. Vengono poi specificati gli elementi caratteristici afferenti alle
operazioni predette, i quali possono mutare a seconda del contesto
storico e pratico in cui le stesse operazioni si sviluppano. . .........
. . .Dall’analisi di una “prima generazione” di operazioni, basate sul
consenso dello Stato ospitante (detto anche territoriale), sull’uso della
forza solo per esigenze di autodifesa e sull’imparzialità o neutralità dei
contingenti nei confronti delle diverse fazioni in lotta tra loro, si passa
poi alla disamina di una “seconda generazione” di missioni di pace: si
tratta delle più recenti tipologie di intervento basate, oltre che sul
consenso dello Stato territoriale e sulla neutralità della Forza
interveniente, su altri due elementi, e precisamente la preponderante
presenza della componente civile su quella militare e lo svolgimento
sempre più marcato di compiti di natura squisitamente civile (rimpatrio
dei rifugiati, assistenza umanitaria, controllo sull’attuazione dei diritti
umani, organizzazione e controllo del regolare svolgimento delle
elezioni o dei referendum, ecc.). Nell’ambito dell’esame delle operazioni
di “seconda generazione”, si definisce inoltre il ruolo e l’importanza
delle cosiddette missioni di osservazione. . .
Si analizzano poi le operazioni della “terza generazione”, e cioè
quelle che si differenziano profondamente dalle prime due tipologie di
intervento, essenzialmente perchè prevedono l’impiego di Forze
legittimate all’uso della violenza militare al fine non più solo di
mantenere la pace ma di realizzarla. Rispetto alle precedenti due
“generazioni” di missioni di pace, in quest’ultimo caso le Forze non
mantengono il requisito della neutralità e possono operare anche in
assenza del consenso delle parti in causa.
Viene poi affrontata la problematica dell’ ingresso non autorizzato
delle Forze di pace: si tratta dei casi in cui i componenti della Forza
II
entrano in uno Stato senza alcun permesso o autorizzazione dati dallo
stesso. Situazioni di non collaborazione da parte dello Stato territoriale si
individuano, inoltre, allorquando accade che i contingenti operanti
incontrino, nello svolgimento delle loro attività, difficoltà e ostacoli
causati dall’atteggiamento ostile di tale Stato.
Il capitolo continua con l’analisi della molteplicità dei compiti
affidati al personale appartenente alla Forza di pace che è chiamato ad
operare in contesti che, sul piano pratico, si caratterizzano per
l’impossibilità di distinguere nettamente tra le diverse funzioni della
prevenzione del conflitto, della pacificazione, del mantenimento e
dell’imposizione della pace, della ricostruzione e dell’aiuto umanitario:
si realizzano, in tali circostanze, le operazioni cosìddette multifunzionali.
Si rileva la complessità di tali operazioni dovuta all’attribuzione alla
Forza di compiti eterogenei, prevalentemente interni e di natura civile,
politica, umanitaria, militare, compiti che in situazioni normali sarebbero
insomma di competenza esclusiva dello Stato territoriale.
Il primo capitolo si conclude con l’elenco delle quattro
fondamentali funzioni (funzione militare, funzione politica, funzione
umanitaria, funzione sociale) assegnate ai membri delle Forze armate
intervenienti “fuori area” e con l’indicazione dei rispettivi svariati
compiti che fanno capo alle funzioni stesse.
Nel secondo capitolo è trattato il procedimento attraverso il quale
avviene la costituzione di una Forza di pace. Nel contesto dell’istituzione
di tale Forza si evidenzia il ruolo dell’ ONU che, attraverso il Consiglio
di sicurezza e il Segretario generale, stipula accordi con gli Stati membri
e si rappresenta l’adottata prassi secondo cui, per ogni singola
operazione all’ estero, il Segretario generale, delegato dal Consiglio di
sicurezza, procede tramite appositi accordi con gli Stati parte.
