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2.4.2 Venture Capitalists
Prima di parlare dell’attività dei Venture Capitalists, detta “attività di venture capital”, occorre
soffermarsi sul concetto di “attività di private equity”, poiché la prima è considerata una tipologia
della seconda.
Per private equity si intende l’apporto di capitale di rischio (sottoforma di partecipazioni di
minoranza o maggioranza) da parte di operatori economici specializzati, in aziende non quotate e
già mature, con l’intento di trarre un consistente profitto (capital gain) entro un arco temporale
medio-lungo, a seguito dello smobilizzo delle quote di partecipazione acquisite.
Nel caso delle operazioni di venture capital, invece, gli investimenti sono effettuati a favore di
imprese dette New Technology Based Firms, il cui profilo corrisponde essenzialmente a quello delle
start up hi-tech (di recente o nuova costituzione e caratterizzate da un elevato contenuto innovativo
e tecnologico – e quindi anche da un elevato grado di rischio).
Pertanto, sebbene la disponibilità di capitali dei Venture Capitalists sia superiore a quella degli
investitori privati, i primi tendono comunque, per precauzione, a non superare la soglia dei 500.000
euro, esattamente come i Business Angels. Inoltre, se gli investitori privati sono soliti intervenire, di
propria iniziativa, nella fase iniziale di start up, quelli istituzionali, agendo come intermediari nella
gestione di fondi di terzi, subentrano quando le imprese sono già in grado di svolgere la loro attività
produttiva, ma la validità commerciale del prodotto o servizio immesso sul mercato va ancora
verificata e sostenuta (first stage financing).
Siccome in tale fase, anche detta round A, sono già state superate le problematiche legate alla
sperimentazione, è probabile che il profilo di investitore richiesto sia per lo più commerciale. A
questo punto, infatti, ancor più importante dell’apporto di finanziamenti, è il contributo dato da
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quello che viene chiamato smart money – ovvero da: consulenza, inclusione in una buona rete di
conoscenze, competenze manageriali ed esperienze professionali degli investitori –, necessario
affinché la commercializzazione del prodotto riceva un riscontro positivo dal mercato.
2.4.3 Crowdfunding: il finanziamento dal “basso”
Un’ulteriore forma di finanziamento, innovativa ed elementare allo stesso tempo, è rappresentata
dal cosiddetto crowdfunding. Formato dalle parole crowd (in inglese, “folla”) e funding
(“finanziamento”), il termine anglosassone richiama alla mente il concetto della tradizionale
raccolta fondi, ma di fatto ne indica un’evoluzione, una reinterpretazione in chiave moderna, anzi,
digitale. Si tratta, in sostanza, di una “colletta 2.0”. E’ grazie a internet, infatti, che si realizza questo
fenomeno: tramite una piattaforma online, dei soggetti promotori presentano agli utenti la
campagna del progetto innovativo che intendono attuare (se si tratta di un prodotto, viene realizzato
anche un prototipo), al fine di raggiungere il budget necessario ad avviare la produzione del bene o
servizio ideato.
Volendo inoltre indicare quali sono le diverse tipologie di crowdfunding, precisiamo che, sebbene
la più classica forma di crowdfunding sia rappresentata dal donation crowdfunding (dove le
donazioni – offerte senza ottenere nulla in cambio – sono destinate a cause sociali o etiche,
sostenute da organizzazioni no-profit o enti/associazioni di natura filantropica e collaborativa), il
modello attualmente più diffuso, in Italia e nel mondo, è il reward crowdfunding. A differenza del
primo, tale modello è inserito in contesto imprenditoriale e prevede che i soggetti donatori
(crowdfunders) ricevano in cambio una ricompensa, seppur di carattere non finanziario (un gadget
personalizzato dell’iniziativa, un incontro con il creatore dell'idea o un prezzo promozionale per il
prodotto/servizio finanziato). Un altro modello inserito successivamente è quello denominato
lending crowdfunding, secondo cui gli imprenditori che ricevono il prestito finanziario –
unicamente da privati (P2P lending, ovvero “prestito tra privati”) – non devono far ricorso ad alcun
intermediario finanziario, ottenendo così tassi più agevolati rispetto ai finanziamenti tradizionali.
