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Nella prospettiva storica, le prime ricerche empiriche sulla popular music
contemporanea prendono avvio negli anni Cinquanta, in coincidenza con il
crescente interesse verso il mondo giovanile dato dalla comparsa sulle scene
della figura del teenager, concetto coniato dal marketing per identificare il
nuovo target di consumatori. Si viene, così, a costituire un solido legame tra
giovani e musica pop
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: «nel momento in cui, per la prima volta nella storia, i
giovani si presentano come soggetti autonomi di consumo incontrano sonorità,
ritmiche, coreografie di uno stile musicale che rappresenta una netta rottura
rispetto alle tradizioni dell’Occidente bianco, offrendosi come fertile territorio
simbolico che fornisce stimoli e risposte per i bisogni di identificazione e
appartenenza e per agire le diverse componenti del conflitto
intergenerazionale» (Torti 2000, pag. 292). Il medium musicale è, infatti, per i
giovani uno strumento di contrapposizione e di differenziazione dal mondo
adulto e, allo stesso tempo, integra il loro stile di vita definendone gli ambiti di
appartenenza simbolica e culturale. Emerge, dunque, come il legame tra i
giovani e la musica sia profondo e come quest’ultima rappresenti «un vero e
proprio agente di socializzazione in quanto produce e veicola specifiche cornici
di rappresentazione della realtà, di archetipi valoriali e culturali, di modelli di
interazione tra individuo e società e fra individuo e individuo» (Torti 1997;
1998).
Dal rapporto fra popular music e socializzazione giovanile, investigato
attraverso la dimensione dominante del consumo, si sviluppa la prospettiva del
mio studio che arriva ad analizzare come tramite connessioni di stile di vita,
musica, età, classe sociale e specifiche circostanze storiche, nascano e si
formino delle sottoculture giovanili. Fra i quattro casi studiati,
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sviluppatisi nel
periodo postbellico britannico, un particolare approfondimento sarà riservato a
quello dei mod, la più significativa aggregazione giovanile d’estrazione
proletaria del Regno Unito. L’attenzione alla sperimentazione formale dello
stile modernista come tattica di resistenza sociale ai valori dominanti, verrà
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S’intende il rock ’n’roll.
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Mi riferisco, in ordine di nascita, ai teddy boy, ai mod, agli skinhead e ai punk.
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analizzata nell’ambito del più vasto dibattito sociologico sul rapporto che
intercorre tra la struttura sociale e l’agire dell’uomo e le loro rispettive
influenze nel modellare le culture. Nel primo capitolo sono, infatti, messe a
confronto due opposte posizioni di analisi del consumo culturale nella vita
quotidiana, rappresentate dai teorici francesi Pierre Bourdieu (1979; trad. it.
1983) e Michel De Certeau (1980); se il primo tende a dare più peso alle
costrizioni strutturali che s’impongono ai consumatori e che gravano
sull’accesso alle risorse materiali e simboliche, il secondo rileva, invece, la
capacità dei consumatori di appropriarsi attivamente dei beni e di usarli in
modo creativo nella costruzione delle culture quotidiane. Per Bourdieu, che
considera le pratiche culturali e i giudizi di valore ad esse collegate come
socialmente costruiti (e perciò trasmissibili attraverso specifici tipi di habitus),
la persistenza dei dominanti sui dominati sembra l’unica realtà sociale
possibile; De Certeau, all’opposto, critica questo modello strutturato di
riproduzione sociale sottolineando, invece, la capacità dei gruppi subordinati di
aggirare l’ordine sociale esistente tramite tattiche di resistenza popolare che,
sebbene non portino ad un cambiamento sociale complessivo, rappresentano un
importante mezzo per arrangiarsi in circostanze sfavorevoli.
Partendo da quest’ultimo approccio, che sembra oggi dominante nella teoria
culturale, nel capitolo seguente presenterò un altro filone di ricerca, (che
precede di molto quello di De Certeau), che ha analizzato le resistenze
semiotiche dei consumatori creativi, quello degli studi sulle sottoculture
giovanili “spettacolari” britanniche avviati dal Birmingham Centre for
Contemporary Cultural Studies e pubblicati nell’antologia Resistance through
Rituals (Hall e Jefferson 1976). Secondo tale posizione, all’interno
dell’egemonia che vige nella società, i giovani appartenenti alla classe
lavoratrice si appropriano del significato dei beni e delle merci disponibili e,
attraverso pratiche creative di “bricolage” (Hebdige 1979; trad. it. 1983) e
processi di rielaborazione di contenuti, ne stravolgono il senso originario per
conferirgliene uno nuovo, “segreto”, differente e perciò deviante ai codici
vigenti nella società. Proprio da questa consapevolezza di qualità di “seconda
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mano” del suo stile che comunica intenzionalmente una diversità significativa e
“innaturale”, una sottocultura trae la forza per sfidare le forme “normalizzate”
imposte dalla cultura dominante. L’intento del mio lavoro, che si richiama agli
studi della scuola di Birmingham, vuole, appunto, dimostrare come le forme
culturali precedentemente considerate di bassa qualità, di fatto minacciano
l’ordine sociale in modo significativo, poiché esprimono contenuti proibiti (una
coscienza di classe e una coscienza sella propria diversità) in forme proibite (le
trasgressioni dei codici di condotta o dell’abbigliamento, eccetera), incrinando
l’egemonia societaria.
