3
Introduzione
La scelta di condurre un’analisi sulle operazioni di peacekeeping a
comando Onu e sullo status giuridico e la responsabilità internazionale
dei caschi blu in tali operazioni, nasce dalla considerazione che il tema
non ha dei contorni così marcati da poter comportare una immediata
comprensione del quadro politico-istituzionale e giuridico che vi sta
intorno.
Da quante parti è composto questo quadro giuridico? È un terreno
facilmente districabile? Quali sono le conseguenze di questa intricata
“matassa” in merito alla responsabilità dei peacekeepers che
commettano atti illeciti? E infine, come si pone la “nuova”
giurisprudenza dei tribunali penali istituiti ad hoc e della Corte Penale
Internazionale? Sono questi i quesiti di partenza che sottendono al
ragionamento. Per una migliore e più approfondita analisi è stato deciso
di porre l’accento sulle problematiche relative alle operazioni
peacekeeping a comando Onu, accennando solo alle missioni
multinazionali meramente “autorizzate” dal Consiglio di Sicurezza, in
cui il comando spetta agli Stati facenti parte della coalizione e non
all’Organizzazione.
All’analisi sottostà anche la profonda convinzione che i diritti umani
vadano garantiti sempre, quindi anche in situazioni di particolare gravità
o emergenza quali sono le operazioni di peacekeeping. Per questo
motivo, oltre alla disamina prettamente normativa sull’evoluzione negli
anni delle operazioni di pace e sulle norme a protezione del personale
che afferisce all’Organizzazione ai più diversi livelli, verrà anche posto
in evidenza come condotte collaterali in completa antitesi con lo spirito
delle missioni - sfruttamento e abuso sessuale – si siano verificati in
svariati casi. La scelta di concentrare l’attenzione anche su queste realtà
è stata difficoltosa sia per i rischi di facile moralismo in cui si può
4
incorrere, sia per la forte connotazione assiologica di tutto ciò che
riguarda le Nazioni Unite e di tutto ciò che questo comporta per quanti,
in particolare i peacekeepers, si assumono l’onere e la responsabilità di
tradurla nei fatti.
Nello specifico, nel primo capitolo verrà presentata una breve
introduzione su quelle che sono le operazioni di peacekeeping, sulle loro
caratteristiche e sulla loro evoluzione. Verrà approfondita la normativa
relativa alla sicurezza del personale Onu e del personale associato con
specifico riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla
sicurezza del personale delle Nazioni Unite e del personale associato del
1994 e relativo Protocollo del 2005; alla Convenzione sui privilegi e le
immunità delle Nazioni Unite del 1946; ai c.d. Statuti delle Forze (SOFA
– Status of Force Agrement); alle norme ricavabili dal corpus normativo
del diritto internazionale dei conflitti armati (Convenzioni di Ginevra del
1949 e Protocolli addizionali del 1977); alle norme ricavabili dallo
Statuto della Corte Penale Internazionale del 1998.
Il secondo capitolo si addentrerà in quelle che sono le caratteristiche del
rapporto fra le Nazioni Unite, gli Stati troop contributors (cioè gli Stati
che contribuiscono alla costituzione della Forza multinazionale sotto il
comando dell’Onu) e lo Stato in cui si dispiega l’operazione. Attraverso
un attento esame sui SOFA – Status of Forces Agreements – l’attenzione
verrà concentrata sulle questioni e sulle conseguenze dell’immunità dalla
giurisdizione locale e dell’immunità totale dalla giurisdizione penale che
viene stabilita in questi atti. Il capitolo si conclude con una attenta
riflessione sul diritto internazionale umanitario, sulla sua violazione e
sulla sua applicazione da parte delle Forze dell’Onu e sulla normativa
relativa ai diritti umani.
Il terzo capitolo tratterà delle già menzionate condotte collaterali, i SEA
(Sexual Exploitation and Abuse), verificatisi durante alcune operazioni
5
di pace e degli strumenti posti in essere dall’Onu per cercare di prevenire
e arginare questo atroce fenomeno.
L’elaborato si conclude con una disamina della giurisdizione dei
tribunali penali internazionali, e in particolare della Corte Penale
Internazionale, in merito all’imputazione e alla responsabilità
internazionale delle Forze a comando Onu. L’obiettivo centrale è quello
di indagare come la giurisdizione dei tribunali penali internazionali ad
hoc e della Corte Penale Internazionale si sia posta in riferimento al
riconoscimento della responsabilità e della punizione dei membri delle
Forze di pace per la commissione di eventuali atti illeciti, tenendo
presente che ostacoli alla giurisdizione della Corte Penale Internazionale
sono stati, paradossalmente, posti in essere nell’ambito delle Nazioni
Unite, nello specifico dal Consiglio di Sicurezza, e da una intransigente
“posizione statunitense”.
