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NOTA INTRODUTTIVA
Il XX secolo sta volgendo al termine. Sono stati cento anni densi di straordinari avvenimenti e profondi
rivolgimenti. Durante la I Guerra Mondiale, gli eserciti, tutti male equipaggiati, passavano mesi nel fango
delle trincee; ma solo venti anni più tardi sono gli aerei, i radar, i missili, i protagonisti di un nuovo,
tremendo conflitto planetario. E se per secoli il cielo è stato il custode delle preghiere, delle speranze, dei
sogni d’amore di miliardi di uomini, a partire dal 1961 si trasforma in “terra” di conquista. Esiste un
periodo che ha imposto un’ulteriore accelerazione a questo straordinario processo: gli anni sessanta e
settanta, soprattutto a partire dal 1968. Si pensi a cos’erano nel nostro paese la scuola, i rapporti tra i sessi,
la politica, la Tv, i giornali, il cinema, la morale comune prima di quell’anno.
Eppure oggi si giudica quel periodo negativamente. Si parla di anni di crisi, caldi, di piombo, di conflittualità
permanente, da dimenticare; i libri di scuola, che a malapena affrontano il fascismo e la guerra partigiana, li
trascurano quasi del tutto. Si tratta quasi di un “medio evo” dell’era contemporanea.
Che si tratti di un periodo difficile è indiscutibile: ad andare in crisi in quegli anni è prima di tutto
l’economia. Ma si deteriora anche il rapporto tra le classi dirigenti e la società civile. Alle spinte innovative
provenienti dal “Paese reale”, il “Paese legale” risponde spesso con la repressione o con il paternalismo,
con le bombe o l’assistenzialismo a seconda dei casi (se non a caso); non sono prive di contraddizioni
neppure le dinamiche interne alla stessa società civile. La Tv ricorda quel periodo con immagini di
repertorio, in bianco e nero, che appaiono ai giovani di oggi come un vecchio film: gli attori e i paesaggi,
spesso avvolti dal fumo dei lacrimogeni, sembrano quasi dei fantasmi. Gli insegnanti non riescono a fare di
meglio: quando i loro studenti sembrano volere emulare i loro colleghi del passato, c’è chi tenta di
scoraggiarli rievocando le tragedie di quegli anni, e chi di incitarli, convinti, questi ultimi, di potere rivivere
le emozioni di quel periodo, questa volta da dietro la cattedra.
Ma la maggior parte dei protagonisti di quel decennio oggi tace. La memoria collettiva ha rimosso i dolori e
le gioie di quegli anni: i ricordi dei cortei festosi e di quelli violenti; le immagini della piazze inondate dal
sangue e di quelle gremite di migliaia di persone in lotta; i sogni di un futuro migliore e gli incubi di un
passato sempre pronto a tornare. Le bombe dei dinamitardi rimasti impuniti, l’azione di una magistratura
impotente con i potenti, ma molto zelante nei confronti delle categorie più indifese, e la violenza spesso
cieca del partito armato hanno fatto tabula rasa. Gli anni settanta vengono considerati da chi li ha vissuti
come un incubo, che ritorna ogni qual volta un rappresentante più o meno noto di quella generazione
finisce davanti a un giudice per rispondere della sua militanza, delle sue conoscenze, delle sue idee, persino
dei suoi amori di allora.
Non è facile per lo storico muoversi in questo deserto. I saggi dedicati al 1968 non sono pochi, questo è
vero, ma nella maggior parte di questi prevale il cosiddetto “senno di poi”: si guarda indietro nel tempo alla
luce del presente, con gli occhi del presente. E poi ci sono gli amarcord, gli elogi romantici di quel periodo
(ma chissà perché solo fino al 1976) e anche le tante condanne senza appello. Non rimane allo storico (che
certo non rinuncia ad avvalersi delle analisi fatte a posteriori, né dei ricordi dei protagonisti) che una attenta
lettura dei giornali dell’epoca, necessaria per ricreare il clima di quegli anni; della stampa quotidiana,
soprattutto, che spesso è lo specchio della società.
