepotente.
La terza fonte è costituita dalla teologia, con gli studi dei simboli presenti nel Vecchio
Testamento; ma soprattutto con la distinzione fra sacro e secolare proposta da S. Agostino,
che probabilmente ha ispirato illustri sociologi quali Toennies (1887) e Durkheim (1893).
6Infine, è nelle scienze naturali che la classificazione ha trovato una forte diffusione
poiché molti scienziati cercarono di ordinare i fenomeni del mondo circostante. In questa sede
sarà opportuno citare solamente alcuni fra i più importanti studiosi.
Anche qui Aristotele diede un importante contributo poiché applicò una classificazione
in successione concatenata e introdusse la distinzione tra il genere e la specie: per questo si
può affermare che egli sia il padre della tassonomia (per una definizione del termine si
rimanda al par. 3). La classificazione delle piante di Alberto Magno fu, nell’antichità, tra le
più rigorose nel rispettare i requisiti aristotelici (Gil, 1981).
Linneo (1753), naturalista del settecento, si propose di classificare tutti e tre i regni della
natura; introdusse la nomenclatura binomia, ancor oggi adottata, in cui il genere è indicato
con un nome e la specie con un aggettivo. In questo modo pose fine al disordine
terminologico e contribuì al progresso della botanica e della zoologia.
Un altro importante scienziato fu George Cuvier (1769-1832), uno dei fondatori
dell’anatomia comparata; egli enunciò la leggi della correlazione e della subordinazione delle
parti: la sua metodologia ha posto le basi per l’analisi struttural-funzionale della sociologia.
Negli ultimi anni, ai tradizionali metodi di classificazione, si sono aggiunte tecniche di
classificazione quantitative, sviluppate rapidamente anche grazie allo sviluppo della
tecnologia informatica che ne permette l’applicazione. Le procedure di cluster analysis hanno
trovato un terreno molto fertile nelle scienze naturali poiché, in quest’ambito, lo studio della
classificazione ha sempre ricevuto una forte attenzione.
Infatti, è in biologia che viene proposta la fondamentale distinzione fra gruppi politetici
e monotetici. Essa è stata definita da Beckner (1959), ampiamente condivisa da Sokal e
Sneath (1963; 1973), e utilizzata da Bailey (1973) allo scopo di creare una tipologia estesa
(vedi par. 5.6).
Nel lavoro The biological way of thought Beckner si esprimeva così:
“Una classe è ordinariamente definita riferendoci ad un insieme di proprietà che sono sia
necessarie che sufficienti (per stipulazione) per l’appartenenza alla classe. E’ possibile
definire un gruppo K nei termini di un insieme G di proprietà f1, f2, f3,… fn, in una maniera
differente. Supponiamo di avere un’aggregazione di individui (non li chiameremo ancora
classe) cosicché:
1) Ognuno possiede un gran (ma non specificato) numero di proprietà in G.
2) Ogni f in G è posseduta da un gran numero di questi individui;
e
73) nessuna f in G è posseduta da ogni individuo dell’aggregato.”
(1959, p. 22, n.t.).
Le classi monotetiche non rispettano nessuna delle tre condizioni elencate; esse sono
perfettamente omogenee perché, per appartenervi, ogni caso deve condividere tutte, nessuna
esclusa, le caratteristiche stabilite per convenzione. In una tipologia monotetica “ogni
caratteristica è necessaria e l’insieme di esse è sufficiente” (Bailey, 1989, p.2188, n.t.) per
stabilire l’appartenenza ad una classe.
Invece vengono chiamate classi politetiche quelle che rispettano la prima e la seconda
condizione; mentre sono definite pienamente politetiche (fully polithetic) quelle classi che
rispettano anche la terza condizione. Quindi in una tipologia politetica nessuna proprietà è
necessaria o sufficiente per stabilire l’appartenenza di un caso ad una classe. Qui vengono
posti nel medesimo gruppo gli individui che hanno molte caratteristiche in comune, così da
formare classi il più possibile omogenee.