Le sottoculture giovanili inglesi del dopoguerra sono, dunque, forme
“spettacolari” di espressione, ma quello che esprimono è, in ultima istanza, una
tensione fondamentale tra quelli al potere e quelli relegati a posizioni
subordinate e ad esistenze di seconda categoria. Il modernismo rappresenta per
i giovani proletari una via d’uscita dalla trappola-classe in cui la società
britannica li ha relegati nel difficile periodo postbellico, una “soluzione” ad un
insieme particolare di problemi e di contraddizioni specifici ai mutamenti che,
in quel periodo, stavano toccando l’intera comunità. Come avremo modo di
vedere nell’ultimo capitolo, il tentativo da parte di questi giovani di crearsi uno
stile di vita volto alla ricerca assoluta dell’individualità e del movimento
(possibilmente in avanti o, ragionando in termini di classe sociale, verso l’alto),
permetterà loro di “vivere puliti ed elegantemente” le difficili circostanze
d’esistenza nel mondo reale. Attraverso una combinazione enfatica di musica,
abbigliamento, locali e luoghi rigorosamente “altri” rispetto al grigiore della
vita quotidiana e “rubati” al senso comune e all’estetica imposti dalla società,
le sottoculture agiscono, dunque, come un “rumore” nel silenzioso operare
dell’ideologia dominante permettendo alle classi dominate, di «abbellire , di
decorare, di parodiare e, dove è possibile , di riconoscere una posizione
subalterna, la cui scelta non è mai dipesa da loro, e di elevarsi al di sopra di
essa» (Hebdige 1983, pag. 153).
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Dick Hebdige, Sottocultura il fascino di uno stile innaturale, Costa & Nolan, Genova.
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I.
“Pratiche del consumo culturale”
Il consumo è considerato dai sociologi come una particolare forma di
linguaggio con il quale si comunica in continuazione con altri e attraverso cui
si compongono e si trasmettono messaggi con la funzione sia di definire
appartenenze di gruppo che di distinguere un gruppo dall’altro. I consumatori
scelgono i prodotti come un mezzo per comunicare agli altri le loro relazioni
con insiemi complessi di attributi e valori sociali.
Questa direzione di indagine porta a considerare il consumo come parte di
un più generale stile di vita; con questa espressione si intende un insieme
coerente e distinto di scelte di consumo, ma anche di modi in cui si consuma:
fanno parte di uno stile di vita anche le regole da seguire a tavola o i modi di
dividere il proprio tempo in attività di tipo diverso (Bagnasco; Barbagli;
Cavalli 1997). Per il ricercatore di mercato, mosso unicamente dalla volontà di
identificare i potenziali acquirenti di servizi, gli stili di vita rappresentano tipi
diversi di consumo di cultura e di beni. Utilizzando indicatori differenti come
le caratteristiche demografiche, la collocazione geografica e i tratti della
personalità, egli tenta di analizzare modelli di consumo, nel senso che il
consumo di certi prodotti è associato al consumo di altri. Il consumo non è
quindi visto come un processo unitario ma come riflettente un modello di
comportamento che incorpora acquisti e azioni analoghe. Per il sociologo che
mira a descrivere il potere culturale e la riproduzione sociale, questi modelli di
scelta di beni materiali e di attività di svago suggeriscono invece una
identificazione con significati simbolici che definiscono l’identità personale in
nuovi modi; ciascuno stile di vita viene a rappresentare così un modo di vivere
basato su valori, credenze, abitudini e punti di vista specifici. Questo significa
che non si può comprendere, né dunque spiegare, il comportamento nei
consumi attraverso un semplice sistema di bisogni statisticamente tracciato; ciò
che si deve cercare sono i significati, a volte inconsci, che gli individui danno
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alla sua pratica. Come sostiene Moores portando ad esempio il consumo dei
media, per comprendere appropriatamente i significati della sua ricezione gli
etnografi dovrebbero contestualizzare le reazioni del pubblico mettendole in
relazione con tutta una serie di altre attività sociali, di artefatti e di
interpretazioni, poiché «è giunto il momento di cominciare ad indagare non
soltanto i modi in cui la radio e la televisione (…) vengono usati e dotati di
senso dai consumatori, ma anche gli abiti che essi scelgono di indossare, o i
cibi che mangiano o l’arredamento delle loro case e via dicendo».(1998, pag.
203).
In questo primo capitolo è risultato quindi utile integrare lo studio dei
pubblici dei media con un’analisi sulle pratiche e le politiche del consumo
culturale considerate da due opposte posizioni teoriche, quella di Pierre
Bourdieu e quella di Michel De Certeau, e nell’ambito del complesso rapporto
che intercorre tra l’agire dell’uomo e la struttura sociale sulle rispettive
influenze nel modellare le culture.
