6
nella produzione testuale in quanto elaboratore di
discussioni orali o compiti scritti.
Sono in particolare gli interventi sul ruolo, le prospettive
e le metodologie dello studente a destare particolare
interesse: non solo per il fatto evidente che Scholes è uno
dei pochi che si preoccupa di questa figura misteriosa e
sconosciuta, tenuta sovente a debita distanza dagli
interessi degli accademici, ma soprattutto perché l’autore
statunitense propone agli studenti stessi un approccio ai
testi attivo, produttivo e metodologicamente fondato.
Partendo dal presupposto che uno studente dovrebbe
necessariamente produrre dei testi scritti – “sono un
umanista non perché penso e ancor meno perché leggo,
sono un umanista perché scrivo, perché, in definitiva,
produco testi”, afferma Scholes -, è importante porsi due
domande: come si giunge all’elaborazione di un testo?
Di che genere deve essere questo scritto?
Rispondere a questi interrogativi significa proporre una
pedagogia dell’approccio al testo, pedagogia che parte
dall’assunto che la produzione di testi implica
necessariamente la condivisione di regole prestabilite:
“ciò significa che imparando una lingua non si acquisisce
automaticamente l’abilità a produrre qualsiasi tipo di
testo in quella lingua. Acquisire una prima lingua vuol
dire farsi partecipi di una complessa situazione culturale
(…). Produrre testi in una lingua comporta inoltre
l’accettazione di un secondo livello di restrizioni culturali:
i codici che regolano le possibilità stilistiche a
disposizione di ogni particolare tipo di discorso”. Più
semplicemente, è controproducente chiedere a uno
studente di essere “creativo”, mettendolo di fronte a una
poesia e pretendendo da esso un commento,
un’opinione, una meditazione personale; una corretta
propedeutica all’analisi testuale dovrebbe invece fornire
agli studenti modelli di elaborazione di determinati classi
7
di discorsi, ossia proporre non solo – rispetto al testo X
– l’analisi dei critici A, B, C, ma anche analisi di stessi o
altri critici su testi che siano strutturalmente simili, ma
non identici, al testo X. Ciò dovrebbe permettere allo
studente da un lato di acquisire coscienza degli strumenti
e dei metodi con i quali si trova a lavorare, dall’altro di
elaborare soggettivamente – ma attraverso la dialettica tra
autori, testi e critici – un proprio stile personale. Come
afferma Scholes, “è meglio portare alla luce questo
effetto ventriloquistico e lasciarli lavorare liberamente in
maniera intertestuale, mentre imparano attraverso il
modo in cui questi abiti presi a prestito restringono e
allargano i contorni della loro personalità discorsiva”.
Il presente lavoro si fonda su una simile impostazione.
Nel proporre l’analisi semiotica di un romanzo e
dell’adattamento cinematografico, sono state utilizzate
esclusivamente teorie di altri studiosi, alcune celebri e
sovente utilizzate come primo approccio ad un testo – si
pensi, ad esempio, a Genette -, altre più periferiche e
meno conosciute – le teorie di Lotman o Caprettini sulla
modellizzazione della cultura, o le analisi narrative di
Chatman. L'obiettivo di questo studio rimane comunque
la discussione, l’interazione, l’intertestualità tra diversi tipi
di testi e opere critiche, dialogo che non elimina in alcun
modo la soggettività e la creatività dell’autore di testi
secondari, ma è anzi fondamentale per giungere ad una
comprensione corretta e più ampia possibile delle
metodologie semiotiche di approccio al testo e per
l’acquisizione di una padronanza dei termini e del modus
operandi del campo umanistico in generale.
Il secondo presupposto che ha fortemente condizionato
l’impianto di questo lavoro non deriva da una riflessione
generale sugli studi umanistici, ma riguarda lo specifico
dell’analisi semiotica, ed è emerso durante il primo
intervento di Patrizia Magli al XXV Convegno
8
dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, tenutosi a
Torino nell’ottobre 1997 con il titolo di La semiotica
venticinque anni dopo: tradizioni, esperienze, prospettive.
Nell’aprire il dibattito, la semiologa bolognese ha
delineato in primo luogo l’obiettivo degli studi
semiologici – l’esplorazione dei meccanismi in base ai
quali un testo significa -, il quale ha come pre-requisiti
fondamentali la chiusura del testo, intesa come sistema di
interdipendenze interne, i cui limiti sono rappresentati
dal testo stesso; in secondo luogo, è emerso un elemento
costante, uno “zoccolo duro” della disciplina , che
coinvolge sia la semiotica interpretativa di Umberto Eco
che la semiotica generativa greimasiana: la compresenza
di un impianto epistemologico – e quindi deputato
all’elaborazione di teorie – e di uno metodologico, che si
occupa dell’applicazione delle teorie ai testi della cultura.
