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Parte I - Il Vizio
1.Storia del vizio
Dirigendo il nostro sguardo al di là dell‟idea che le azioni piacevoli reiterate possano legarsi al
vizio, è d‟obbligo in questa sede ampliare la nostra ricerca alle origini storiche e alla concreta
nascita a livello sociale e letterario del nostro campo di interesse.
Le radici storiche della classificazione dei vizi hanno confini nebulosi e incerti, a essi sono spesso
attribuiti significati nefasti e ciò ci porta a volgere il nostro sguardo direttamente verso il
cattolicesimo ed alla nozione culturalmente diffusa di peccato capitale; i 7 peccati capitali sono
frutto di una riflessione molto importante per la teologia cristiana, eppure le sacre scritture non ne
fanno menzione.
La storia umana, nel tempo, ha avuto a che fare con vari tipi vizi ed eccessi comportamentali, i loro
echi risuonano e ritornano in diverse epoche, manifestandosi in modo peculiare per ogni cultura, nei
suoi valori e tradizioni ma anche nelle singolarità caratteriali spesso manifeste in molti personaggi
storici vissuti in queste diverse società. Senza la pretesa di essere esaustivi, riportiamo qui diversi
distillati storici del passato legati alla storia del vizio; il tempo ci riporta innanzitutto alle prime
riflessioni sui comportamenti umani dei grandi intellettuali provenienti da epoche antiche, primi fra
tutti, i sapienti della Grecia arcaica.
1.1 - Le società arcaiche, storia Greco-Romana
La tradizione culturale greca e la sua grande speculazione filosofica hanno inizio nel IX-VIII sec,
epoca a cui si può far risalire la composizione scritta dell‟Iliade, dell‟Odissea e delle opere di
Esiodo; in questi testi sono già riscontrabili allusioni velate o più esplicite ai vizi o agli eccessi
comportamentali: Omero descrisse la figura di Ulisse come un truffatore astuto e fortunato,
nell‟Iliade l‟ira di Achille non solo è l‟argomento con cui sia apre il poema, “Cantami, o diva del
Pelìde Achille l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli achei..”, ma anche il suo fulcro narrativo.
Altri racconti della mitologia greca mostrano che gli dei stessi erano tutt‟altro che immuni ai vizi ed
anzi, essi apparivano immersi in combutte, sotterfugi ed invidie degne di bambini litigiosi piuttosto
che di modelli di integrità.
Dal VI, al IV sec. la Grecia visse un‟epoca di grandi trasformazioni, la caduta delle grandi
oligarchie ed il tumulto politico-sociale resero più cosciente il popolo dei suoi diritti, nacquero in
questo periodo gli stati democratici, di cui Atene è l‟esempio più illustre, e con essi, nuove
religioni; tra esse l‟orfismo ed il pitagorismo.
Le origini del culto orfico
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derivano non solo alla figura di Orfeo, leggendario cantore della tracia
che affascinava con il suono della sua lira, ma affondano le radici nei culti egizi ed orientali legati
alla metempsicosi, ed ai miti legati al dio Dioniso. Nell‟orfismo si ha infatti una radicale rottura con
la religione olimpica fondata sulla separazione tra umanità e divinità. L‟anima, chiamata “daimon”,
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Pollo M. (2012) “La caduta dell’angelo: sacro e tossicomania della modernità, un approccio di psicopedagogia
culturale”. Società editrice Franco Angeli, Milano.
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è un principio divino immesso nel corpo umano che emerge dalle ceneri dei Titani quindi il corpo
non è altro che un contenitore fatto di materia in cui risiede una colpa originaria che può essere
espiata tramite una serie di successive reincarnazioni; al temine della metempsicosi si ha il
raggiungimento della purezza e dell‟immortalità che libera il “daimon” immesso nell‟uomo,
consentendogli di manifestare compiutamente la sua essenza divina.
L‟innovazione della prospettiva orfica rispetto al sistema religioso classico greco deriva dai miti
legati alla figura di Dioniso, identificato spesso con Zagreo, un dio che appare più vicino al popolo
dell‟epoca a causa delle sue emozioni umane, dal suo provare sofferenze e dalla sua morte ingiusta.