III
. Si rileva quindi la mancata realizzazione .degli accordi speciali
previsti dall’articolo 43 della Carta delle Nazioni Unite, accordi che
sanciscono un impegno, o più propriamente un dovere, per gli Stati
membri, di mettere a disposizione del Consiglio di sicurezza, a sua
richiesta, i contingenti necessari per svolgere l’azione di mantenimento
della pace. Considerata allora la circostanza dell’inesistenza di vincoli
giuridici, a carico di tali Stati membri, nella concessione di proprie
truppe per eventuali operazioni di pace, viene di conseguenza segnalata
la difficoltà degli organi dell’ONU nel predisporre concretamente la
Forza.
Constatato che non vi è un vero e proprio esercito dell’ ONU, si
pone il problema di come garantire alle Nazioni Unite, quando ve ne sia
il bisogno, l’immediata disponibilità delle Forze.
Vengono in seguito analizzati i sistemi di intese in base ai quali gli
Stati membri, quando richiesto, decidono di mettere a disposizione delle
Nazioni Unite le proprie Forze.
Si esaminano successivamente le funzioni del Segretario generale
delle Nazioni Unite, del Rappresentante speciale e del Comandante
supremo nel loro ruolo di comando e controllo delle Forze costituite per
le operazioni di pace internazionali. Sempre nell’ambito del comando e
del controllo della Forza, si accenna all’utilità della creazione di un’
apposita polizia militare con il compito di assicurare l’ordine e la
disciplina tra i membri partecipanti all’operazione.
Si considera, poi, brevemente l’Accordo modello predisposto dal
Segretario generale nel 1991, accordo che, nell’occuparsi della gestione
della Forza sul campo, enuncia le principali caratteristiche del rapporto
che viene ad instaurarsi fra l’Organizzazione delle Nazioni Unite e gli
Stati contribuenti.
IV
Si passa quindi ad esaminare le modalità di subordinazione delle
Forze alle Nazioni Unite e la prassi secondo cui gli Stati contribuenti
tendono, anche dopo avere assegnato i propri contingenti alle autorità
onusiane, a gestire il proprio personale inviato all’estero. A tale scopo
vengono presi in considerazione alcuni casi di contingenti nazionali che
non si sono attenuti complessivamente alle direttive dell’ ONU o che
addirittura hanno optato per un proprio ritiro anticipato dal contesto
dell’operazione.
La non completa adesione da parte degli Stati contribuenti alle
direttive emanate dall’ONU offre lo spunto per osservare la consolidata
prassi secondo la quale taluni Stati, spesso inseriti in un’organizzazione
regionale o in accordi regionali nel campo della sicurezza e del
mantenimento della pace, ricevono l’autorizzazione da parte del
Consiglio di sicurezza a svolgere autonomamente una determinata
operazione (potendo dunque esercitare un dominio più marcato sul
proprio contingente e sulla condotta dell’azione internazionale). Viene
puntualizzata la rilevanza di tale autorizzazione, meglio detta risoluzione
autorizzativa.
Si fa il punto sul sistema dei rapporti che, per via del
dispiegamento delle truppe internazionali, si instaurano tra l’
Organizzazione delle Nazioni Unite e gli Stati territoriali; a tale scopo si
analizza la Convenzione sui privilegi e le immunità delle Nazioni Unite
approvata dall’ Assemblea generale nel 1946, enunciandone anche le
carenze, e cioè la sua genericità e il fatto che alcuni Stati territoriali, non
risultando firmatari della stessa, non ne sono parte. Tali carenze pongono
l’esigenza del ricorso alla conclusione sia di specifici accordi integrativi
e/o suppletivi stipulati tra i competenti organi dello Stato territoriale e il
Segretario generale (o i suoi principali collaboratori), sia dell’ Accordo
V
modello del 1990. In relazione alla stipula di tali accordi e al loro
contenuto, si fa cenno ai doveri di rispetto che la Forza ha nei confronti
dello Stato in cui opera.
Si procede con l’enunciazione di alcune norme presenti nell’
Accordo modello del 1990, disciplinanti gli obblighi che lo Stato
territoriale assume verso i componenti della Forza interveniente, e con
l’esposizione dei privilegi e delle immunità riservati ai membri dei
contingenti operanti.