In Italia i lettori di quotidiani non sono mai stati tantissimi, anche perché da noi hanno sempre avuto scarso
successo i cosiddetti giornali “popolari”, quelli che in altri paesi riescono quasi a monopolizzare il mercato
editoriale, puntando tutto sulla cronaca rosa, nera o gialla. Anche negli anni settanta, nonostante un
notevole aumento delle vendite, il principale quotidiano, il “Corriere della Sera”, solo in casi eccezionali
riesce a superare le 700.000 copie vendute in un giorno. Ma, in compenso, cresce il numero dei giovani
lettori, grazie soprattutto ai giornali dell’estrema sinistra e al rinnovamento di quelli tradizionali. La pubblica
opinione mostra in questi anni un notevole interesse per quanto accade nel mondo, per la politica e
l’economia: i quotidiani spesso sono la voce e in alcuni casi anche l’avanguardia di una società che non
trova il modo di esprimersi attraverso i canali ufficiali.
Si analizzerà il periodo compreso tra il 1968 ed il 1977, cioè i dieci anni in cui le masse diventano le
protagoniste assolute della vita pubblica del paese, come testimoniano proprio i giornali, che a loro
dedicano ampi spazi, come mai era avvenuto in passato.
Un decennio in cui il nostro paese raggiunge il traguardo europeo (e non solo), recuperando il ritardo,
soprattutto culturale, accumulato in vent’anni di dittatura e trenta di oscurantismo cattolico (e non solo) nei
confronti delle nazioni più evolute.
3
Da più parti si dice che i cambiamenti sarebbero arrivati comunque, anche senza il Sessantotto e l’autunno
caldo (sul Settantasette, che di cambiamenti ne apporterà tantissimi, esiste una sorta di censura storica);
che lo Statuto dei lavoratori, il divorzio, l’aborto, la riforma dei codici carcerari, la chiusura dei manicomi,
solo per fare gli esempi più noti, sarebbero comunque piovuti un giorno o l’altro da un cielo chiamato
progresso storico, oppure mercato, sviluppo, tecnica, società dei consumi eccetera. E’ un discorso che
non sta in piedi, a meno di non volere relegare ai margini della storia dell’umanità anche la Riforma di
Lutero, la Rivoluzione Francese, quella di Lenin o la Resistenza. Se si accetta la logica del progresso
storico necessario e inevitabile, infatti, nulla della storia può avere un senso, nemmeno l’uomo. L’essere
umano, tuttavia, ha dimostrato più volte di essere una variabile e non una costante della storia.
Gli anni settanta portano i nomi dei morti ammazzati nelle piazze, degli innocenti dilaniati dalle bombe, degli
operai e degli studenti messi in galera per un picchetto o un blocco stradale, delle donne in galera per un
aborto; e anche quelli, meno noti per la verità, di coloro che hanno tramato contro la democrazia, dei
medici obiettori negli ospedali pubblici e abortisti a pagamento nelle loro cliniche private, dei padroni che
chiedono ordine e sicurezza ed evadono fisco e oneri sociali. E’ un periodo della nostra storia che ci
appartiene: dieci anni e più in cui la società civile, linfa indispensabile di ogni democrazia, è stata, nel bene e
nel male, protagonista della vita della nazione.
Niente era scritto, nulla era necessario. Ciò che era reale non poteva essere nel contempo razionale e
viceversa in un’epoca nella quale l’immaginazione, rifugio dei sogni degli uomini e delle donne di ogni
epoca, ha avuto la pretesa di conquistare nientemeno che la più razionale e reale delle invenzioni umane: il
potere.
4
1) LA CONTESTAZIONE STUDENTESCA
“No, o principe, tu non sei il nostro Dio.
Da lui noi attendiamo la felicità;
da te, la difesa dei nostri diritti.