Nel mito orfico Dioniso-Zagreo, figlio di Zeus e Persefone, viene sbranato e divorato dai titani;
quest‟uccisione scatenò l‟ira di Zeus che fulminò i giganti e successivamente estrasse dalle loro
ceneri l‟uomo che così portava in sé sia l‟essenza divina che il peccaminoso elemento titanico.
Dioniso, puer divino, era infatti il simbolo dell‟indifferenziato, della rottura dei limiti e dell‟unione
degli opposti; rappresentava tutto ciò che scioglieva le differenze individuali e quindi le dinamiche
oppositive che implicavano dualismi come vita-morte, sacro-profano, conscio-inconscio, maschio-
femmina … . Dioniso riconduceva tutto al caos delle acque primordiali precedenti alla creazione,
era comunemente identificato come dio della liberazione dei sensi, dell‟ebbrezza e dell‟estasi
dovuta ad un‟eccessiva assunzione di vino. In particolare, il dio rappresentava lo stato di natura
dell‟uomo, la sua parte animale, selvaggia ed istintiva, che resta presente in modo latente anche
nell‟individuo più civilizzato. Questa parte umana più primitiva, come un frammento originario
ineliminabile, può emergere ed esplodere in maniera violenta se repressa in modi estremi e
coercitivi; tuttavia se compresa, educata ed incanalata correttamente può formare uomini retti,
virtuosi e coscienti di sé, capaci di abitare nel mondo civile degli uomini della polis.
L‟educazione del comportamento umano è un argomento ampiamente trattato da molti filosofi
tra cui, in particolare, Aristotele che nel IV sec, nella sua opera ”Etica Nicomachea”
7
, effettua una
delle prime formulazioni di un codice etico nel mondo classico. La virtù etica per Aristotele è una
disposizione del carattere che si trova nell‟equilibrio fra eccesso e mancanza; la scelta del “giusto
mezzo” tra eccessi opposti è quella che, ad esempio, consente di evitare di mangiare troppo o troppo
poco, senza lasciarsi possedere dal vizio di gola. Un‟altra virtù etica importante è la liberalità, ossia
la capacità di dare e ricevere nella giusta misura i beni materiali, che è una virtù mediana che si
situa tra la prodigalità e l‟avarizia; la prodigalità è un termine che implica diversi significati, è
caratteristica degli uomini che fanno un cattivo uso dei loro beni che possono scialacquarli nei loro
molteplici vizi o eccedere nel donarli, a costo di danneggiare loro stessi. L‟avarizia invece è propria
degli individui che si preoccupano dei beni materiali più di quanto si deve; per Aristotele questi
uomini manifestavano una sordida cupidigia di guadagno ed erano capaci delle azioni più
disonorevoli pur di ottenere denaro. Difatti, per l„autore, l‟avarizia è un male più grande della
prodigalità, in quanto rende incapaci di dare e riduce l‟uomo ad un essere avido ed insaziabile.
Sempre in questo testo lo “stagirita” parla di “abiti del male”; questi abiti, al pari delle virtù,
deriverebbero dalla ripetizione di quelle azioni che tessono attorno all‟individuo una sorta di
“veste” o seconda natura, che lo rendono incline a determinate abitudini. Tuttavia, contrariamente
all‟azione delle virtù, gli “abiti del male”, non promuovono ma piuttosto distruggono la crescita
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Zanatta M. (2010) “Aristotele, frammenti. Opere logiche e filosofiche. Testo greco a fronte”. Editore BUR, Biblioteca
Universale Rizzoli, Milano.
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spirituale interiore. Dunque, poiché la ripetizione dei comportamenti si stratificava in abitudine, al
tempo divenne molto importante l‟educazione dei giovani da parte dei loro maestri che dovevano
allenarli ad acquisire buoni abiti; e proprio per questo che i precettori si servivano molto spesso dei
miti e delle narrazioni eroiche, che riportavano episodi rappresentanti buoni esempi per la riuscita
dei loro insegnamenti.