Si analizza, poi, la delicata questione delle immunità dalla
giurisdizione penale e civile a favore dei membri della Forza operante,
distinguendo principalmente tra personale militare e personale civile da
una parte, e tra attività di carattere ufficiale o meno dall’altra. Allo scopo
di evidenziare, nel contesto dei rapporti tra la Forza operante e lo Stato
che la ospita, l’esigenza della prevenzione e repressione degli illeciti,
viene posto in risalto l’aspetto della cooperazione tra le autorità dello
Stato territoriale e quelle del contingente internazionale.
Il capitolo terzo, dopo una sintetica introduzione sulla sua nascita,
affronta l’evoluzione del ruolo della NATO: dalla funzione di difesa all’
intervento causato dalle nuove minacce provenienti da alcuni Stati; dal
vecchio concetto strategico a quello nuovo; dalla legittima difesa
collettiva alla funzione stabilizzatrice.
Si spiega come la NATO, oltre a conservare la capacità di
combattere le guerre, assuma l’importante compito di promuovere la
stabilità.
Vengono poi individuati i cinque obiettivi fondamentali che
l’Alleanza atlantica si prefigge.
Dopo aver accennato all’evoluzione delle operazioni effettuate
dall’Alleanza in vista delle nuove esigenze, si passa ad esporre
VI
l’origine, l’evoluzione e il ruolo della Forza di reazione rapida della
NATO, Forza definita come il braccio operativo più evoluto
dell’Alleanza e capace di rispondere in tempi ristrettissimi ad un’ ampia
gamma di situazioni di crisi.
Si esamina la Convenzione di Londra del 1951, che costituisce un
sistema di norme atte a regolare lo status delle Forze armate appartenenti
ai paesi dell’Alleanza e operanti in Stati membri della stessa.
Si sottolinea come tale Convenzione auspichi un sistema di Stati
che negozino reciprocamente in posizione di assoluta parità.
E’ fatto cenno alla non rara possibilità che all’interno della
Convenzione del 1951 possano esservi dei vuoti normativi e al
conseguente diritto, attribuito agli Stati dell’ Alleanza, di stipulare
specifici accordi bilaterali regolanti le fattispecie non previste.
Viene di seguito mostrato l’ambito applicativo della Convenzione
medesima, distinguendo le tre categorie di soggetti che ne risultano
beneficiari: la componente militare, la componente civile e i cosiddetti
“dipendenti” (cioè gli individui a carico del personale militare o civile
che si trovano assieme ad esso nel paese ove la Forza è dispiegata).
Nello specifico si analizzano alcune disposizioni presenti nella
Convenzione, indicando i principali diritti e doveri attribuiti alle predette
categorie di soggetti.
Con riferimento alle categorie della componente militare e civile
nonchè ai “dipendenti”, viene affrontato il tema dell’esercizio della
giurisdizione nel caso di commissione di attività illecite, procedendo ad
una ripartizione delle competenze
giurisdizionali tra le autorità dello
Stato territoriale e quelle dello Stato di invio della Forza. In tale ambito
si specificano le ipotesi di giurisdizione esclusiva nonchè quelle di
VII
giurisdizione concorrente. Si fa cenno anche alle possibilità e modalità di
deroga dalla giurisdizione spettante ad uno dei due Stati.
In contesti e situazioni dove autorità con diversi ordinamenti
giuridici interagiscono, è possibile la sovrapposizione o la confusione di
regole. Viene allora evidenziato come nei casi di commissione di illeciti
da parte del personale che opera all’estero, sia importante la tutela
prevista dal principio del “ne bis in idem”: tale principio provvede ad
impedire che un soggetto venga punito una seconda volta per la stessa
azione illecita.
Si rileva quindi come, in un sistema di rapporti tra Stato territoriale
e Stato contribuente, sia decisamente importante prevedere meccanismi
di cooperazione volti a stabilire reciproche garanzie.
Viene poi trattato, ancora secondo quanto disposto dalla
Convenzione di Londra, il regime regolante le pretese risarcitorie che
possono derivare dalle attività svolte dal personale civile o militare di
uno Stato NATO nel territorio di un altro paese membro.