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1. Le culture di gusto di Bourdieu
Su consumi e stili di vita come distinzione sociale Pierre Bourdieu ha svolto
in anni recenti in Francia un’ampia ricerca empirica volta a confutare l’idea che
le preferenze per certe attività culturali siano innate o che i significati degli
oggetti siano fissi o immutabili. Nel suo libro La distinzione. Critica sociale
del gusto (1979; trad. it. 1983), sulla base di un campione stratificato per età,
sesso, titolo di studio, professione, il sociologo francese analizza il fenomeno
per il quale la distinzione dei gusti estetici appare allo stesso tempo come il
risultato e come un elemento costitutivo della distinzione di classe; mettendo in
relazione le condizioni di vita definite dalla classe sociale con specifici stili di
vita e di consumo considerati tendenzialmente tipici di determinate classi sulla
base di rilevazioni empiriche, dimostra l’esistenza di definite connessioni tra
gusto, stile di vita e posizione sociale. Egli contesta quindi l’idea piuttosto
diffusa che alcune persone abbiano naturalmente «buon» gusto, mentre altre
siano mosse naturalmente da un gusto «volgare», poiché tutte le preferenze e i
giudizi di valore sono socialmente costruiti.
Definendo il gusto «la capacità di giudicare dei valori estetici» Bourdieu
mostra come tale capacità, e le preferenze ad essa associate, variano a seconda
dei gruppi sociali dando luogo a delle vere e proprie contrapposizioni tra i
gruppi stessi; gli stili di vita sono, infatti, differenziati e resi operanti da criteri
di gusto come il bello e il brutto, il distinto e il volgare, e via dicendo. Ora
questi criteri di gusto costituiscono dei sistemi coerenti. Gli stili di vita
diventano così «non il semplice riflesso della posizione di classe, ma
conseguenza di un gioco di classificazioni culturali operate e subite dai diversi
gruppi» (Bagnasco; Barbagli; Cavalli 1997, pag. 578), ovvero degli insiemi
coerenti di modelli, pratiche, valori, gusti, che qualificano il modo di vita di
una classe distinguendola dalle altre. Il titolo del libro di Bourdieu , La
distinzione, fa riferimento proprio al senso di differenza e di distanza sociale
che avvertiamo quando abbiamo di fronte delle scelte di consumo di altri
gruppi che offendono il nostro gusto estetico; egli sostiene infatti che i gusti
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sono «l’affermazione pratica di una differenza necessaria […] quando devono
giustificarsi , si affermano in forma tutta negativa, attraverso il rifiuto opposto
a gusti diversi». Essi, continua, «sono innanzitutto dei disgusti […] fatti di
orrore o di intolleranza viscerale (“fa vomitare”) per gli altri gusti, cioè per i
gusti degli altri». La cultura concepita quindi come riguardante soprattutto
processi di identificazione e di differenziazione in cui le identità si formano
tramite pratiche di distinzione; è proprio attraverso queste pratiche che
scegliamo e classifichiamo ciò che abbiamo intorno affermando noi stessi.
Questo sistema di distinzioni, tuttavia, non riflette semplicemente le
differenti collocazioni dei soggetti sociali ma gioca una parte importante anche
nella riproduzione concreta di queste divisioni all’interno della società, poiché
sostiene le relazioni di dominio e di subordinazione tra i diversi
raggruppamenti di classe. Secondo Bourdieu le variazioni nel consumo e nel
gusto non sono solo una questione di sistemi simbolici di differenze; egli è
consapevole anche dei mutamenti diacronici del valore degli oggetti culturali a
seconda del cambiamento dei contesti sociali di consumo. Un bene culturale
può, infatti, vedere diminuito il proprio valore nel corso del tempo se, ad
esempio, subisce un processo di commercializzazione di massa; è quello che
può succedere ad un brano di musica colta che, deprezzato dalla divulgazione
dei media, porterà necessariamente i gruppi superiori ad ascoltarne un altro più
di avanguardia. Proprio tramite questi spostamenti i dominanti ristabiliscono
delle distinzioni ben riconoscibili dai dominati. Questo meccanismo ha luogo
persino quando un oggetto culturale circola nello stesso tempo in differenti
culture di gusto, poiché «pochissimi artefatti sono perfettamente “univoci”»
(Bourdieu 1979; trad. it. 1983); la reazione delle classi superiori sarà quella di
mantenere la distanza sociale tramite l’acquisto di oggetti più costosi e meno
accessibili alla massa.
La cultura alta assume così il potere di aumentare o rinforzare lo status della
élite dominante escludendo tutti coloro che non hanno avuto i mezzi per poterla
acquisire e perciò comprendere ed apprezzare. In questa prospettiva
l’istruzione e l’origine sociale sono le variabili fondamentali che Bourdieu