condivisione diffusa del marxismo, portavoce di una visione totalizzante di
mondo ideale e reale.
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A partire da tali premesse, possiamo dire che questo è il periodo in cui viene a
cadere la concezione metafisica della storia e in cui si fa avanti la separazione tra
una filosofia come metafisica e le singole scienze speciali, la crisi del principio di
causalità, la settorialità e la razionalizzazione del lavoro: è l’avvento del
“moderno”, che segna “l’intellettualizzazione” della vita e la rottura dell’ormai
vecchia cultura improntata su sistemi unitari e totalizzanti. Rinunciando ad una
visione metafisica del mondo si ha, dunque, l’abbandono di tutti quei sistemi che
trovano fondamento in quei saldi valori assoluti, i quali cominciano ora a vacillare
perché sostituiti da una situazione che potremmo definire di “politeismo di
valori”. Pertanto, non esistono più il “bene” e il “male”, il “giusto” e “l’ingiusto”
in senso assoluto, ma una pluralità e relatività di tali concetti.
A questa situazione culturale corrisponde di pari passo una realtà politica che
trova perfetta aderenza a tale condizione: il dibattito teorico-politico degli anni
Venti/Trenta in Germania muove da premesse di carattere “pluralistico”, si apre la
strada alla democrazia, che non riconoscendo valori universali e posizioni
ideologiche assolute, è l’espressione politica del relativismo filosofico, il quale
non detta decisioni che pretendono di avere carattere universale, ma propone
compromessi come risultato di un’azione mediatrice tra due (o più) opposti punti
di vista. Il carattere formale e antipsicologistico della teoria pura del diritto e
l’attività di de-sostanzializzazione che essa opera nei confronti del concetto di
Stato (attività che è sempre intrinsecamente connessa ad ogni formalizzazione dei
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Per il dibattito filosofico che si svolge negli anni Venti/Trenta in Germania rinvio al saggio
introduttivo di R. Racinaro a H. Kelsen, Socialismo e Stato, De Donato, Bari 1978.
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concetti) risponde perfettamente alle esigenze della scienza moderna, che - avendo
assimilato le trasformazioni dettate dal dibattito culturale europeo in questo
periodo - rinuncia a pensare all’assolutismo dei valori della tradizione
giusnaturalistica. È questo, allora, il periodo in cui nascono e si sviluppano le
sempre più numerose tendenze formalistiche di quegli anni, che in campo
strettamente filosofico trovano espressione nel neokantismo, cui Hans Kelsen
appartiene. Anzi, possiamo dire che Kelsen rappresenta l’esempio più dettagliato,
sistematico ed estremo di queste tendenze, in cui il diritto viene ricondotto alla
sola forma logica e lo Stato a mera funzione. Con Kelsen infatti il diritto si riduce
proprio a pura forma logica (proposizione logica nella modalità specifica del
giudizio ipotetico).
Intorno a Kelsen si costituisce una vera e propria scuola di pensiero: la così detta
“scuola di Vienna”, di cui hanno fatto parte personalità notevoli come Adolf
Merkl, Alfred Verdross, Leonidas Pitamič. Tra i suoi allievi e interlocutori
successivi alla prima guerra mondiale, invece, citiamo Fritz Sander (poi suo
antagonista)
2
, Felix Kaufmann ed Eric Voegelin. Questa scuola di pensiero ha poi
superato i confini austriaci, estendendosi anche ad altri paesi, non per ultimi quelli
latini, esercitando su di essi una notevole influenza.
Tra gli avversari della nascente scuola di pensiero di impostazione neokantiana
possiamo citare, invece, il pensatore “conservatore” Erich Kaufmann, inizialmente
seguace dei neokantiani della scuola tedesca sud-occidentale, da lui poi
fortemente rinnegata.
2
Come spiegato da Günther Winkler in Teoria del diritto e dottrina della conoscenza (Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli 1994), Sander accusò Kelsen di aver praticamente copiato
arbitrariamente idee e concetti formulati da lui e di essersene poi appropriato in maniera illecita.
Per accertare la verità, Kelsen avviò addirittura un procedimento disciplinare contro sé stesso, dal
quale fu assolto. Alcuni anni dopo, Kelsen si riconciliò con Sander.