E’ parso utile, alla fine del terzo capitolo, illustrare in che modo,
nella pratica, può trovare applicazione la Convenzione del 1951. Essendo
l’Italia un paese membro della NATO, e quindi aderente alla
Convenzione predetta, si è preferito affrontare l’emblematico caso della
funivia del Cermis.
Il quarto capitolo si propone di esaminare le tematiche attinenti alla
Politica di sicurezza e difesa dell’Unione europea, con riferimento alle
capacità militari della stessa e al suo coinvolgimento nei teatri di crisi
internazionali a partire dal 2003, anno in cui l’Unione inizia a lanciare le
sue prime missioni di pace.
Nella prima parte del suddetto capitolo si prende in esame la
nascita e lo sviluppo istituzionale della Politica europea di sicurezza e
VIII
difesa (o PESD, come viene battezzata durante il vertice di Colonia del
1999), vista come parte integrante della Politica estera di sicurezza
comune.
L’excursus storico prende avvio dagli anni Cinquanta, quando la
guerra fredda e la minaccia del comunismo sovietico pongono
all’attenzione della Comunità economica europea la necessità di
costituire una Comunità europea di difesa, dotandola di un esercito
federale europeo. Si analizza il vano tentativo di istituzionalizzare la
cooperazione intergovernativa in materia di difesa, la creazione della
CED, che per l’appunto si conclude con un nulla di fatto nel 1954 e il
tentativo altrettanto vano di creare un esercito europeo che, pur auspicato
da varie parti, non vedrà infatti mai la luce.
Si passa ad esporre come negli anni successivi, mentre la
cooperazione economica dei paesi europei prosegue con successo, quella
politica e di difesa subisce una battuta d’arresto, anzi viene accantonata
.tant’è che per circa quarant’anni la politica di sicurezza e difesa rimane
competenza esclusiva della NATO e dell’Organizzazione dell’Europa
occidentale.
Ci si sofferma sulle innovazioni introdotte dal Trattato di
Maastricht del 1992 che istituisce ufficialmente la Politica estera e di
sicurezza comune esplicitandone obiettivi, principi, orientamenti e
strategie. . .
. Si passa poi ad esaminare il Trattato di Amsterdam del 1997 che
codifica le prime vere novità in materia di sicurezza e difesa comune:
sistemi decisionali, organismi e figure istituzionali. Si sottolinea
l’importanza del Trattato nel processo di rinnovamento dei rapporti tra
UEO e UE.
IX
Si rappresenta, poi, come l’UE, anche in previsione di un
progressivo declino dell’UEO, continui a lavorare per il rafforzamento
della Politica di sicurezza e difesa: essa acquisisce nel corso degli anni
successivi, grazie ai due Consigli europei di Colonia e di Helsinki
(entrambi del 1999), strumenti decisionali, strutture militari (è il caso
della Forza di reazione rapida) e quadri di comando; tutto ciò consente
all’UE di raggiungere gli obiettivi di Petersberg.
Si esaminano le più recenti innovazioni in materia di PESD
contenute nel progetto di Trattato costituzionale approvato dalla
Convenzione europea del 2003, innovazioni riguardanti forme più
efficaci di cooperazione tra gli Stati, con possibilità di prevenire e
fronteggiare le più recenti minacce tra cui il terrorismo internazionale.
Il capitolo propone successivamente un approfondimento
riguardante le missioni di pace dell’UE previste dai compiti di
Petersberg e mette in evidenza come esse, pur non avendo limiti dal
punto di vista geografico, debbano rispondere a requisiti essenziali di
legittimazione, di imparzialità, di precise modalità nell’uso della forza.
Si precisa come il TUE, pur non fornendo un elenco dettagliato delle
missioni che l’UE può porre in essere, annoveri accanto alle missioni a
bassa intensità quelle ad alta intensità. Con il Trattato che adotta una
costituzione per l’Europa sembrano prefigurarsi azioni militari di
contrasto a gruppi terroristici.
.........Si passa poi ad esporre come il processo di sviluppo della PESD
abbia riguardato due distinte componenti: la gestione militare delle crisi
internazionali e la gestione civile o di polizia delle crisi internazionali.