Infine, nel 2013, per la crescente difficoltà di accesso al credito sia da parte delle start up che
delle PMI innovative, è stato introdotto in Italia un ulteriore modello, l’equity crowdfunding.
Questo modello prevede che i crowdfunders ottengano una quota di partecipazione nella start up o
PMI innovativa finanziata, diventandone quindi soci a tutti gli effetti. Inoltre, le piattaforme
autorizzate non hanno più l’obbligo di far transitare gli investitori per importi sopra soglia (ovvero
500 euro per persona fisica e 5.000 euro per persona giuridica) presso un intermediario finanziario
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(banca o Sim) per la compilazione del questionario MiFID
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: con la riforma, tutte le verifiche
necessarie possono essere effettuate dagli stessi gestori dei portali. Occorre inoltre ricordare che,
nonostante alcune critiche, la normativa
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sull’equity crowdfunding, volta a tutelare tanto i
finanziatori quanto gli imprenditori, è valsa all’Italia il merito di essere il primo Paese europeo ad
aver adottato una regolamentazione specifica per questo settore.
Ma se, dal punto di vista normativo, il nostro Paese ha dimostrato di essere recettivo nei confronti
delle necessità sorte da questo nuovo fenomeno globale, non si ritrova invece lo stesso spirito
innovativo tra l’opinione pubblica. Infatti, sebbene tra il 2014 e il 2015 sia stato rilevato un aumento
del 67% nel numero delle campagne di crowdfunding pubblicate, il loro tasso di successo
complessivo decresce del 7%: ciò significa che in Italia non si effettuano donazioni sufficienti.
Tuttavia, secondo i dati raccolti dal Giving Institute
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in relazione all’anno 2014, la causa principale
della scarsità di donazioni non sarebbe da attribuire alla crisi economica, ma piuttosto ad una
carenza di fiducia e/o di informazione, cui è indubbiamente complice il notevole gap tecnologico
che separa l’Italia dai vicini Paesi Europei più industrializzati. Ancora nel 2016, infatti, secondo il
Digital Economy and Society Index (DESI)
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elaborato dalla Commissione Europea, solo il 63%
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della popolazione italiana utilizza regolarmente internet per acquisire e/o condividere
informazioni/esperienze (soprattutto tramite i social network) ed effettuare acquisti (tramite
apposite piattaforme di e-commerce). Detto ciò, e considerato che l’“ambiente” in cui il fenomeno
crowdfunding nasce e si sviluppa è internet, risulta chiaro perché, in Italia, non si possa ancora
parlare di un vero e proprio sviluppo di tale realtà. Dopotutto, il crowdfunding è sì un fenomeno
economico, ma ricco di implicazioni di carattere culturale e, in questo senso, è influenzato dal
contesto in cui si inserisce.
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Questionario pensato con lo scopo di tutelare gli investitori: da un lato, facendo sì che questi soggetti siano
maggiormente consapevoli del loro potere, dall’altro, imponendo agli intermediari l’obbligo di elargire indicazioni
precise riguardo i prezzi dei servizi offerti, gli strumenti finanziari da loro indicati, le modalità con cui verranno
custoditi i prodotti offerti e come vengono elargiti gli ordini degli acquirenti. Il questionario MiFID regola al suo
interno solamente determinati prodotti finanziari quali quote d’investimento, azioni e obbligazioni; non si occupa invece
della gestione di prestiti o depositi. Il questionario MiFID consta, tra le altre cose, di un particolare “test di
adeguatezza” attraverso il quale l’impresa rivolge delle precise domande al cliente. Tali domande servono a capire quale
delle varie tipologie di investimenti sia quella più adatta a soddisfare le necessità del cliente. Il test di adeguatezza
include, quindi, alcune domande relative agli obiettivi dell’investimento e alla situazione patrimoniale del cliente.