L’elaborato non ha la pretesa di essere esaustivo sull’argomento, anche
perché la prassi che riguarda il tema è, mentre si discute, in piena
evoluzione. Si pensi ad esempio alla normativa riguardante la creazione
della Corte Penale Internazionale la cui giurisprudenza, si auspica,
svolgerà un ruolo centrale negli anni a venire.
Partendo da un’analisi critica dei fatti e degli strumenti normativi
internazionali, la ricerca si prefigge di essere e di offrire un punto di
riflessione con riguardo innanzitutto alla figura dei peacekeepers e del
ruolo che la società internazionale, la giustizia internazionale e i policy-
maker possono svolgere in merito alla definizione di un sempre meno
ambiguo quadro normativo riguardante lo status giuridico di questi
operatori per la pace e poi in merito alla volontà di ricercare la giusta
strada per una profonda cooperazione in materia di giustizia
internazionale.
7
Status giuridico e responsabilità internazionale dei caschi blu
nelle operazioni di peacekeeping
1. Peacekeeping operations e status giuridico delle Forze impiegate
SOMMARIO: 1.1 Sviluppo delle peacekeeping operations: una definizione – 1.1.1
Costituzione dell’operazione – 1.2 Sicurezza del personale Onu e del personale
associato
1.1 Sviluppo delle peacekeeping operations: una definizione
Ancora agli inizi del XX secolo, l’uso della violenza armata come
strumento di autotutela da parte di uno stato veniva riconosciuto come
legittimo: gli eserciti erano, accanto alla diplomazia, l’istituzione a cui
spettava il compito di gestire i conflitti con altri stati. Con la nascita delle
Nazioni Unite, l’alleanza degli Stati vincitori del Secondo conflitto
mondiale intese realizzare un sistema di sicurezza collettiva: sarebbe
stata l’istituzione che rappresenta la quasi totalità degli stati, l’Onu
appunto, a incaricarsi della difesa della pace e della sicurezza
internazionale.
Il sistema originariamente previsto dal capitolo VII della Carta
prevedeva l’obbligo per gli Stati membri di mettere a disposizione del
Consiglio di Sicurezza le forze necessarie ad adempiere i compiti sanciti
dalla Carta. Come noto, tuttavia, la mancata attuazione di alcune delle
disposizioni della Carta, nello specifico l’art. 47 che prevede la creazione
di uno strumento militare delle Nazioni Unite sotto il comando di uno
Stato Maggiore, ha determinato il ricorso ad un’altra tipologia di
operazioni per il mantenimento della pace non espressamente previste: le
c.d. peacekeeping operations. Tuttavia, oltre alle operazioni condotte
direttamente dalle Nazioni Unite, la prassi mostra come accanto ad esse
si sono sviluppate missioni multinazionali meramente “autorizzate” dal
8
Consiglio di Sicurezza, autorizzazione che può essere preventiva o
posteriore. Queste c.d. “coalizioni di volontari” svolgono operazioni sia
di peace-enforcement che di peacekeeping. Esempi sono le missioni
Desert Storm in Iraq, Interfet a Timor-Est o Enduring Freedom in
Afghanistan. In questi casi, però, il comando spetta agli Stati facenti
parte della coalizione e non all’Organizzazione.
1
Prima di proseguire nella nostra analisi delle operazioni di peacekeeping
che si sviluppano nell’ambito del comando e della responsabilità
dell’Onu, è necessario chiarirere il concetto di “operazioni di
mantenimento della pace”.
Il numero e l’eterogeneità delle definizioni di peacekeeping che sono
state prodotte fino ad oggi è quasi disorientante. Anch’esse hanno
seguito l’iter evolutivo di tali missioni. Una delle definizioni più
autorevoli e ponderate è stata formulata proprio dall’Onu in The blue
helmets: A review of United Nations peacekeeping.