.........In merito alla gestione militare delle crisi, si procede alla
descrizione della Forza di reazione rapida, la struttura militare introdotta
dal Consiglio europeo di Helsinki allo scopo di attrezzare l’Unione delle
X
capacità militari necessarie per intervenire nei contesti in cui la NATO
non è impegnata.
…….Vengono poi indicati dettagliatamente composizione,
caratteristiche tecniche, strutture di comando, compiti della Forza di
reazione rapida, puntualizzandone le carenze evidenti soprattutto nel
settore della mobilità strategica; tali carenze necessariamente
comportano una stretta cooperazione dell’UE con la NATO. Segue un
approfondimento sulle operazioni svolte autonomamente dall’UE con
l’utilizzo della FRR e su quelle condotte dall’UE con risorse NATO.
Successivamente il lavoro si sofferma sui rapporti di cooperazione
tra UE e NATO a partire dal 1999, anno di nascita ufficiale della Politica
europea di sicurezza e difesa e di inizio della vera cooperazione tra UEO
e NATO, nonchè sugli accordi Berlin Plus, successivamente estesi
all’UE, e sulla Dichiarazione UE/NATO del dicembre 2002 relativa alla
PESD; tali accordi consentono all’UE di accedere alle infrastrutture, ai
mezzi e alle informazioni della NATO per la realizzazione delle
operazioni di Petersberg. Si precisa che gli accordi Berlin plus
contemplano alcune clausole dirette a salvaguardare l’operatività della
NATO, anche nel caso in cui essa abbia già consentito all’Unione
l’impiego delle proprie capacità; ne consegue lo scarso grado di
autonomia dell’Unione europea rispetto alla NATO, anche nella concreta
fase operativa. . .
…….Il lavoro prende in considerazione le missioni di polizia
dell’Unione europea e la gestione civile delle crisi internazionali
sottolineando la complessità di tale politica, delineata nelle sue attività
alternative o complementari alla gestione militare delle crisi. Tale
settore, che si avvale della cooperazione tra l’Unione europea e la
XI
Comunità europea, beneficia dei contributi dei singoli Stati membri in
termini di risorse umane e strumenti operativi.
Infine il capitolo quarto affronta il tema delle modalità operative
della gestione militare delle crisi internazionali: il procedimento è
complesso e articolato in fasi successive di preparazione e di operatività.
Le modalità di gestione presentano differenze a seconda che si tratti di
missioni condotte autonomamente dall’Unione europea o condotte
dall’Unione con il ricorso a capacità della NATO. Poichè è prevista la
possibilità per gli Stati terzi di partecipare alle missioni militari a guida
UE, il capitolo si sofferma sull’ accordo internazionale che definisce le
modalità di tale partecipazione.
Il capitolo quinto inizia con l’analisi delle regole di ingaggio, e cioè
delle disposizioni che traducono a livello operativo le direttive afferenti
alla condotta che i contingenti militari debbono tenere quando sono
impegnati in una missione. Viene specificata l’importanza di tali regole
poichè esse, proprio per il fatto che determinano l’agire del personale
dispiegato sul campo, risultano decisive per la buona riuscita dell’
operazione. Si accenna alla difficoltà pratica di far giungere le regole di
ingaggio fino alle minori unità presenti sul campo e a tale scopo si
sottolinea l’esigenza di chiarezza e semplicità che dovrebbe stare alla
base di tali regole.
Si procede, poi, alle opportune argomentazioni a proposito della
relazione tra il diritto internazionale umanitario e le Forze armate. In
situazioni in cui tali Forze agiscono per il ristabilimento dell’ordine e
della pace, esse sono tenute a conformarsi al diritto internazionale
umanitario: ciò avviene per esempio quando si limita l’uso dei mezzi e
metodi di combattimento, quando si individuano i legittimi obiettivi di
attacco, quando si provvede alla protezione di coloro che non prendono
XII
parte alle ostilità, quando viene regolata la cattura, la detenzione e il
trattamento delle persone private della libertà. Nel considerare
l’esistenza di diritti fondamentali inderogabili, si evidenzia
l’applicabilità, anche in tempo di guerra, delle norme di diritto
internazionale umanitario.