Non benigno tu devi essere verso di noi;
tu devi essere giusto”
J. G. Fichte
1.1) Un fenomeno planetario
La contestazione studentesca esplode nel corso degli anni sessanta con una rapidità ed una irruenza
imprevista ed imprevedibile, travolgendo in pochissimo tempo confini allora considerati assoluti,
costitutivi dell’ordine del pianeta1. E’ una vera e propria rivoluzione, che vede protagonisti i giovani
nati e cresciuti nell’era atomica, i quali possiedono la coscienza di appartenere ad una generazione
particolare, la cosiddetta “baby boom generation”. Uno dei primi documenti della contestazione
studentesca è il Manifesto di Port Huron del 1962:
A guidare il nostro lavoro sta la percezione che la nostra potrebbe essere l’ultima
generazione a fare esperimenti con la vita. Siamo però una minoranza. La stragrande
maggioranza della gente guarda agli equilibri temporanei della società e del mondo come un
motore funzionante in eterno. In questo forse risiede il paradosso evidente; mentre da una
parte noi siamo come imbevuti da un senso di urgenza, il messaggio proveniente dalla
società è che non esiste alcuna valida alternativa al presente.2
Un senso di smarrimento, di angoscia pervade molti di questi giovani. Scrive da Hanna Arendt:
Se a un membro di questa generazione si pongono due semplici domande, “come vorresti
che fosse il mondo da qui a cinquant’anni?” e “come vorresti che fosse la vita da qui a
cinquant’anni?”, le risposte vengono molto spesso precedute da considerazioni come
“ammesso che ci sia ancora un mondo” e “ammesso che io sia ancora vivo”.3
E’ questo il clima che si respira nell’universo giovanile negli anni sessanta un po’ in tutto il mondo. I
primi sintomi di questa inquietudine si riscontrano nel movimento Beat, la cui data di nascita si può far
risalire all’anno di pubblicazione del romanzo che è subito diventato il suo manifesto: Sulla strada, di
Jack Kerouac, 1959. La “Beat generation” nasce dal disgusto nei confronti del sistema, del mondo
degli adulti, della morale “borghese”, ai quali cerca di sfuggire rintanandosi in luoghi ameni, buie
1
Peppino Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma, 1985, p. 25.
2
Manifesto di Port Huron. Agenda per una generazione, in Peppino Ortoleva, op. cit., p. 233.
3
Hannah Arendt, Politica e Menzogna, SugarCo Edizioni, Milano, 1985, p. 179.
5
cantine, bettole di periferia, stanze sature del fumo di sigaretta. L’universo beat è privo di speranze e
illusioni: il mondo è destinato a scomparire, a distruggersi completamente con le sue stesse armi,
dicono i loro profeti. Di qui il sostanziale disimpegno politico del movimento, che è composto da una
miriade di tribù dove, come scrive lo studioso Walter Hollstein, “i giovani sono partecipi di un
sentimento comunitario, primitivo, tendente all’aiuto reciproco, all’ospitalità, al rifiuto della proprietà,
all’amicizia ed alla solidarietà”4. Si tenta cioè di costruire una vera e propria società alternativa, la
contro-società dell’underground, come la definisce Hollstein. Scrive Allen Ginsberg, uno dei leader
del movimento:
Quale sfinge di cemento e alluminio gli ha sfracellato il cranio e gli ha divorato il cervello e
l’immaginazione? Moloch! Solitudine! Lerciume! Spazzatura e dollari inafferrabili! Bambini
che strillano nei sottoscala! Ragazzi che singhiozzano negli eserciti! Vecchi che piangono
nei parchi! Moloch! Incubo di Moloch! Moloch spietato! Moloch mentale! Moloch duro
giudice di uomini! Moloch prigione incomprensibile! Moloch galera col teschio della morte
senz’anima (...).5
Moloch è una antica divinità alla quale venivano sacrificate vite umane. E’ l’urlo (in inglese Howl)
disperato della nuova generazione contro un mondo crudele, costruito da altri e destinato a
scomparire.
Tutt’altro clima si respira invece tra i Provos, che nascono in Olanda nel 1960. Pur avendo una
visione del mondo simile a quella dei beat, i Provos appaiono molto più impegnati. Parafrasando
Marx ed Engels, si definiscono “provotariato”, ma il loro obiettivo non è tanto la presa del potere,
che per i Provos è sempre fonte di corruzione, quanto l’annientamento totale della società
capitalistica. Queste alcune delle loro rivendicazioni: “Via la polizia, via l’esercito, via tutto l’apparato
statale!”, “Gli operai gestiscano le loro fabbriche!”, “L’apparato riproduttivo funziona meglio nelle
mani del popolo!”6.