Questi due elementi sono entrambi centrali e inseparabili
l’uno dall’altro, in quanto aspetti di uno studio che
considera il dialogo tra teorie e opere concretamente
realizzate il nucleo del proprio impianto. Ma, come
afferma Caprettini nella Premessa al libro Segni, testi,
comunicazione, “sul piano dei lavori e degli strumenti di
ricerca si è poi manifestato un problema collaterale,
quello della carenza di testi in cui, assieme alla teoria
concernente i segni e la loro attuazione, se ne
proponessero estensioni risultanti da concrete analisi,
testuali o pragmatiche, e comunque di carattere empirico
o deduttivo, che mostrassero un organico, sistematico
collegamento con i fondamenti”.
Il presente lavoro è una risposta a queste problematiche,
e vuole essere in particolare un contributo
all’applicazione metodologica delle diverse teorie
semiotiche nell’analisi di testi culturali. Non è un caso,
infatti, che i maggiori rappresentanti della disciplina
abbiano concentrato i loro sforzi non esclusivamente
9
nell’elaborazione di nuovi strumenti di indagine, ma
abbiano successivamente offerto esempi dell’applicazione
pratica delle teorie all’analisi dei testi: è sufficiente citare
opere quali Figure III di Gerard Genette, Maupassant, di
Algirdas Greimas, S/Z di Roland Barthes, l’analisi di
Sylvie di Gerard de Nerval fatta da Umberto Eco, per
rendersi conto del valore che la metodologia assume
nell’economia della disciplina.
Questo studio vuole offrire quindi da un lato differenti
esempi di teorie dell’analisi testuale, per l’altro vuole
rappresentare un insieme di esercizi semiotici, in cui le
teorie interagiscono, dialogano, entrano in contatto
diretto con i prodotti culturali concretamente realizzati.
Oltre a presentarsi immediatamente come tesi di laurea,
esso si rivolge a studenti universitari o neofiti che spesso
si limitano a conoscere gli elementi fondamentali delle
teorie, sovente astratti e difficilmente comprensibili, ed
evitano di far lavorare produttivamente questi concetti, di
renderli vivi e operativi, non considerando il fatto che lo
scopo delle teorie è proprio quello di migliorare,
approfondire, modificare la lettura o l’interpretazione
delle opere culturali. Non solo: così come non è corretto
uno studio sterile e superficiale della teoria, altrettanto
limitativa è la verifica delle teorie fatta dagli studiosi
stessi: è cioè giusto accontentarsi per la conoscenza, ad
esempio, del modello greimasiano, dello studio fatto del
grande semiologo francese su Due amici di Maupassant?
Certamente più utile e divertente è verificare la tenuta, la
validità , il funzionamento di questi strumenti in rapporto
ad altri testi, siano essi film, romanzi, poesie o spot
pubblicitari.
Due sono gli oggetti di studio del presente lavoro: il
primo è il romanzo di Isabel Allende La casa degli spiriti,
pubblicato nel 1982; il secondo è il film del regista Bille
10
August, tratto dal romanzo della scrittrice sudamericana,
che mantiene il titolo del libro al quale si ispira. Obiettivo
della tesi è in un primo momento quello di offrire
un’analisi semiotica dei due testi, analisi che non pretende
certamente di essere esaustiva, ma che cerca comunque
di evidenziare le caratteristiche salienti delle opere in
questione; in secondo luogo l’analisi indipendente di
questi due prodotti culturali converge nel confronto tra le
due strutture, confronto che – almeno per ora – si basa
sul concetto di narratività, ossia sulla semplice
constatazione che entrambi i medium – il romanzo e il
film – raccontano storie, narrano avvenimenti in cui si
muovono personaggi calati in ambienti specifici.