Si distingue tra l’essenza del diritto internazionale umanitario
(diritto internazionale divenuto consuetudinario), il cui rispetto si impone
a titolo universale, e le regole delle convenzioni di cui sia parte il singolo
Stato nazionale, regole che andranno rispettate solo dal contingente
appartenente a tale Stato. Dopo aver specificato che il diritto
internazionale umanitario è composto sia di regole di diritto
consuetudinario sia di regole di diritto convenzionale, se ne indicano le
varie fonti.
Si puntualizza come il cosiddetto Bollettino del Segretario
generale, entrato in vigore nel 1999, soddisfi esigenze di maggiore
chiarezza ed uniformità circa l’applicazione delle norme di diritto
internazionale umanitario alle Forze operanti sotto il comando e il
controllo delle Nazioni Unite e come, grazie ad esso, si abbia un sistema
di norme dei diritti umani applicabile e valido per tutti i tipi di
operazioni.
Si sottolinea come il suddetto Bollettino del 1999 si occupi della
protezione della popolazione civile, dei mezzi e dei metodi di
combattimento, del trattamento dei civili, delle persone poste fuori
combattimento e di quelle detenute, della protezione dei feriti, dei malati
e del personale medico e di soccorso.
Si passa, in seguito, alla questione relativa alla responsabilità per le
attività lesive eventualmente poste in essere dalle Forze di pace; in
proposito si accenna al dibattito tra la prevalente teoria che afferma una
XIII
responsabilità primaria dell’ ONU e le tendenze che invece non
appoggiano in toto tale impostazione classica, che trascurerebbe alcuni
aspetti essenziali della struttura e dell’attività delle Forze stesse. Viene
precisato infatti che l’ONU è sì il soggetto garante del mantenimento
della pace e della sicurezza internazionale, ma al tempo stesso non ha un
proprio esercito permanente e deve contare su Forze costituite da
contingenti forniti dai singoli Stati.
Si indica, a tal punto, come non sia appropriato sposare la teoria
tradizionale secondo cui il comando e controllo delle Forze sia di
esclusiva competenza dell’ ONU.
Si spiega come lo Stato inviante non venga completamente escluso
dall’organizzazione e dal “funzionamento” della Forza da parte delle
Nazioni Unite mantenendo un notevole grado di controllo sui propri
militari impegnati e come, rispetto invece al compimento di attività
operative, vi sia una totale subordinazione dei contingenti nazionali
all’ONU.
Di seguito si affronta la problematica attinente al regime di
imputazione delle attività lesive e relativa al fatto che i contingenti
nazionali perseguano iniziative autonome anzichè indicazioni fornite dai
vertici istituzionali della missione.
Viene successivamente preso in esame il dovere di vigilanza dello
Stato fornitore sulle attività inerenti alle operazioni militari intraprese dal
suo contingente. Si puntualizza come, riguardo all’adempimento o meno
di tale dovere, possa delinearsi, in caso di commissione di un illecito, o
una responsabilità esclusiva dell’ONU, oppure una responsabilità di
quest’ultima in concorso con lo Stato fornitore in questione.
Il capitolo analizza, infine, la posizione dello Stato ospitante circa
una sua eventuale responsabilità per le attività illecite poste in essere
XIV
dalla Forza operante sul suo territorio; si chiarisce che, per rendere uno
Stato responsabile di un fatto illecito compiuto dalla Forza sul suo
territorio, non basta che l’illecito sia commesso dalla Forza stessa: in tale
circostanza l’eventuale responsabilità dello Stato territoriale può trovare
fondamento su un suo mancato obbligo di vigilanza; si sottolinea come
in questo caso tale obbligo derivi dal legittimo interesse dello Stato
ospitante di tenere sotto controllo sul proprio territorio l’attività della
Forza al fine di denunciarne le possibili anomalie; infine si specificano le
modalità secondo cui, accertato il compimento del fatto illecito, lo Stato
territoriale possa esserne considerato complice, e quindi corresponsabile,
per aver omesso il dovere di vigilanza sulla Forza.
XV