Tra questi ricordiamo il racconto di “Eracle al bivio”, attribuito al sofista Prodico
8
:
Un giorno, Eracle, al tempo adolescente, passeggiava riflettendo sulla propria esistenza, giunto ad
un bivio incontrò due bellissime donne, una raffigurava la virtù, e l’altra il vizio, quest’ultima
appariva superba, voluttuosa e mostrava al giovane una strada semplice promettendogli una vita
ricca di gioia, piaceri e priva di sofferenze; l’altra donna, invece, esprimeva purezza e dignità e
indicava a Eracle una via ripida e sassosa, difficile da percorrere ma che prevedeva alla fine
un’alta ricompensa di fama e gloria.
L‟idea diffusa all‟epoca era che gli dei non concedevano nulla senza fatica, non esisteva vittoria
senza lotta o raccolto senza semina ed una volta che le due donne scomparvero Eracle decise di
percorrere la via più impervia e difficile; la volontà del giovane di seguire la virtù è un'immagine
del passaggio dell'uomo dalla sua natura originaria, “physis”, alla virtù divina , “nomos”, per mezzo
dell'educazione.
I filosofi greci ed i profeti predicano le virtù ed il duro lavoro eppure c‟era una voce nell‟antica
Atene che usciva dal coro, quella di Diogene di Sinope
9
, detto il cinico. Questo filosofo appariva
come un modello di anarchia, eccesso ed indolenza, rifiutava drasticamente, non senza
esibizionismo, le convenzioni sociali, i tabù sessuali, ed i valori tradizionali come la famiglia, la
ricchezza, il potere e la gloria; viveva per strada in una botte, non lavorava e faceva l‟elemosina per
sopravvivere. Per Diogene la libertà consisteva nell‟eliminare dalla vita qualsiasi piacere o bisogno
fisico superfluo; tuttavia i cinici, nell‟insistere sulla libertà, toccarono spesso i limiti della
sfrontatezza, dell‟arroganza e dell‟indecenza.
Tra il V e il IV secolo la civiltà greca giunse al picco della sua grandezza politica, economica,
scientifica, filosofica ed artistica, tuttavia a seguito di questi fiorente periodo le guerre e le invasioni
portarono al lento declino del benessere diffuso e ciò portò alla convivenza parallela sia
dell‟esaltazione dell‟integrità e dell‟uomo incorruttibile sia la difesa della naturalità del vizio e
dell‟imperfezione dell‟animo umano.
Dal mondo della tragedia emerse il concetto di “Hýbris”
10
, che significava eccesso, tracotanza o
superbia; la hýbris si acquisisce a seguito della violazione delle leggi divine immutabili ed è una
colpa che dal remoto passato può tornare a influenzare negativamente gli eventi presenti o la stirpe
futura , che sarà condannata a commettere crimini o subire azioni malvagie. La diretta conseguenza
della “Hýbris” era la “Nèmesis” ossia l‟ira e lo sdegno che portavano alla vendetta degli dei; una
punizione giustamente inflitta per chi si macchiava di tracotanza. Una delle vicende più note è
quella di Icaro che nell‟ebbrezza del volo si avvicinò troppo al sole; il calore fuse la cera che legava
le piume delle sue ali ed egli cadde in mare e morì. Un‟altro episodio meno noto è quello di Aracne,
8
Kerényi K. (2009) “ Gli dei e gli eroi dell’antica Grecia, il racconto del mito, la nascita della civiltà”. Editore il
Saggiatore, Milano.
9
Beartoz C. (2005) “Manuale di storia greca”. Il Mulino, Bologna.
10
op. cit. nota
8
6
esperta ricamatrice che sfidò e vinse Atena in una gara di tessitura; la dea, adirata, tramutò la
giovane in un ragno
11
.
L‟avvento dell‟impero romano nel 146 a.C. segna per molti la fine del periodo greco classico,
tuttavia, nel contempo, questa data segna anche l‟assoggettarsi di Roma, rozza e guerriera, agli
influssi che emanava il fascino del mondo greco, che trasferì la sua eredità morale in un costume
comunemente accettato; nasce qui una nuova linea che avvicina e lega i due popoli dando origine al
mondo greco-romano, in cui le virtù più edificanti stanno accanto ai vizi più ripugnanti.