La scelta delle teorie utilizzate per l’approccio ai testi e la
suddivisione in tre sezioni principali, rispettano gli
assunti sopra descritti. La prima sezione è dedicata
all’analisi del romanzo: dopo un capitolo dedicato agli
studi di Michail Bachtin, uno tra i primi a delineare il
ruolo centrale e rivoluzionario del romanzo nella storia
della letteratura, si entra nel vivo dell’analisi testuale:
suddiviso l’intreccio un macrosequenze, come primo
approccio al testo si è scelta la già citata narratologia del
significante elaborata da Gerard Genette, la quale,
relazionando il testo con i fondamentali concetti di
spazio, tempo e voce narrativa, permette di ricavare i
primi dati essenziali sulla struttura romanzesca. Tra gli
elementi che caratterizzano La casa degli spiriti, l’analisi
genettiana fa emergere l’interesse per la nozione di cultura,
intesa come complesso sistema segnico di produzione,
elaborazione, registrazione di informazioni, e per la
dimensione della scrittura, non semplice processo di
archiviazione memoriale, ma fondamentale esperienza
dell’essere umano. Per approfondire queste tematiche nei
capitoli successivi sono stati utilizzati gli studi della
scuola di Tartu ed in particolare quelli di Jurij M. Lotman
11
sulla tipologia della cultura, le teorie di Gian Paolo
Caprettini sul valore della scrittura, argomento di un
capitolo del libro Simboli al bivio, gli studi di Bachtin sul
cronotopo romanzesco.
La seconda sezione, che si occupa dell’analisi dell’opera
filmica, viene introdotta da una rapida sintesi delle
principali teorie di semiotica cinematografica, disciplina
dai natali recenti; anche il film viene poi suddiviso in
macrosequenze, “filtrato” e scomposto dagli studi di
Genette e Chatman (sono stati usati cioè gli stessi metodi
utilizzati nell’analisi romanzesca); l’analisi non si è limitata
ad operare trasversalmente sulle categorie spazio-
temporali e narrative, ma propone una modellizzazione
del film stesso, attraverso l’analisi, fotogramma per
fotogramma, di una sequenza della pellicola, allo scopo di
far emergere le caratteristiche peculiari del racconto. Si
sono utilizzati a questo riguardo concetti specifici di
semiotica cinematografica, come l’analisi dei codici
iconici, fotografici, spaziali, temporali, lo studio della
messa in scena, della messa in quadro e del montaggio,
avendo quale costanti riferimento il prezioso manuale di
Casetti-Di chio Analisi del film.
L’ultima sezione è incentrata sul confronto tra le due
strutture narrative: differenze macroscopiche e
significative, che emergono con forza dal semplice
paragone tra le due suddivisioni in macrosequenze.
Scopo di questo confronto non è l’enumerazione di un
pacchetto di tratti comuni e differenti, ma il tentativo di
individuare le ragioni che motivano una tale disparità tra
intenzioni dello scrittore e le scelte del regista. Verrà
proposto infine un contributo originale al confronto tra i
due medium, derivata dalla teoria della comunicazione tra
un’intenzione primaria e una secondaria di Gian Paolo
Caprettini, ovviamente riformulata in base alle esigenze
del presente lavoro.
12
Nelle conclusioni verranno presentati i risultati di questo
programma di analisi e confronto testuale.
13
PARTE PRIMA: ANALISI DEL ROMANZO
14
1. STILISTICA E ROMANZO
1
.
Dedicare questa breve introduzione al genere romanzo
può sembrare eccessivo. Il romanzo occupa nelle
poetiche contemporanee un posto centrale: si attribuisce
ad esso una fisionomia specifica, delle caratteristiche
particolari che esso non condivide con altri generi
letterari, come la tragedia, la lirica, l’epos. Eppure il
riconoscimento dei tratti propri del romanzo è fenomeno
recente. È sufficiente scorrere le più importanti poetiche
del passato – di Aristotele, Orazio, Boileau – per notare
come esse ignorino sistematicamente il romanzo. La
stilistica stessa, fino ai primi decenni del nostro secolo, ha
considerato la parola artistico-prosastica come poetica, e
ad essa ha costantemente applicato le categorie stilistiche
tradizionali, basate sui tropi. Questo approccio acritico è
dovuto al fatto che la prosa (o meglio, la parola
romanzesca) è considerata come una forma extrartistica,
priva dell’organizzazione formale propria della lirica, più
vicina alla parola scientifica e tecnica, semplici mezzi
neutri di comunicazione.
Attorno al 1920 assistiamo ai primi tentativi di analisi
specifica del genere romanzesco, che cercano di far
emergere l’identità stilistica della prosa nei confronti della
poesia, ma queste analisi si limitano a far rientrare gli
elementi propri del romanzo nelle tradizionali categorie
stilistiche. Il risultato di queste ricerche non permette di
cogliere le peculiarità del romanzo, al contrario mette in
luce la limitatezza degli approcci tradizionali, che si
occupano esclusivamente di minuzie stilistiche e
mancano di una visione filosofica e sociologica più
ampia.