2
Essa, risale al 1990
e descrive il peacekeeping come “un’operazione che coinvolge personale
militare, ma senza poteri di enforcement, intrapresa dalle Nazioni Unite
per aiutare a mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza nelle aree di
conflitto. Queste operazioni sono volontarie e si basano sul consenso e
sulla cooperazione”. Boutros Boutros-Ghali (Segretario Generale delle
Nazioni Unite dal 1992 al 1996), in Un’agenda per la pace, definisce il
mantenimento della pace come “il dispiegamento di una presenza delle
Nazioni Unite sul campo, previo consenso di tutte le parti interessate,
che implica personale militare e/o di polizia e spesso anche civili”.
Tuttavia, “spesso i cessate il fuoco sono stati concordati ma non
rispettati, e qualche volta le Nazioni Unite sono state invitate a inviare
forze per ristabilire e mantenere una tregua. Questo compito può
1
G. Bartolini, Le problematiche giuridiche alle Forze Armate impiegate all’estero, Gorizia, 2005, p.15.
2
United Nations Organization, The blue helmets: A review of United Nations peacekeeping, New York, 1990.
9
all’occorrenza superare la missione delle forze di peacekeeping e le
aspettative dei paesi contributori”.
3
Nel 2000 il Panel presieduto da Brahimi (diplomatico algerino, inviato e
consulente delle Nazioni Unite fino al 2005) per la stesura di un
Rapporto che facesse luce sulle operazioni di mantenimento della pace a
molti anni di distanza dall’Agenda per la pace, definisce il peacekeeping
come “un’impresa vecchia di cinquanta anni che è evoluta rapidamente
nell’ultimo decennio da un modello tradizionale, principalmente un
modello militare di supervisione dei cessate il fuoco e separazione delle
forze in guerre tra stati, fino a costituire un modello complesso
organizzato in tanti fattori, militari e civili, che lavorano insieme per
costruire la pace in pericolosi scenari di guerra prevalentemente civile”.
Come già anticipato le operazioni di peacekeeping non possono essere
iscritte in un quadro giuridico e politico definito, poiché il peacekeeping
non è stato concepito dai fondatori delle Nazioni Unite, ma piuttosto è
evoluto insieme all’Organizzazione. Nella Carta dell’Onu non viene fatta
alcuna menzione del peacekeeping: non nel capitolo VI, che analizza il
tema della “soluzione pacifica dei conflitti”, e neppure nel capitolo VII
dove si prevede la possibilità di utilizzare la forza. Proprio perché il
peacekeeping non risponde alla logica di nessuno dei due capitoli della
Carta summenzionata , ma si inserisce piuttosto nel solco che li separa,
Dag Hammarskjold (Segretario Generale delle Nazioni Unite dal 1953 al
1961), è ricorso ad un espediente linguistico-concettuale di forte impatto
coniando l’espressione “capitolo sei e mezzo”
4
.
Una definizione esaustiva delle operazioni di peacekeeping è resa ancora
più ardua dal fatto che, insieme all’evoluzione del sistema
internazionale, anche il tipo di missioni è sostanzialmente mutato. Lo
3
B. Boutros-Ghali, Un’agenda per la pace. diplomazia preventiva, pacificazione e mantenimento della pace. Rapporto del
Segretario Generale, New York, 2002.
4
N. Gasparini, Le operazioni Onu di Peacekeeping nella realtà e secondo il Brahimini Report, Gorizia, 2004, p. 8.
10
spartiacque di questo percorso può essere sicuramente individuato nel
processo di conclusione della Guerra fredda e nel conseguente riassetto
degli equilibri interni al Consiglio di Sicurezza. Le missioni di
peacekeeping decise ed organizzate dall’Onu hanno avuto inizio nel
1948 e talune sono ancora in corso poiché il problema a monte resta
ancora irrisolto
5
. La prima missione, del 1948 (Untso), riguarda la
pacificazione del Medio Oriente e per molti contenuti è ancora in piedi,
insieme alla missione Undof relativa alle alture del Golan e alla
missione Unficyp relativa a Cipro. Tuttavia è da evidenziare che delle 51
missioni svolte fino ad oggi dall’Onu, più dei due terzi sono state
effettuate proprio a partire dagli anni Novanta.
6
Dinnanzi alle operazioni di peacekeeping condotte direttamente
dall’Organizzazione, in assenza di chiari dati normativi la dottrina si è
soffermata sulla possibilità di identificare varie “generazioni” di
operazioni di peacekeeping, al fine di individuare caratteristiche comuni
per meglio classificare la prassi. Gli elementi base delle operazioni di
mantenimento della pace tradizionali, o peacekeeping di prima
generazione, quelle a cui si ricorreva prima del 1989, sono: il consenso,
l’imparzialità e l’uso della forza per autodifesa.