Si tratta chiaramente di un movimento che si ispira a princìpi anarchici. In un loro documento si legge:
“In anarchia vi sono le condizioni ottimali per esprimere la libertà e la creatività umana”7. Ma i Provos,
nella pratica, si comportano diversamente. Quelle che seguono sono le parole che Leo Katzeler,
portavoce del provotariato olandese, pronuncia in occasione delle elezioni comunali di Amsterdam del
1996:
Sentiamo una certa responsabilità per quella scorza vuota che si chiama democrazia;
vogliamo darle un contenuto, farne qualcosa di vitale.8
E, infatti, i Provos decidono di presentarsi a quelle elezioni con una propria lista.
Un movimento, dunque, che va oltre la critica negativa dell’esistente. Lontani mille miglia sia dalle
astrazioni politico-ideologiche che dal riformismo esasperato della maggior parte delle organizzazioni
del movimento operaio e dalla “automarginalizzazione” dei beat, i Provos si battono per il
miglioramento della vita quotidiana: contro il traffico e l’inquinamento cittadino, per esempio, il
movimento di Amsterdam propone la distribuzione gratuita di biciclette, quello svedese e norvegese
il disarmo della polizia, il restauro dei centri storici, il blocco dei fitti e l’apertura di uffici di
4
Walter Hollstein, Underground, Sansoni, Firenze, 1971, p. 94.
5
Allen Ginsberg, Howl, in Juke-Box all’idrogeno, a cura di F. Pivano, Mondadori, Milano, 1975, p. 123.
6
Citati in Walter Hollstein, op. cit., p. 127.
7
Ibidem, p. 127.
8
Ibidem, p. 120.
6
informazione e consulenza sessuale. Sono i cosiddetti “Piani bianchi”, che trovano subito il consenso
di vasti strati di opinione pubblica, anche non giovanile, e che presto verranno adottati da molte
municipalità.
Non è così impegnato, invece, il movimento Hippy, che nasce negli Usa intorno alla metà degli anni
sessanta, quando ormai il movimento studentesco è già una realtà. Secondo Walter Hollstein, “ogni
distinzione tra questi due movimenti di protesta appare alquanto artificiosa”. Di diverso parere lo
studioso francese Edgar Morin, per il quale gli hippies sono invece “gli apostoli della coesistenza
pacifica tra due società radicalmente diverse, quella dei giovani e quella degli adulti, nell’ambito della
stessa società”, mentre il movimento studentesco vuole “rovesciare l’ordine adulto, perché pensa di
potersi assumere gli interessi generali della società, anzi dell’umanità”9.
In effetti, le battaglie ideologiche, le occupazioni, i grandi cortei sono tutte cose estranee al
movimento Hippy, il quale, però, è anche lontano dal teorizzare una coesistenza pacifica con il
mondo degli adulti nell’ambito della stessa società, come mostra il manifesto che segue, firmato da
uno dei leader del movimento americano, Robert Jones:
1) Fai quello che ti sta a cuore, dovunque lo giudichi necessario e tutte le volte che lo
desideri; 2) Eclissati. Pianta la società, dato che l’hai conosciuta bene; 3) Apri la mente di
tutte le persone oneste che incontri. Convertile, se non alla droga, alla bellezza, all’amore,
alla lealtà, al giuoco.10
La libertà si raggiunge, dunque, solo disertando la società ufficiale: nessuna coesistenza pacifica con
il vecchio mondo. Un pensiero che, in fondo, ricorda quello beat.
Del movimento hippy fanno parte anche molti attivisti del movimento studentesco, perché, come si è
detto, gli hippies nascono quando le lotte degli studenti sono, almeno negli Usa, già avviate da
tempo. La confusione tra i due movimenti deriva poi dal fatto che la “moda” hippy è in pratica quella
di quasi tutta una generazione.
Questi movimenti hanno avuto tutti una parte importante nell’esplodere della contestazione
studentesca. Negli anni sessanta si assiste a una profonda rottura generazionale e il movimento degli
studenti non è che una delle sue manifestazioni: lo separa dagli altri movimenti la dichiarata volontà di
cambiare il mondo, l’essere soggetto politico a tutti gli effetti. Gli studenti contestatori esaltano la
cosiddetta “controcultura” giovanile, ma ne criticano la degenerazione a mero mercato. Come Scrive
Peppino Ortoleva, la contestazione studentesca “è la continuazione con altri mezzi e il culmine di una
fase ascendente, aggressivamente universalista e totalizzante della cultura giovanile”11.