Come detto precedentemente la cluster analysis ha trovato nella biologia il contesto
adatto per il suo inserimento. Ma essa ha anche portato con sé una vera rivoluzione: gli studi
tipologici, in biologia, avevano sempre privilegiato una prospettiva diacronica poiché gli
organismi venivano classificati in base al loro sviluppo evoluzionistico; mentre la cluster
analysis presenta un’impostazione essenzialmente sincronica poiché stabilisce
raggruppamenti sulla base delle somiglianze attuali (Sokal e Sneath, 1963).
3. LA NECESSITA’ DI UNA CHIAREZZA TERMINOLOGICA
E’ molto importante dare una definizione precisa dei termini classificazione, tipologia e
tassonomia, solo così si potrà evitare di usarli in modo intercambiabile.
L’attività classificatoria più semplice è quella che avviene in base ad un solo criterio; da
questa operazione deriva un elenco di classi. Spesso si utilizza il termine classificazione per
indicare sia il procedimento che il suo prodotto, ma alcuni autori, fra i quali Marradi (1990) e
Fox (1982), hanno sentito l’esigenza di distinguere tali momenti anche a livello
terminologico, infatti utilizzano la denominazione schema di classificazione per indicare il
risultato finale del processo di classificazione.
Una classificazione corretta deve rispettare i fondamentali principi della logica classica:
la mutua esclusività in base alla quale un oggetto non può appartenere a due classi
8contemporaneamente, e l’esaustività per cui tutte le classi devono contenere la totalità degli
elementi. Se tali principi vengono rispettati, ogni elemento dello schema di classificazione
verrà collocato in una ed una sola classe (per ulteriori approfondimenti si rimanda al cap. 2).
Marradi (1990) utilizza il termine fundamentum divisionis (il fondamento della
divisione) per indicare il criterio rispetto al quale si effettua la classificazione.
Quando il procedimento classificatorio avviene simultaneamente rispetto a più criteri
allora si dà luogo ad una tipologia. Essa non è una serie unidimensionale di classi, bensì un
insieme di tipi, ognuno caratterizzato da k-dimensioni (se k è il numero di proprietà
considerate).
Per esempio, si può pensare di costruire una tipologia partendo dal concetto generale di
elettore e utilizzare il sesso e il partito preferito come aspetti in base ai quali distinguere. Così
si raggiungerà un insieme di tipi: ognuno di essi è il frutto dell’intersezione delle due
proprietà considerate; una delle combinazioni possibili è quella del tipo maschio che vota per
i DS.
Per i tipi, così come per le classi, valgono i principi della mutua esclusività e
dell’esaustività.
Uno schema di classificazione ed una tipologia possono derivare da un raggruppamento
di elementi, ma anche da un attività di ritaglio concettuale (Marradi, 1990). Hempel (1936),
Barton (1955) e Lazarfeld (1951) hanno ampiamente affrontato il tema della tipologia intesa
come prodotto logico (vedi par. 4).
La tassonomia è il prodotto di una classificazione che utilizza più criteri, non
simultaneamente, bensì in successione. Essa è una struttura gerarchica in cui è fondamentale
conoscere l’ordine con cui sono stati utilizzati i criteri: invertendo l’ordine cambia il risultato.
Ogni singolo passaggio, dal genere alle specie che gli corrispondono, avviene
rispettando le medesime le regole della classificazione, poiché essa è una classificazione a
tutti gli effetti; però le specie ottenute nel primo passaggio diventeranno generi nella tappa
successiva, e subiranno anch’esse un’articolazione. Le categorie che si ottengono da
quest’operazione prendono il nome di taxa; si collocano ad un medesimo livello di generalità
quei taxa che sono specie dello stesso genere.
Per esprimere il livello di generalità di un taxon è necessario introdurre il concetto di
rango (Gil, 1981): esso è il numero di passaggi che si è dovuto compiere lungo un ramo della
tassonomia per raggiungere quel taxon (Marradi,1990).
9La logica della tassonomia trova il suo precursore in Aristotele (384a.C.-322a.C.): nel
classificare gli animali seppe separare i gruppi dai sottogruppi, assicurandosi che il criterio
fosse unico e ben definito per ogni livello (Gil, 1981).