È bene anticipare che uno dopo l’altro, parallelamente all’evoluzione del
sistema internazionale, questi principi sono stati messi in discussione.
- Il consenso. Le forze di peacekeeping venivano spiegate
solamente dopo che le due parti coinvolte avevano concordato un
cessate il fuoco, con lo scopo di abbassare il livello di
conflittualità ed accrescere la fiducia reciproca – attraverso
un’azione di trust-building – in attesa di definire un vero e proprio
accordo di pace. Per questo era fondamentale l’accordo delle parti.
5
Si veda http://www.un.org/en/peacekeeping/
6
Ibidem, p. 17.
11
Gli attori in questione, eccezion fatta per l’operazione in Libano,
erano attori statali. Questo primo requisito è stato anche il primo
elemento ad essere spesso eluso; è intuitivo capire come agire con
il consenso delle parti trovi grandi ostacoli di carattere sistemico.
Sempre più spesso l’Onu deve intervenire in conflitti intra-statali,
guerre civili in cui è difficile individuare con chiarezza gli
interlocutori e gli attori sul campo, perché sovente si ha a che fare
con bande armate e non con unità regolari statali.
- L’imparzialità. L’operazione, ovvero concretamente i caschi blu,
deve mantenere una condotta equidistante rispetto alle fazioni in
lotta, senza farsi coinvolgere dalla logica polarizzante amico-
nemico. Ma il concetto di imparzialità è astratto e si presta a
molteplici letture. L’imparzialità non deve equivalere alla
neutralità o ad un trattamento eguale delle parti in ogni caso e
sempre, perché ciò equivale a una politica di pacificazione a tutti i
costi, che può essere pagata a caro prezzo. Le fazioni locali non
sono uguali moralmente, rappresentano invece aggressori e vittime
in casi simili e quindi i peacekeepers possono essere giustificati a
ricorrere alla forza e/o moralmente costretti a farlo. Si pensi ad
esempio al genocidio compiuto in Ruanda.
- L’uso della forza. L’uso della forza nelle operazioni di prima
generazione era previsto solo in casi di autodifesa. Il problema
relativo al tipo di forza dispiegata è subordinato alle regole di
ingaggio (Rules of Engagement), definite preventivamente
all’avvio della missione ma spesso vaghe e imprecise. Ad
esempio, nella missione di pace in Congo (1960-1964) il mandato
dell’operazione prevedeva il ricorso alla forza solo in casi di
autodifesa. Il testo, tuttavia, non si spingeva oltre e non andava nel
dettaglio di cosa si dovesse intendere per legittima difesa o cosa
12
avrebbe dovuto fare un casco blu in caso di aggressione. Inoltre i
caschi blu poco equipaggiati potrebbero essere un fattore
pregiudicante in quanto, lungi dal facilitare la conclusione del
conflitto, potrebbero essere oggetto di rapimenti.
A partire dalla loro creazione e per diversi decenni, quindi, le missioni di
peacekeeping di prima generazione hanno svolto una serie limitata di
compiti: il dispiegamento di una forza cuscinetto tra forze armate
avverse nella fase di un conflitto internazionale successiva a quella della
violenza bellica; la sorveglianza lungo linee del cessate il fuoco o
frontiere; l’osservazione di una tregua; la stabilizzazione interna per
impedire il riaccendersi dei combattimenti.
In seguito alle trasformazioni del sistema politico internazionale
avvenute alla fine degli anni Ottanta, le Nazioni Unite hanno vissuto un
periodo di enorme espansione della loro attività e hanno dato vita a
nuove forme di intervento. Le operazioni avviate sono state modellate in
funzione al contesto in cui si andava ad intervenire, sempre ispirandosi
allo spirito originale del peacekeeping: interposizione fra i belligeranti,
congelamento dell’escalation e sforzo di mediazione.
Così è nato il peacekeeping “multifunzionale” o di seconda generazione.
In tutti questi casi al dispiegamento di truppe militari si è accompagnato
un numero considerevole di personale non-militare. Oltre alle classiche
funzioni, le operazioni multifunzionali possono prevedere: monitoraggio,
controllo, organizzazione, conduzione di elezioni; coordinamento per la
ricostruzione economica; costituzione e controllo di nuove forze di
polizia; supervisione delle strutture amministrative già esistenti,
controllo del rispetto dei diritti umani; ritorno di rifugiati; progettazione
e realizzazione di programmi di sminamento. Questi tipi di operazioni
rivestono particolare interesse perché integrano la componente militare
13
con quella civile, tanto che esiste una certa difficoltà a mantenere distinte
le diverse funzioni.