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Dunque, sono proprio le suddette tendenze formalistiche che in Austria e
Germania hanno posto le premesse e preparato quel terreno indispensabile per lo
sviluppo della dottrina “normativa” o “pura” di cui Kelsen ha parlato: la reine
Rechtslehre, che è tale in quanto la sua funzione è semplicemente conoscitiva, del
tutto avalutativa e anti-ideologica. Kelsen stesso ha esposto chiaramente le linee
guida del suo pensiero e i suoi tentativi di “purificazione” del diritto da ogni
condizionamento esterno ed estraneo ad esso, così come scrive nella Prefazione
all’opera più sintetica dell’intera sua dottrina, elaborata dopo più di un ventennio
di studi e meditazioni. Stiamo parlando della Prefazione dello scritto apparso nel
1934, i Lineamenti di dottrina pura del diritto, di cui riportiamo solo alcune
parole, le più indicative dello scopo che Kelsen si prefigge di raggiungere: “Sono
trascorsi più di due decenni da quando ho intrapreso a svolgere una dottrina pura
del diritto, cioè una dottrina depurata da ogni ideologia politica e da ogni
elemento scientifico e naturalistico, una dottrina giuridica, cosciente del suo
carattere particolare dovuto alla autonomia del suo oggetto. Anzitutto, il mio
scopo è stato quello di elevare la giurisprudenza, che palesemente od
occultamente si dissolveva quasi del tutto nel ragionamento politico-giuridico,
all’altezza di una scienza autentica, di una scienza dello spirito. Si trattava di
sviluppare le sue tendenze dirette non alla creazione, ma esclusivamente alla
conoscenza del diritto, e di avvicinare il più possibile i suoi risultati all’ideale
della scienza: oggettività ed esattezza.”
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3
H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, traduzione di Renato Treves, Piccola
Biblioteca Einaudi, Torino 1987.
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Il tentativo di Kelsen è certamente importante quanto impegnativo: costruire una
scienza del diritto, assolutamente libera, svincolata da ogni elemento che risulti ad
essa estraneo, occultandone la vera essenza di costruzione logica.
Ciò che Kelsen propone, infatti, è una scienza del diritto autonoma, e nel fare ciò,
è centrale il problema metodologico, dal quale non si può prescindere ogni volta
che si mette in campo la questione della purezza del diritto.
“Purezza” significa prima di tutto autonomia del diritto da ogni forma di
condizionamento ad esso estraneo, e in questa prospettiva è duramente attaccato
l’allora nascente metodo sociologico, ovvero la sociologia giuridica di fine
Ottocento, e ancor prima ogni visione naturalistica del problema del diritto e dello
Stato
4
.
Più che soffermarmi sulla questione della nota strutturazione gerarchica del diritto
operata da Kelsen e in cui risiede il suo rigido formalismo, ho voluto porre
maggiormente l’attenzione sul contributo kelseniano alla critica positivistica del
concetto di Stato come “sostanza”, nonché sulla relativa questione dell’identità di
Stato e diritto. Questo discorso richiede la messa in campo di numerosi problemi,
primo fra tutti, la distinzione dello Stato tradizionalmente visto come entità “reale
e sociale” dallo Stato come norma: ancora una volta e in maniera inevitabile si
pone il problema del metodo. Da una parte quello sociologico, con le sue radici
fortemente naturalistiche, che prende in considerazione l’aspetto empirico (e più
comune del concetto di Stato), e dall’altra - in assoluta antitesi rispetto a questo -
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Come sottolineato da Simon Goyard-Fabre (in Kelsen e Kant, Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli 1993), esattamente come in Kant anche in Kelsen esiste, ed è centrale, il problema del
“metodo”. In questo, infatti, Kelsen è molto vicino alle posizioni criticiste con cui Kant inizia e
porta avanti la sua ricerca in campo gnoseologico. Tale metodo kantiano viene da Kelsen – in un
certo senso – ripreso e sostituito da quello giuridico, che procede mettendo in gioco l’elemento
della “purezza”, e che presuppone un’eliminazione radicale del “metagiuridico” ogni volta che si
parla di Stato o di diritto.
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il metodo giuridico, che considera lo Stato come ordinamento normativo e, in altre
parole, eleva la norma a fondamento dello Stato, fino a identificarne l’essenza più
propria. Ciò, infatti, implica l’affermazione dell’identità di Stato e diritto e una
netta contrapposizione ad ogni teoria (di stampo sociologico) che tenta di vedere
lo Stato come sostanza della sua idea: il diritto.
L’autonomia del diritto viene fatta derivare da Kelsen dal fatto che esso vale
semplicemente perché “posto”, o meglio, “normativamente posto”, vale a dire,
esso trova validità nel fatto stesso di essere norma, di essere, cioè, espressione
coattiva, prescindendo dal suo contenuto, qualunque esso sia. È proprio la
coazione che caratterizza e distingue l’ordinamento giuridico da quell’ordine
naturale che il pensiero sociologico non può fare a meno di prendere in
considerazione.