Bailey (1989) fornisce una definizione diversa della tassonomia: egli condivide la
posizione di Simpson secondo cui essa “…è lo studio teorico della classificazione, includendo
le sue basi, i suoi principi, procedure e regole.” (1961, p.11 n.t.).
4. LE TIPOLOGIE: L’IMPORTANTE CONTRIBUTO DI LAZARFELD E
BARTON
Come si è detto precedentemente la tipologia nasce da una operazione d’intersezione di
attributi; tale prodotto logico crea uno spazio semantico strutturato che è stato
concettualizzato per la prima volta da Hempel e Hoppenheim nel 1936, e ampiamente trattato
da parte di Lazarfeld (1951) e Barton (1955): esso è chiamato property space (spazio
d’attributi).
Si può immaginare lo spazio d’attributi come uno spazio in cui ogni caso sia
rappresentato da un punto. La posizione del punto dipende dagli stati che il caso ha assunto
rispetto alle proprietà considerate; lo spazio avrà tante dimensioni quanti sono gli attributi in
base ai quali si effettua la classificazione.
Se trattassimo solo variabili cardinali allora lo spazio d’attributi sarebbe qualcosa di
simile ad un piano cartesiano. Ma poiché spesso, nelle scienze sociali, si lavora con variabili
categoriali, allora sarà più adeguato immaginarlo come un sistema di caselle, che ci mostra
tutte le combinazioni che si possono ottenere quando si suddivide l’estensione di un concetto
basandosi su più di un criterio. Oppure, adottando una prospettiva empirica, quando si parte
da un insieme di casi e si formano dei sottogruppi in base a due o più variabili.
Per esempio, possiamo distinguere gli studenti in base al sesso e al titolo di studio
(nessun titolo, diploma inf., diploma sup., titolo universitario). Queste due caratteristiche
danno luogo a otto combinazioni: sono i tipi che formano la tipologia messa in evidenza dallo
spazio d’attributi rappresentato nel modo seguente:
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Tab. 4.1 – Rappresentazione grafica di uno spazio di attributi individuato dalle variabili sesso e titolo di studio.
No titolo Diploma inf. Diploma sup. Laurea
Maschi 1 2 3 4
Femmine 5 6 7 8
Il numero di proprietà rispetto alle quali si costruisce uno spazio d’attributi può essere
maggiore di due. E’ sempre possibile rappresentare graficamente tale costruzione; anzi è
proprio in queste situazioni più complesse che cresce l’esigenza di una rappresentazione
grafica di uno spazio d’attributi. Uno spazio d’attributi con più di due dimensioni viene
rappresentato attraverso tabelle a due o più piani (Barton, 1955).
Precedentemente si è diviso un campione di studenti in base a due variabili (sesso e
titolo di studio); se volessimo aggiungere a queste dimensioni anche il reddito della famiglia
di provenienza (reddito alto o basso), allora lo spazio di attributi diventerebbe
tridimensionale, ma lo si potrebbe comunque proiettare su uno spazio a due dimensioni. In
questo caso ci troveremo davanti ad una tabella a due piani poiché la variabile reddito è in
forma dicotomica:
Tab. 4.2 – Rappresentazione grafica di uno spazio d’attributi individuato da tre variabili (sesso, titolo di studio e
reddito familiare) tramite un tabella a due piani.
REDDITO FAMILIARE ALTO
No titolo Diploma inf. Diploma sup. Laurea
Maschi 1 2 3 4
Femmine 5 6 7 8
REDDITO FAMILIARE BASSO
No titolo Diploma inf. Diploma sup. Laurea
Maschi 9 10 11 12
Femmine 13 14 15 16
Dopo aver parlato della costruzione di uno spazio d’attributi, sarà necessario descrivere
le operazioni di riduzione e ricostruzione.
La riduzione è quell’attività che segue la costruzione dello spazio d’attributi: è da questa
che nasce una tipologia. Essa avviene quando facciamo rientrare in un’unica classe
combinazioni diverse o quando ne eliminiamo alcune; quindi è un’operazione di selezione,
11
sintesi e accorpamento. Se ne distinguono per lo meno tre tipi: funzionale, arbitraria-
numerica e pragmatica (Lazarfeld, 1951).