7
Nell’ultimo decennio, poi, la comunità internazionale è ricorsa anche al
peace-enforcement. Con le missioni in Somalia (in particolare Unosom
II) e la missione Unprofor nella ex-Jugoslavia, le Nazioni Unite hanno
iniziato una nuova fase. Le novità principali di tali operazioni
consistevano nell’assenza di un cessate il fuoco, condizione fino ad
allora essenziale per il dispiegamento di una missione di peacekeeping, e
nel fatto che le risoluzioni che ne definivano il mandato si riferissero
esplicitamente al capitolo VII della Carta Onu (il quale prevede
l’impiego di misure coercitive a salvaguardia della pace). In questo tipo
di missioni il consenso delle parti coinvolte non è più considerato
elemento indispensabile. La tendenza a creare forme di peacekeeping
“robusto” parte dalla considerazione che truppe dell’Onu adeguatamente
armate possono contribuire in maniera più rilevante alla riduzione degli
effetti provocati dalla violenza bellica sulla popolazione civile. Tuttavia
in mancanza delle condizioni alla base del peacekeeping tradizionale, tali
operazioni si sono ritrovate in una zona grigia tra il mantenimento della
pace e l’intervento armato coercitivo.
8
1.1.1 Costituzione dell’operazione
Le modalità con le quali le operazioni di mantenimento della pace
vengono a realizzarsi seguono un medesimo iter, tramite cioè una
risoluzione del Consiglio di Sicurezza nella quale, dietro accordo
preventivo con lo Stato territoriale in oggetto, si autorizza il Segretario
Generale delle Nazioni Unite a reperire le risorse sia tecniche che umane
7
Ibidem, pp. 9-13.
8
A questo proposito, alcuni autori fra cui E. Arielli e G. Scotto in Conflitti e mediazione, Milano, 2003, pp. 140-148,
sottolineano come la logica del peacekeeping si basa su premesse politiche e militari completamente differenti dagli interventi
di imposizione della pace, cioè di enforcement, poiché la dinamica di quest’ultimo è incompatibile con il processo politico di
ricostruzione che il peacekeeping tradizionale vuole facilitare. Infatti, se l’uso della violenza militare rompe lì equilibrio del
consenso, la missione di peacekeeping si trasforma in una operazione di imposizione della pace.
14
per intraprendere la missione indicata. Nella prassi il Consiglio di
Sicurezza delega al Segretario Generale il compito di predisporre e
creare il contingente che materialmente opererà sul campo. È il
Segretario che attraverso il “Dipartimento per le operazioni di
mantenimento della pace” (Dpko) cura gli aspetti politici, miliari,
logistici e finanziari della missione, essendo anche il responsabile della
direzione esecutiva e del comando delle operazioni.
Altrettanto importante è il ruolo dei paesi troop contributors, dei paesi
cioè che mettono a disposizione i loro soldati per le operazioni di pace.
Con ogni singolo paese (non avendo mai trovato attuazione la
costituzione di un esercito delle Nazioni Unite) e per ogni singola
operazione si rende necessaria la stipulazione di un accordo fra lo stato
contribuente e le Nazioni Unite. Questo compito si è dimostrato di non
facile assolvimento per il Segretario, poiché non sussiste alcun obbligo
giuridico per gli Stati membri di concedere proprie truppe in relazione ad
eventuali operazioni di peacekeeping condotte dalle Nazioni Unite.
Tuttavia va considerato come in capo al Segretario sussista un potere
discrezionale di accettare eventuali offerte di collaborazione provenienti
dagli Stati, non essendovi norme che attestino l’esistenza di un diritto a
partecipare al contingente. Ovviamente, data la penuria di risorse
disponibili, difficilmente potrà verificarsi tale evenienza. Pur in
mancanza di un sistema istituzionalizzato volto al trasferimento del
controllo strategico sui contingenti nazionali degli Stati membri delle
Nazioni Unite, al fine di ottenere una più rapida partecipazione, si è dato
avvio negli ultimi anni ad appositi meccanismi e strutture. Gli stati
contributori – in gergo TCCs – sono gestiti dal sistema Unsas (United
Nations Stand-by Arrangement System) che coordina i contributi dei
paesi sia nei termini militari, che nei termini del personale di polizia
civile e del personale civile, individuando preventivamente in ogni