1
Questo capitolo si basa sugli scritti di Michail Bachtin, in particolare sul
capitolo II dell’opera Estetica e romanzo (Einaudi, Torino, 1979), intitolato
La parola nel romanzo (p. 67-230).
15
Un autore che rifiuta con energia la classificazioni
tradizionali, dotato di una straordinaria passione, una
metodologia rivoluzionaria, una preparazione
approfondita che copre tutto l’arco della storia del
romanzo, è Michail Bachtin (1895-1975), studioso
eclettico, filosofo, storico, letterato, precorritore della
semiotica, autore di saggi radicalmente innovativi di
teoria letteraria e rappresentante della cosiddetta filosofia
dialogica. Bachtin afferma, nel 1934:
“il romanzo come totalità è un fenomeno pluristilistico,
pluridiscorsivo, plurivoco. Lo studioso incontra in esso
alcune unità stilistiche eterogenee, che si trovano a loro
volta su vari piani stilistici e sono soggette a varie leggi
stilistiche”.
È sufficiente questa definizione per sottolineare la
differenza tra la monolitica, chiusa e limitata poetica
tradizionale, che per secoli ha come unico oggetto di
studio la lirica, e la novità dell’approccio bachtiniano,
attento alla pluridiscorsività sociale e all’eterogeneità
propria del genere romanzesco.
Bachtin elenca le principali unità stilistico-compositive
nelle quali si suddivide la prosa artistica:
™ La narrazione artistico-letteraria diretta dell’autore.
™ La stilizzazione delle varie forme della narrazione
orale o racconto diretto (skaz).
™ La stilizzazione delle varie forme della narrazione
semi-letteraria (scritta) privata (lettere, diari, ecc.)
™ Le varie forme del discorso letterario extrartistico
dell’autore (ragionamenti morali, filosofici, scientifici,
ecc.)
™ I discorsi stilisticamente individualizzati dei
protagonisti.
16
Caratteristica primaria del genere romanzesco è proprio
l’unione di queste unità relativamente autonome nella
superiore unità dell’insieme: “lo stile del romanzo è
l’unione degli stili; la lingua del romanzo è l’insieme delle
lingue”. Il presupposto del genere romanzesco è la sua
dimensione sociale, la stratificazione interna della lingua
nei dialetti, nei gerghi professionali, nei linguaggi
quotidiani, di gruppo, individuali, nella proliferazione e
scomparsa di idioletti politico-sociali. Questa molteplicità
linguistica viene introdotta nel romanzo proprio dal
discorso del narratore, dai generi intercalari, dai dialoghi
dei protagonisti.
La definizione di romanzo come plurivocità e
pluridiscorsività si ricollega direttamente agli assunti
saussuriani di lingua intesa come fenomeno arbitrario, il
suo essere nello stesso tempo rappresentata da un
sistema unitario centralizzatore e dall’uso individuale del
singolo parlante. Le categorie stilistiche sono create,
regolate, determinate da concrete forze storiche, da
gruppi sociali definiti, e di questi gruppi sono
l’espressione. Per Bachtin, al contrario delle
sistematizzazioni tradizionali, la lingua non è da
intendersi come un sistema di forme elementari che
garantiscano una comprensione minima, ma come “
lingua ideologicamente saturata, la lingua come
concezione del mondo e persino come opinione
concreta, lingua che garantisca il massimo di reciproca
comprensione in tutte le sfere della vita ideologica.” Da
questo punto di vita la stessa lingua letteraria risulta fare
parte della molteplicità delle lingue ideologico-sociali, ed
al suo interno è a sua volta stratificata in altri linguaggi.