Ebbene, l’ordinamento giuridico vale perché è posto nella forma della giuridicità,
attraverso il “deve” (Soll) che è espressione della valenza ipotetico-relativa del
diritto. L’esistenza stessa della norma è già di per sé motivo della sua validità,
senza che ci sia bisogno della sua attuazione pratica: in questa distinzione
kelseniana tra validità ed efficacia della norma si esprime l’autonomia del diritto
da ogni fatticità e la stessa purezza del metodo giuridico rispetto alla “necessità”
(Müssen) del metodo naturalistico.
Secondo il criterio positivistico, allora, lo Stato come sistema unitario e ordinato
di norme, non può che identificarsi col diritto, piuttosto che con la realtà sociale.
Stato e diritto sono, per Kelsen, il medesimo e unico oggetto. Nella scienza
giuridica kelseniana esiste un solo oggetto di conoscenza, ed è ciò che Kelsen
vuole dimostrare, oltre ad essere oggetto centrale anche della presente
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argomentazione, la quale cercherà di indagare entro quali limiti sia possibile
sostenere fino in fondo una tale affermazione.
Dall’idea kelseniana di Stato deriva una necessaria dissoluzione di tutte quelle
teorie naturalistiche, sociologiche e poi anche psicologiche, che spesso tentano
anche di avvicinare Stato e diritto, rimanendo però nel difetto di non considerare
una questione di primaria importanza quando si affronta questo problema: quella
della loro assoluta identità. Esse, infatti, pur nell’apparente diversità delle loro
posizioni teoretiche, sono accomunate dal fatto che fanno apparire lo Stato o come
“persona” che sta “dietro” il diritto, o come “portatore” o “garante” del diritto, ma
così facendo implicano l’autonomia dell’uno rispetto all’altro, creando tutti quegli
pseudo-problemi (eppure per Kelsen evitabilissimi!) di cui ormai la scienza del
diritto ha solo bisogno di liberarsi. Tali problemi trovano unità nella questione del
raddoppiamento dell’oggetto di conoscenza, che dà luogo alle molteplici domande
sul rapporto (perennemente conflittuale) tra Stato e diritto, alle quali la dottrina
del diritto non ha mai dato risposte (almeno non in senso univoco e comunque non
tali da determinare una eliminazione radicale del problema), in modo tale da
evitare contraddizioni e antinomie.
Il problema qui preso in considerazione è, dunque, questo: è possibile uno Stato
definibile diversamente da come ha fatto finora la comune dottrina del diritto (di
impostazione fortemente naturalistica e sociologica)?
In altre parole: esiste un’alternativa al comune concetto sociologico di Stato?
Per Kelsen la risposta sembra essere data dal metodo giuridico, l’unico in grado di
conferire alla disciplina normativa uno statuto di scienza autonoma.
Per esporre chiaramente il problema del rapporto tra Stato e diritto in Kelsen e di
quello della dissoluzione del concetto di Stato come “persona” o “sostanza”, mi
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sembra utile prendere in considerazione il significato che Kelsen attribuisce
all’ordine positivo, così come a quello naturale e la differenza delle rispettive
norme a cui essi sottendono. In seguito, sull’esempio dello stesso Kelsen, si
cercherà, seppur brevemente e a titolo per lo più esemplificativo, di riassumere le
più note teorie sociologiche dello Stato, mostrandone l’inadeguatezza in campo
normativo.
La critica al metodo sociologico culminerà poi con la dissoluzione di quel
concetto che le stesse teorie naturalistica e sociologica hanno contribuito a creare:
lo Stato come personificazione del diritto, ovvero, lo Stato come “sostanza”
5
. Tale
dissoluzione, poi, automaticamente porta a dover riconoscere lo Stato come entità
giuridica, nella sua identità assoluta col diritto.
Quest’ultima analisi sarà studiata da Kelsen anche in maniera parallela a quella
che, secondo il giurista, è un altro esempio di personificazione (e
sostanzializzazione), molto affine, per problematiche e soluzioni, e su molti piani
(da quello logico a quello psicologico) a quella operata col concetto di Stato da
parte della comune dottrina. Stiamo parlando di quella stessa personificazione
operata dalla teologia con il concetto di Dio, in opposizione al mondo o natura.
Questo è il dualismo che Kelsen presenta in stretto parallelismo con il dualismo
Stato-diritto.