Si può applicare una riduzione funzionale quando esiste un rapporto effettivo tra le
proprietà che sottendono la tipologia. In tal caso il numero delle combinazioni si può ridurre
perché, praticamente, alcune di esse si escludono a vicenda; oppure si verificano così
raramente che non necessitano di una classe che le rappresenti.
Per esempio, se in una nazione in cui è vietato alle donne lo svolgimento del servizio
militare si vuole classificare un campione di individui in base al sesso e alla condizione
lavorativa, allora la combinazione “donna/militare” dovrà essere eliminata, poiché nessun
caso potrà mai appartenere a quella categoria.
La riduzione arbitraria numerica è quella che si utilizza spesso nella costruzione degli
indici. Dapprima si classifica ogni caso del campione rispetto a più proprietà, in modo che
ognuno di essi abbia determinati stati su ogni variabile; e poi si sommano tali stati (con
un’eventuale ponderazione di alcune variabili): si ottiene così una misura sintetica per ogni
unità.
La riduzione arbitraria numerica riguarda sia le variabili categoriali che quelle cardinali.
Quando le variabili sono cardinali lo spazio di attributi viene immaginato come un piano
cartesiano in cui sono proiettati dei punti: in questo caso saranno considerati equivalenti quei
punti che hanno la stessa somma delle coordinate (Barton, 1955).
Nella riduzione pragmatica le combinazioni vengono accorpate per formare delle classi
più ampie. Il criterio in base al quale si esegue il raggruppamento dipende dalle esigenze della
ricerca e dalle ipotesi che si vogliono controllare; ma anche il numero dei casi collocati in
ogni combinazione (criterio numerico) ha un peso notevole: il ricercatore dovrà conciliare
questi fattori, anche se, ovviamente, si può far ricorso al criterio numerico solo dopo
l’assegnazione dei casi alle celle.
A queste tre forme di riduzione descritte da Lazarfeld (1951) in collaborazione con
Barton se ne aggiunge un’altra illustrata da Barton (1955) solamente: è la riduzione attraverso
la semplificazione delle dimensioni. Essa non opera sulle combinazioni, bensì sulle
dimensioni che sottendono uno spazio d’attributi.
Se la dimensione è costituita da una variabile continua, allora la si può semplificare
trasformandola in una variabile categoriale ordinata. Se la dimensione è costituita da una
variabile categoriale, allora si può diminuire il numero delle sue categorie o addirittura
trasformarla in una dicotomia. Ovviamente la riduzione delle dimensioni produce una
12
semplificazione indiretta dello spazio di attributi: il numero delle combinazioni diminuisce,
ma esse assumono un significato più ampio.
Consideriamo, per esempio, uno spazio d’attributi derivante dall’intersezione di due
variabili: il titolo di studio (variabile categoriale ordinata) e il reddito mensile espresso in lire
(variabile cardinale). Si può trasformare la prima variabile in una dicotomia distinguendo
semplicemente fra diplomati e non diplomati, e rendere la variabile reddito mensile una
categoriale ordinata (alto, medio, basso). Il risultato di questa operazione è una tipologia più
semplice da gestire, sebbene si siano perse informazioni dettagliate.
Nella ricostruzione di uno spazio d’attributi il punto di partenza è un tipo (o un insieme
di tipi) definito dal ricercatore; con questa operazione si vuole individuare la struttura logica
che lo sottende e la riduzione che lo ha generato.
Dunque la ricostruzione è il tentativo di percorrere la strada al contrario; è
un’operazione in cui ci si chiede: da quale spazio d’attributi deriva la tipologia in esame? Non
si ha la pretesa di indovinare il processo percorso da chi ha proposto la tipologia, ma solo di
individuare una delle combinazioni logiche che potrebbero aver generato quel risultato
(Lazarsfeld, 1951).