La profonda innovazione del pensiero bachtiniano
consiste proprio nell’attenzione all’aspetto concreto,
sociale, reale, vivente del fenomeno linguistico; al
contrario della stilistica passata, che si fondava
17
esclusivamente sulla forza centralizzante della lingua, la
cui conseguenza era l’attenzione per il genere poetico,
espressione privilegiata dell’unificazione linguistica, lo
studioso russo insiste sulla natura tanto centrifuga che
centripeta della parola: rilevando l’importanza dei generi
minori, creatisi nei ceti inferiori della popolazione, nelle
piazze, nei teatri, nei postriboli, nelle feste, sui palchi dei
saltimbanchi, egli scopre un territorio vergine dove non
esiste centralizzazione, dove la lingua diventa gioco,
maschera, scontro e lotta di fenomeni sociali, teatro di
una contrapposizione cosciente nei confronti delle lingue
“ufficiali”, dei dotti, dei letterati, dei cavalieri. La filosofia
del linguaggio e la stilistica hanno costantemente
considerato questi fenomeni come fatti storici e non
poetici, l’opera letteraria era considerata come un sistema
chiuso e autosufficiente, privo di un qualsiasi contatto
con altre enunciazioni. Le tesi bachtiniane disintegrano
queste concezioni e toccano aspetti dell’esistenza della
parola legati al suo comportamento in un universo
pluristilistico e pluridiscorsivo.
1.1 Caratteristiche della prosa artistica.
Delineare una precisa e definitiva teoria romanzesca –
afferma Bachtin – è un compito particolarmente arduo.
Al contrario degli altri generi letterari, che ci appaiono
con un aspetto definito e sostanzialmente immutabile,
privi di ulteriore sviluppo, già invecchiati, cristallizzati in
precise strutture ormai note agli studiosi, il romanzo è
l’unico genere letterario in divenire, non ancora saturato,
sostanzialmente incompiuto, espressione centrale della
civiltà moderna: esso è privo di una struttura specifica e
definitiva, rifiuta la classificazione in un qualsiasi canone,
18
fa oggetto – il più delle volte parodico - del suo narrare la
convenzionalità e la staticità degli altri generi.
Cosa succede quando un romanzo entra in contatto con
gli altri generi? Quali conseguenze provoca l’impatto tra
la struttura dialogica e in perpetuo divenire del romanzo
e quelle stabili e rigorose dei generi tradizionali? Bachtin
afferma che l’intera letteratura viene coinvolta da una
sorta di “criticismo”, che comporta in particolare la
parodizzazione di tutti i generi nobili. Anche le forme
letterarie maggiormente definite e ossificate vengono
attirate nell’orbita del genere romanzesco e subiscono
una destabilizzazione: esse “diventano più libere e più
plastiche, il loro linguaggio si rinnova grazie alla
differenziazione interna della lingua extraletteraria, si
dialogizzano, in essi entrano ampiamente il riso, l’ironia,
lo humour, elementi di autoparodia e infine – ed è questa
la cosa più importante – il romanzo porta in essi la
problematicità, la specifica incompiutezza semantica e il
vivo contatto con l’età contemporanea incompiuta e
diveniente.”
Le teorie letterarie pre-bachtiniane non sono riuscite a
cogliere la radicale novità della prosa artistica; essa era sì
presente nelle classificazioni dei generi, ma era
semplicemente affiancata a questi, era priva di una
propria specificità: solitamente gli studi più approfonditi
si limitavano ad una elencazione delle varietà
romanzesche, eppure nessuno è mai riuscito a definire
delle caratteristiche specifiche che giustificassero
l’autonomia e l’innovazione del romanzo.
I primi tentativi di definizione sono da attribuire ai
romanzieri del XVIII secolo, tra i quali ricordiamo
Fielding, Wieland e soprattutto il Saggio sul romanzo di
Blanckenburg. Questi scrittori evidenziano soprattutto il
diverso rapporto con la realtà e con gli altri generi
letterari che caratterizza la prosa: il romanzo diventa
19
critica e autocritico, fa emergere la banalità , la
monotonia, l’involuzione tanto dei generi letterari
quanto delle varietà romanzesche precedenti, come il
romanzo barocco e sentimentale, e si autoproclama come
forma letteraria dominante della letteratura
contemporanea. Bachtin fa proprie queste premesse e
propone a sua volta una serie di caratteristiche che
distinguono il romanzo dagli altri generi:
™ La tridimensionalità stilistica del romanzo, legata alla
coscienza plurilinguistica che si realizza in esso.
™ Il mutamento radicale delle coordinate temporali del
personaggio letterario nel romanzo.
™ La nuova zona di costruzione del personaggio
letterario nel romanzo, zona di massimo contatto con
l’età contemporanea nella sua incompiutezza.
È grazie al romanzo che il mondo si è definitivamente
aperto al plurilinguismo, alla pluralità dei linguaggi e dei
punti di vista, ha abbandonato definitivamente
l’isolamento culturale delle singole civiltà e letterature
nazionali.