Il movimento studentesco nasce nelle università, in una istituzione quasi ovunque autoritaria e non al
passo con i tempi. Ma, prima di diventare studenti, i giovani del movimento avevano contestato
un’altra istituzione, la più antica e la più autoritaria: la famiglia. Scrive lo studente americano J. Rubin:
La rivoluzione è generazionale. La guerra è tra il giovane ed il vecchio. Non si tratta di un
conflitto psicologico alla Freud, ma di un conflitto storico-generazionale. (...) Ogni
generazione dovrebbe cercare la leadership nella generazione più giovane, che subisce in
modo più diretto e più emotivo la repressione della società. Più sei giovane, più lucida è la
tua testa. La società più sana è quella dove i giovani prendono tutte le decisioni. I giovani
9
Citato in Peppino Ortoleva, op. cit., p. 56.
10
Citato in Walter Holls tein, op. cit., pp. 132-133.
11
Peppino Ortoleva, op. cit., p. 59.
7
dovrebbero insegnare ai vecchi e non viceversa. (...) Non fidarti di nessuno che abbia più di
trentacinque anni.12
Su un muro di una università italiana uno studente scrive a caratteri cubitali: “VOGLIO ESSERE
ORFANO”; Jack Henry Moore, coreografo e leader del movimento studentesco londinese,
raccomanda ai giovani di evitare qualsiasi tipo di contatto con la “bastarda generazione
precedente”13, il giovane regista Jonas Mekas dichiara:
La giovane generazione ha gettato al mare tutte le regole della generazione precedente ed è
la parte progressista dell’umanità, quella fermamente risoluta ad andare avanti.14
E’ in questa dichiarata volontà di rompere ogni legame con il passato che si manifesta chiaramente
l’eredità dei Beat, degli Hippy e dei Provos, soprattutto nei paesi anglosassoni, dove i gruppi e le
idee marxiste-leniniste sono in minoranza nel movimento studentesco. Ma il bagaglio culturale della
tradizione comunista non viene rifiutato in toto. I giovani contestatori, infatti, parlano del mondo degli
adulti negli stessi termini con cui i comunisti parlano dei nemici di classe.
La divergenza tra le due generazioni si è ampliata fino ad assumere le dimensioni di un
grave conflitto tra due diverse culture, conflitto in cui si fronteggiano minacciosamente due
concezioni opposte della società, del mondo e dell’uomo.15
Si tratta di una rottura generazionale senza precedenti, anche perché sembra proprio non conoscere
confini. Il movimento studentesco si presenta con idee, slogan e pratiche di lotta molto simili nei
quattro angoli del pianeta. Esistono anche delle sostanziali differenze, perché la famiglia, l’università e
le istituzioni che i giovani combattono non sono uguali dappertutto. Ed è proprio partendo da questo
presupposto che non pochi osservatori dell’epoca, capitanati da Raymond Aron, tentano di dividere
gli studenti del mondo occidentale da quelli dell’Est europeo: i primi sarebbero infatti in lotta contro
quelle libertà “borghesi” per ottenere le quali, invece, i secondi sarebbero disposti a sacrificare la
propria vita. La contestazione studentesca, dunque, per questi studiosi, è solo un pericolo per la
democrazie occidentali; per i popoli dell’Est una speranza di maggiore democrazia. Una tesi che non
trova affatto d’accordo Hannah Arendt:
La libertà è libertà, che sia garantita dalle leggi di un governo borghese o da quelle di uno
stato comunista. Dal fatto che i governi comunisti oggi non rispettano i diritti civili e non
garantiscono la libertà di parola e di associazione, non deriva che questi diritti e queste
libertà siano borghesi. La libertà borghese viene spesso e piuttosto erroneamente equiparata
alla libertà di fare più soldi di quanti effettivamente abbisognino. Infatti, questa è l’unica
libertà che anche nell’Est, dove di fatto si può diventare estremamente ricchi, viene di fatto
rispettata.
12
J. Rubin, Non fidarti di nessuno che abbia più di trentaquattro anni, in Gli studenti americani dopo Berkley,
Einaudi, Torino, 1969, pp. 94-95.
13
Citato in Walter Hollstein, op. cit., p. 82.