Uno dei più famosi tentativi di ricostruzione è stato compiuto da Parsons (1949) sulla
tipologia del suicidio proposta da Durkheim (1897). Egli individuò due dimensioni sottostanti
i diversi tipi di suicidio: la presenza/assenza di norme, e il contenuto delle stesse
(individualistiche o collettivistiche).
5. LA CONTROVERSIA SULLA CLASSIFICAZIONE
La sociologia ha dato molto spazio alla costruzione di tipologie, e tale argomento è stato
una fonte di controversie. In questa sede non ci si propone di offrire una lista delle
classificazioni avanzate dai diversi sociologi, poiché ne risulterebbe uno sterile elenco. Si
riassumerà piuttosto il dibattito sulla natura delle classificazioni riportando le posizioni di chi,
con maggior interesse, ha affrontato tale argomento.
13
5.1 Il tipo ideale di Weber
Spesso, nella sociologia classica, si è concentrata l’attenzione sulla descrizione di uno o
alcuni tipi: si ricorda la distinzione di Durkheim (1897) fra la solidarietà meccanica ed
organica, quella di Toennies (1887) fra comunità e società, la personalità autoritaria di
Adorno (1950), e si potrebbe continuare con un lunghissimo elenco. Tra le più importanti
proposte di tipo singolo vi è quella di Weber (1922).
Secondo Weber il compito più importante della sociologia è la costruzione di tipologie
empiricamente fondate: esse servono per capire i fatti storici e l’insieme delle interazioni
umane. Egli propone la tipologia come uno strumento indispensabile per gli studi storico-
sociali, e come un modo per superare quell’insanabile contrapposizione tra scienze
idiografiche e nomotetiche descritta da Windelband.
Analizzando il saggio “Il metodo delle scienze storico-sociali” (1922) ci si può
accorgere quanto sia originale il pensiero dell’autore; la tipologia weberiana è molto lontana
dal significato comune che si dà a questo termine: essa non si colloca nell’ambito statistico, e
non ha neanche alcuna pretesa classificatrice dei fenomeni sociali; quello che Weber propone
è il concetto di tipo ideale.
Il tipo ideale non è il valore medio derivante da esempi reali, ma una costruzione che
deriva dall’attività creatrice del ricercatore; il tipo è “ottenuto attraverso l’accentuazione
unilaterale di uno o alcuni punti di vista, e attraverso la connessione di una quantità di
fenomeni particolari diffusi e discreti […] in un quadro concettuale in sé unitario” (Weber,
1922; trad. it. 1958, p.108). Esso non vuole essere una rappresentazione della realtà, bensì un
mezzo per esprimere tale rappresentazione; non può essere rintracciato empiricamente: è
un’utopia, un punto di riferimento rispetto al quale gli storici e i sociologi cercano di
determinare la distanza della realtà.
Nel costruire il tipo ideale si propongono relazioni significative tra alcuni elementi del
fenomeno considerato; quello che ne deriva non è un modello normativo; non ci dice ciò che è
auspicabile: esso è ideale in senso logico poiché le connessioni che lo compongono appaiono
coerenti agli occhi del ricercatore. Questo tipo puro è un concetto limite, rispetto al quale la
realtà viene confrontata. I sociologi possono evidenziare lo scarto fra il tipo ideale e il fatto
empirico, e proporre ipotesi circa le cause di tale divario: in questo modo effettuano una
spiegazione causale (Weber, 1922, trad. it. 1958).
Il tipo ideale è una componente essenziale della metodologia weberiana, ma attorno ad
esso sono sorte diverse polemiche: molti critici lo ritengono un punto di riferimento inutile;
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Martindale (1960) giudica il confronto fra la realtà e il tipo ideale una semplice “acrobazia
intellettuale”; Hempel (1952) ritiene discutibile il fatto che esso sia un concetto, proponendolo
piuttosto come teoria. Bailey (1989), invece, ha voluto dare al tipo ideale un’interpretazione
più realistica vedendolo come “il caso più puro”, difficile ma non impossibile da trovare
empiricamente, e utilizzabile come punto di riferimento nello stesso modo in cui, a volte, si
usa la media o la mediana.