Ebbene, pur non esistendo di fatto un reale dualismo tra Stato e diritto, la dottrina
sociologica rappresentando lo Stato come “realtà sociale” riesce a creare un
divario insormontabile, tanto da dare luogo a due oggetti diversi.
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È importante chiarire che in realtà queste “tappe” non sono assolutamente separate l’una
dall’altra: quello di Kelsen è un processo unitario di dissoluzione del concetto sociologico di Stato,
che ha inizio fin dalla critica alle teorie giusnaturalistiche: è solo per maggiore chiarezza espositiva
che qui stiamo distinguendo i vari momenti della critica kelseniana.
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Riguardo il problema di questo dualismo, vorrei riportare alcune delle stesse
parole spese da Kelsen nell’introduzione de Il concetto sociologico e il concetto
giuridico dello Stato (uno dei testi che più efficacemente pongono la questione
dello Stato come “sostanza” e l’opposizione tra il metodo sociologico e quello
giuridico): “ non ostante la straordinaria varietà delle dottrine esistenti del
rapporto tra Stato e diritto, la maggior parte di esse possono però essere
considerate come specie di un genere comune, le cui idee fondamentali hanno più
o meno l’andamento seguente: lo Stato – nella misura in cui si tratta del suo genus
proximum – è un gruppo sociale (Verband) umano (che deve essere definito più
esattamente), un’unione o un legame di un qualche tipo, un gruppo organizzato di
esseri umani che viene definito anche, volentieri, come corporazione
(Körperschaft). Come tale, lo Stato ricade sotto il concetto di società
(Gesellschaft) nel senso più ampio, è un fatto sociale e reale, fornito cioè della
stessa realtà che hanno i fatti sociali in generale. La realtà sociale dello Stato è
oggetto di una conoscenza scientifico-sociale, orientata secondo leggi causali –
come la scienza della natura - che si designa come dottrina sociale dello Stato e
che, da qualche tempo, viene considerata parte della sociologia. Questa realtà
empirica dello Stato viene accettata da quasi tutti gli autori, esplicitamente o
tacitamente. E già con questa qualificazione lo Stato entra in un certo contrasto
col diritto. Questo ricade sotto il concetto di norma, viene inteso come un
complesso di regole, come un complesso di comandi e di divieti, come un sistema
di prescrizioni esprimibili tramite proposizioni di dovere o imperativi, come un
ordinamento del comportamento umano. E l’esistenza del diritto non viene
presunta – come quella dello Stato – nella realtà causale, bensì in una idealità
normativa. Qui non si tratta di una idealità assoluta, bensì solo di una idealità
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relativa del diritto.”
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Parlare di “idealità relativa” del diritto significa rinunciare ad
un’idea trascendente del diritto, ovvero, rinunciare all’idea di un diritto
metafisicamente fondato su valori assoluti, per fare posto ad una normatività che
abbia un carattere scientifico proprio nell’eliminazione radicale di qualunque
forma di metafisica e di ideologia.
È per questo che la cultura politica del ventesimo secolo deve molto ad una figura
importante come quella di Kelsen: egli è riuscito a delimitare il campo di tale tipo
di conoscenza alla struttura logica e formale del diritto, separando quest’ultimo da
ogni interferenza sociologica, economica, etica e politica.
È assolutamente da riconoscere l’impegno portato avanti da Kelsen in ambito
giuridico. È anche necessario, tuttavia, capire fino a che punto è possibile
concepire e affermare la possibilità che possa trovare attuabilità una teoria pura
del diritto. Essa, infatti, dà problemi che sembrano non poter trovare via d’uscita
quando si tratta di esaminare il rapporto tra diritto e vita, ovvero, tra purezza
normativa e attualità ed efficacia della norma.
Senza voler in nessun modo mettere in discussione i meriti e gli sforzi compiuti da
Kelsen in ambito teoretico per elaborare una dottrina “scientifica” del diritto,
bisogna ammettere che esistono limiti della teoria pura, che non possono essere
per niente ignorati e che per questo proveremo ad analizzare, in particolare
attraverso la nota critica di Erich Kaufmann.
Dividendo per sempre, ed in maniera tanto drastica e definitiva dovere ed essere,
la teoria pura del diritto sembra arrivare a conclusioni estremamente “chiuse”
rispetto al mondo dell’esistenza fattuale ed empirica e a quella etica e politica,
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H. Kelsen, Il concetto sociologico e il concetto giuridico dello Stato, a cura di Agostino
Carrino, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997.
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