14
Ibidem.
15
Walter Hollstein, op. cit., p. 80. Hollstein scrive anche che il conflitto generazionale è una delle conseguenze del
soffocamento di una lotta di classe ridotta ormai a un “dialogo istituzionalizzato tra datori di lavoro e lavoratori. In
luogo della lotta di classe - continua Hollstein - si è fatta strada la ‘coscienza di generazione’ dei giovani
contestatori da un lato e degli adulti, i difensori dell’ordine costituito, dall’altro”.
8
E ancora:
I dissidenti e gli oppositori nei paesi dell’Est chiedono libertà di parola e di pensiero come
condizioni preliminari dell’azione politica; i ribelli d’Occidente vivono in condizioni in cui
queste premesse non aprono più i canali dell’azione, di un significativo esercizio della
libertà.16
Ma, continua la Arendt, la lotta è la stessa, quella contro l’autorità costituita, contro la burocrazia,
“la forma di governo in cui ciascuno è privato della libertà politica, del potere di agire”, dove cioè
tutti sono in egual misura “senza potere”: una tirannide senza tiranno17.
La burocrazia soffoca la società civile, ad Est come ad Ovest. Per gli studenti di Varsavia, per
esempio, la libertà “non è una parola astratta o uno slogan a cui si possa dare un qualsiasi
contenuto”, bensì una “fondamentale esigenza di ogni collettività, la condizione essenziale del suo
giusto funzionamento”, perché “solo un uomo libero è in grado di ragionare in modo autonomo” ed è
quindi anche capace di “amicizia, solidarietà e sacrificio”18. E’ quello che pensano anche gli studenti
americani, un paese nel quale la libertà è, come scrive la Arendt, soprattutto quella di fare soldi (e la
repressione dello Stato violenta come nei paesi totalitari). Si può dire che mentre nell’Est l’esigenza
primaria è quella di creare le condizioni per un’azione politica autonoma dagli apparati del partito-
Stato, in Occidente, dove questa autonomia di fatto esiste, gli studenti si battono contro quella che i
Provos avevano chiamato “scorza vuota”, una democrazia solamente formale. Scrive lo studente
americano C. Davidson: “Non cerchiamo di liberalizzare l’ordine esistente, ma di liberarci di esso”19.
La lotta degli studenti occidentali e di quelli d’oltre cortina, la “nuova lotta antifascista”, come la
chiama Rudi Dutschke, leader del movimento studentesco tedesco, è comunque la stessa, quella
contro la burocrazia e, soprattutto, contro l’autoritarismo20. I giovani di Varsavia e quelli di San
Francisco scendono in piazza contro l’autoritarismo dei rispettivi sistemi politici e come i primi non
inneggiano al capitalismo occidentale, i secondi non vedono di buon occhio il socialismo di stampo
sovietico. Nelle strade di Praga, in quelle di Parigi, a Berlino, Danzica, Roma, Città del Messico e
Tokyo migliaia di giovani sfilano dietro le effigi del “Che”, il simbolo di una lotta romantica, senza
compromessi. Il rivoluzionario argentino, che ha rinunciato a una comoda poltrona ministeriale in
quella Cuba che, insieme a Fidel Castro, ha liberato dalla dittatura sanguinaria di Batista per andare
a combattere altri regimi totalitari, trovandovi la morte, è anche colui che ha saputo conciliare il
pensiero comunista con la religione cattolica, l’internazionalismo proletario con la lotta di liberazione
nazionale. Si inneggia anche a Mao Tse Tung, che invita i giovani del suo paese ad “aprire il fuoco
sul Quartier Generale”, cioè al simbolo di un socialismo (in apparenza) molto diverso da quello
sovietico, che fa continuamente leva sulle masse per impedire una cristallizzazione del sistema in una
elefantiaca ed oppressiva burocrazia di Stato. La Cina è anche l’unica potenza al mondo che sembra
16
Hannah Arendt, op. cit., p. 272.
17
Ibidem, p. 221-222.
18
L’esigenza di libertà, in AA. VV., Contestazione a Varsavia, Bompiani, Milano, 1969, pp. 114-116.