5.2 Le critiche di Hempel al tipo ideale
Hempel (1965) denuncia lo scarso rigore con cui le scienze sociali hanno affrontato la
questione delle tipologie, soprattutto nello spiegare chiaramente il loro stato logico e la loro
funzione. E’ per questo motivo che l’autore cerca di portare ordine in tale ambito, e distingue
tre principali significati di tipi: classificatorio, estremo, ideale.
Nel primo caso (tipi classificatori) i tipi vengono interpretati come classi e sono il
risultato di una procedura di classificazione e della sua logica.
Invece i tipi estremi sono due concetti limite collocati agli estremi del continuum che
rappresenta una proprietà. Essi sono degli opposti; non si possono trovare nella realtà, ma
servono da punto di riferimento per ordinare gli eventi lungo una scala.
Per esempio, se volessimo giudicare gli individui in base al grado di razionalità, allora
risulterebbe artificioso sistemarli in categorie ben definite: dovremmo immaginarci una scala
ai cui estremi collocare un tipo puramente irrazionale ed uno puramente razionale; e dovremo
posizionare gli individui lungo questo continuum chiedendoci, ogni volta, quale dei due sia
più razionale dell’altro.
Esiste una continuità fra i tipi classificatori e quelli estremi poiché quest’ultimi non
sono altro che il tentativo di passare da un livello classificatorio qualitativo ad uno
quantitativo: essi sono un passaggio intermedio.
Come accennato precedentemente Hempel riserva le sue critiche più aspre verso il tipo
ideale. Si è già detto che Weber lo immagina come uno schema di relazioni significative tra
alcuni aspetti di un certo fenomeno (se → allora), e che tali relazioni si basano su regole
empiriche. Di fronte a tale definizione Hempel (1965) afferma che lo stato logico dei tipi
ideali non sia quello di concetti bensì di teorie.
15
Sono teorie simili a quelle dei gas ideali della fisica perché, come quest’ultime, esse non
hanno un riscontro empirico; però non hanno lo stesso livello di significatività delle leggi
fisiche.
In fisica, infatti, non solo ci si può avvicinare al caso ideale, ma le leggi che descrivono
i sistemi ideali possono essere dedotte da principi teorici più comprensivi, confermati
empiricamente. Non si può dire lo stesso dei tipi ideali.
Secondo Hempel i tipi ideali possono servire alla spiegazione solo se vengono visti
come “sistemi teorici interpretati”(1965, p.171, n.t.). Questo avviene solo se si precisano le
caratteristiche trattate dalla teoria; si enunciano le ipotesi che riguardano quelle
caratteristiche; si interpretano le caratteristiche in modo da far assumere alla teoria un
dominio specifico di applicazione; e, infine, se ci si propone, in futuro, d’inserire questa teoria
in un sistema teorico più comprensivo.
5.3 Il “constructed type” di Becker e McKinney
La riflessione sulla procedura tipologica di Becker (1940) e McKinney (1966) prende
spunto dal tipo ideale di Weber: essi lo considerano come un caso particolare dal quale far
partire una proposta di più ampia portata.
Tutti i tipi sono il risultato di un processo di costruzione, e in questo senso, tutti devono
essere chiamati “tipi costruiti”; però vi è un particolare modello di costruzione che McKinney
giudica utile per i suoi interessi: esso dà luogo al “tipo costruito o dedotto”.
“Il tipo costruito è un’intenzionale, pianificata selezione, astrazione, combinazione, e
(qualche volta) accentuazione di un insieme di elementi con referenti empirici che serve come
base per la comparazione di casi empirici.” (1966, p.25 n. t.).
Dunque il tipo costruito è un modello concettuale composto da elementi presi dalla
realtà. Deriva dalla selezione dell’esperienza empirica che a volte intensifica alcuni aspetti
piuttosto che altri. Questo modello non pretende di rappresentare la realtà; tutti gli eventi reali
si allontanano dal tipo, quindi esso è un punto di riferimento rispetto al quale misurare i
fenomeni empirici, e confrontarli in base al loro grado di deviazione. In una disciplina
scientifica il tipo costruito è una guida nella selezione e nell’ordinamento dei dati, così da
rendere possibile il confronto.