Lungo il corso della storia romana antica è possibile identificare innumerevoli narrazioni
riguardanti le più meschine e turpi azioni, come tradimenti, assassini, vendette, conquiste, peccati, e
gelosie; alla fondazione di Roma
12
, il 21 aprile 753 a.C., si lega la storia dei gemelli Romolo e
Remo, figli di Marte e Rea Silvia, abbandonati lungo il fiume e trovati prima dalla Lupa poi dal
contadino Faustolo, che insieme alla moglie, Acca Laurentia, li allevò. Livio e Plutarco, riportano il
racconto della fondazione di Roma e l‟assassinio di Remo da parte del fratello : la leggenda narra
che Romolo, sul colle Palatino, era intento ad arare in terra un fossato che avrebbe circondatole
mura della città e Remo, facendosi beffe di lui attraversò i confini appena tracciati facendo
esplodere la sua ira; tra i due fratelli scoppiò una violenta rissa che si concluse con l‟uccisione di
Remo e la nomina di Romolo come primo Re di Roma. A questo fratricidio originario segue nel
tempo un noto parricidio alle idi di marzo, nel 44 a.C.; qui, il seme dell‟invidia politica rovescia il
governo e cambia il destino di Roma con l‟assassinio di Giulio Cesare da parte del figlio Marco
Bruto, in congiura con Gaio Cassio ed altri cospiratori. Non a caso i due traditori sono poi collocati
da Dante Alighieri nelle viscere dell‟inferno, nella Giudecca
13
ed appesi a testa in giù sulle bocche
laterali di Lucifero che li dilania con i suoi denti.
Molti imperatori e personalità romane influenti furono esemplari modelli di tracotanza
14
,
scelleratezza e depravazione, tra le figure più rinomate spiccano Marco Antonio, generale romano
con una vita dissoluta, amante illegittimo della regina Cleopatra, morto suicida con essa prima
dell‟invasione dell‟Egitto da parte di Ottaviano; Caligola, imperatore a cui fu attribuita la nomina di
“pazzo sanguinario” a causa delle innumerevoli stragi e assassini dei suoi oppositori. Svetonio,
letterato romano, narra le atrocità della condotta di questo folle imperatore e racconta del suo
comportamento vizioso con le matrone romane e degli incesti con le sorelle, nel libro “Le vite dei
dodici Cesari”. Varie fonti attestano inoltre che al culmine del suo regno, Caligola, avrebbe voluto
essere proclamato Dio e fece introdurre la propria statua nei luoghi di culto di tutte le religioni
dell‟impero, incluse le sinagoghe di Alessandria d‟Egitto. Per molti, l‟omicidio di Caligola a 28
anni fu un segno della rabbia degli dei per aver ecceduto soprattutto in lussuria e superbia. Un'altra
figura molto nota per la sua condotta sfrenata e viziosa è quella di Nerone, il suo nome è spesso
associato alla violenza, crudeltà, megalomania e al dispotismo; al di là del fatto che questi attributi
sono spesso enfatizzati in modo esagerato, la pessima fama di quest‟imperatore sembra essere
giustificata anche negli scritti di Tacito, che lo definisce “incredibilium concupitor”, ossia
smanioso di cose impossibili. Nerone diventa imperatore a 17 anni, età in cui molti autori
11
Ivi
12
Sampoli F. (2007) “Passioni, intrighi e atrocità degli imperatori romani”. Edizioni New Compton,
Roma.
13
Alighieri D.(1994) “La Divina Commedia”. Biblioteca economica Newton, Roma. Inferno,canto XXXIV
14
op. cit. nota
12
7
sospettano una sua relazione incestuosa con la madre Agrippina che fece poi uccidere; la stessa
sorte fu riservata a molte delle sue amanti e anche al suo maestro d‟infanzia e poi consigliere
Seneca. Al filosofo giunse l‟ordine di togliersi la vita per sospetto coinvolgimento nella congiura
dei Pisoni, evento che in realtà fu colto come pretesto dall‟imperatore per liberarsi del suo
consigliere. Inoltre, Nerone, è anche indicato come responsabile dell‟incendio del 64 d.C. che aveva
devastato Roma, accusa piuttosto controversa di cui molti studiosi sia antichi che moderni tendono
a discolparlo.