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Adottata a partire dal 26 giugno 2013 dalla Consob, la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa
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Organizzazione americana no-profit che dal 1935 sostiene la raccolta fondi a livello filantropico. I suoi report annuali
offrono un dettagliato quadro d’insieme dello stato di salute e del progresso del sistema industriale globale.
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Indice di digitalizzazione dell’economia e della società nei Paesi Membri dell’Unione Europea. Esso aggrega una serie
di indicatori strutturati sulla base di cinque dimensioni: connettività, capitale umano, uso di Internet, integrazione delle
tecnologie digitali e servizi pubblici digitali.
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Percentuale che fa posizionare l’Italia al 25° posto tra i 28 Paesi Membri dell’Unione Europea
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Sempre per quanto concerne l’aspetto culturale, è bene inoltre soffermarsi sul principio che è alla
base di questo strumento finanziario, poiché si tratta, essenzialmente, di un principio “democratico”
oltre che meritocratico, un principio che conferisce ai consumatori il massimo potere di scelta.
Infatti, è la “folla” di utenti nel suo complesso che, stabilendo la fortuna di una raccolta fondi,
decide se un bene/servizio merita o meno di essere immesso sul mercato. Inoltre, tale giudizio,
esprimendo preferenze e necessità del mercato di sbocco, fornisce un prezioso feedback agli
imprenditori, praticanti o aspiranti che siano, i quali possono così trarne un ulteriore strumento per
modulare l’offerta e mantenere la propria impresa dinamica e competitiva sul mercato.
2.5 Il finanziamento pubblico agevolato
Al fine di limitare il ricorso al capitale di debito e di ridurre il rischio derivante dall’utilizzo di
capitale proprio, numerose leggi – europee, nazionali, regionali, provinciali e comunali – hanno
introdotto, negli ultimi decenni, agevolazioni finanziarie pubbliche e soluzioni analoghe per
supportare la realizzazione e le prime fasi di crescita delle nuove attività imprenditoriali. Tra le
imprese beneficiarie del finanziamento pubblico agevolato (inizialmente destinato alle sole PMI),
oggi assumono particolare rilevanza le start up, con soluzioni specifiche pensate per la loro natura
di imprese altamente innovative. Esse, d’altronde, ancor più delle PMI tradizionali, rappresentano il
futuro del sistema industriale del Paese, e per questo vanno tutelate al massimo.
Incentivi e fondi pubblici per l’innovazione italiana
Tra le misure adottate negli ultimi anni a tutela delle realtà imprenditoriali più innovative, è da
ricordare in primis l’introduzione del Fondo Centrale di Garanzia – riconducibile alla tipologia
degli interventi in conto garanzia. Si tratta di un’agevolazione del Mise, finanziata anche con le
risorse europee dei Programmi operativi nazionale e interregionale 2007-2013, operativa dal 2000
per le sole PMI e, da giugno 2013, destinata anche alle start up innovative e agli incubatori
certificati. Tale garanzia, affiancandosi e spesso sostituendosi alle garanzie reali portate dalle
imprese a fronte di finanziamenti da banche, società di leasing e altri intermediari
finanziari,,permette di ottenere tali finanziamenti senza che siano necessarie garanzie aggiuntive (e
quindi senza costi di fidejussioni o polizze assicurative) sugli importi garantiti dal Fondo.
Quest’ultimo, dunque, sebbene non rappresenti alcun finanziamento concreto, si rivela
estremamente utile per quegli aspiranti imprenditori che non dispongono degli asset richiesti dalle
banche.
Molto importante è anche il cosiddetto Decreto incentivi per le start up innovative italiane del 24
settembre 2014, con il quale è stato riordinato il regime di aiuto denominato Smart & Start (di cui