Nonostante la loro degenerata condotta, queste personalità hanno fatto parte della fiorente
espansione e dello sviluppo che dalla fondazione di Roma in poi ha caratterizzato tutto il periodo
imperiale fino al suo crollo; tuttavia, molto prima della caduta di Roma e al di là delle singolarità
caratteriali dei protagonisti della sua storia, sono rintracciabili molteplici fonti che testimoniano la
presenza di quelle trasgressioni comportamentali, oggetto di questa indagine, che sembrano
riproporsi in forma mutevole nel tempo.
A livello letterario il poeta romano che spicca dalla lunga lista di autori è l‟ironico Orazio
15
che
nella sua raccolta “Sermones”, le Satire, ricalca le tracce aristoteliche riproponendo al vizioso
popolo romano la filosofia del giusto mezzo. L‟opera, composta da due libri, si articola in vari
argomenti che includono le riflessioni sull‟incontentabilità umana e le critiche ai suoi vizi più
comuni; include anche un resoconto dei rapporti dell‟autore con Mecenate e le critiche alla satira
del poeta latino Lucilio. Nei versi d‟apertura del primo libro il poeta scrive “c’è una misura in tutte
le cose, ci sono dei precisi confini al di là e al di qua dei quali non può trovarsi il giusto”; l‟intento
di Orazio è quello di condurre il suo pubblico verso un percorso di saggezza e quindi felicità
attraverso la bonaria rappresentazione dei difetti degli uomini seguendo due principi basilari :
l‟autosufficienza dell‟individuo e la moderazione o giusto mezzo. Dunque, secondo la massima
oraziana : saggio e felice è colui che si accontenta di ciò che possiede senza cercare gli eccessi;
l'uomo infelice è invece l'uomo ignorante che non riesce a vivere in pace con se stesso. Nel secondo
libro, il poeta, in tono scherzoso e ironico, affronta varie tematiche, criticando vizi e debolezze,
proprie e dei suoi contemporanei, inserendoli in quadri di vita quotidiana. Le principali riflessioni di
Orazio sono rivolte alla ricerca degli aspetti tipici del mos maiorum
16
come ad esempio la ricerca
della mediocritas, (la via di mezzo), l‟autarcheia, (l‟autosufficienza) e la metriotes (moderazione);
tutte doti che avrebbero assicurato al sapiente una giusta prospettiva di esistenza.
Un altro vate contemporaneo di Orazio degno di nota è Ovidio
17
, autore che vivendo a pieno la
pax augustea, attenua il rigido legame morale di Roma con i mos maiorum, introducendo un‟etica
più libera e rilassata proveniente dall‟influenza ellenistica, mettendo in risalto il sapiente intreccio
creatosi fra le due culture. Tra le opere maggiori di Ovidio “Le metamorfosi”, poema epico che
contiene racconti mitologici dell'antichità greca e romana; nei suoi quindici libri vengono raccontati
i miti cosmogonici, le storie metamorfiche che coinvolgono gli dei, i miti sulla nascita e le
avventure degli eroi. In molte di queste narrazioni spesso i protagonisti mostrano un‟esplicita
15
Manca G. (1992) Orazio Q. Flacco. “Le Satire”. Editore Einaudi, Torino.
16
op. cit. nota
12
: Mos Maiorum, letteralmente “costume degli antenati”, indicava quel complesso di valori e tradizioni
che costituiva il fondamento della cultura e della civiltà; essere fedeli al mos maiorum significava riconoscersi parte di
uno stesso popolo avvertendo i vincoli di continuità con il proprio passato ed il proprio futuro sentendosi parte di un
tutto. Quest‟insieme di valori collettivi e modelli di comportamento a cui conformarsi consentiva di incanalare le
energie e le spinte all‟innovazione entro l‟alveo della tradizione, così da renderle funzionali al bene comune.
17
Ovidio P.N.(1998) “Le metamorfosi”. Giulio Einaudi editore, Torino.