19
C. Davidson, Tattica e strategia nella multiversità, in Peppino Ortoleva, op. cit., p. 283.
20
Rudi Dutschke, Dutschke a Praga, De Donato, Bari, 1968, pp. 107-109. Per il leader della contestazione
studentesca della Rft, il fascismo non si esprime più, come nel passato, in una “organizzazione specifica (partito-
guida con principi di élite)” e in una ideologia come l’antisemitismo, né la sua funzione storica è quella di “bloccare
una rivoluzione proletaria”. “La nuova forma di fascismo - scrive Dutschke - è presente piuttosto in tutte le
istituzioni del tardo capitalismo, dove gli uomini vengono formati autoritariamente”. In queste istituzioni, secondo
Dutschke, gli uomini subiscono delle mutazioni psicologiche radicali, diventando “personalità autoritario-
nevrotiche”, che non si riconoscono nella società, hanno paura e perciò diventano “manipolabili” e tendono quindi
a “scaricare la loro aggressività sulle minoranze”.
9
in grado di incrinare la politica imperialistica delle due maggiori superpotenze, il bipolarismo uscito
dalla Seconda Guerra Mondiale. E poi c’è la guerra del Vietnam, un conflitto che oppone la più
grande potenza mondiale a uno dei popoli più poveri del mondo, guidato da un altro eroe degli
studenti di mezzo mondo, Ho Chi Min. “Creare due, tre, mille Vietnam” diviene ovunque lo slogan
della contestazione. Creare un Vietnam nelle scuole, dove gli studenti sono solo dei numeri ai quali
verrà assegnato il compito di perpetuare le ingiustizie del sistema; nelle fabbriche, dove i lavoratori
rischiano quotidianamente la vita in cambio di un salario da fame; nei ghetti invivibili delle grandi
metropoli industriali, dove la polizia staziona come un esercito invasore. Questa guerra, grazie anche
alla televisione, diventa un nuovo conflitto mondiale. E di fronte ai villaggi distrutti, ai corpi bruciati
dal napalm e alle esecuzioni sommarie di civili sospettati di avere simpatie comuniste, c’è chi invita
tutti a creare un Vietnam dentro di sé21. Anche nell’uomo, infatti, si combatte una guerra quotidiana
tra le istanze di libertà e quelle d’oppressione, tra le tendenze autoritarie e quelle libertarie.
L’importanza che le rivoluzioni del Terzo Mondo esercitano sulla formazione politica di milioni di
giovani nel corso degli anni sessanta emerge chiaramente da queste parole, pronunciate nel 1969 da
uno studente tedesco, H. J. Krahl:
Per la formazione della nostra coscienza antiautoritaria è stata decisiva la solidarietà con i
movimenti socialrivoluzionari di liberazione che operano nel Terzo Mondo. Là, infatti,
l’oppressione è sotto gli occhi di tutti, non è ancora velata dall’esistenza dello scambio
borghese. Il Terzo Mondo ci ha insegnato un concetto di politica radicale, senza
compromessi, ben diversa dalla “Realpolitik” borghese, fatua e senza principi. Che Guevara,
Fidel Castro, Ho Chi Min e Mao Tse-Tung sono rivoluzionari che ci hanno comunicato una
morale politica che rifiuta il compromesso e ci hanno così consentito due cose: abbiamo
potuto staccarci dalla politica della coesistenza pacifica, che l’Unione Sovietica stessa
traduce in mera “Realpolitik”, e, in secondo luogo, abbiamo potuto individuare il terrore che
gli Usa esercitano sul Terzo Mondo.22
Le lotte dei popoli del Terzo Mondo, il conflitto vietnamita, la lotta contro l’autoritarismo sono il
collante di una generazione, capace di unire giovani di diversa estrazione sociale e lontani tra loro
migliaia di chilometri. Scrive il sociologo americano Anthony Oberschall:
La condizione minima per una protesta collettiva è l’esistenza di un bersaglio comune, che sia
oggetto di ostilità perché ritenuto responsabile dei mali, delle privazioni e delle sofferenze di
coloro che protestano, alla quale si aggiunge in alcuni casi un sentimento profondamente
radicato di essere sottoposti ad una oppressione collettiva, di avere interessi comuni ed un
comune destino.23
Il bersaglio comune è la guerra del Vietnam e più in generale lo sfruttamento del Terzo Mondo; i
colpevoli sono le due superpotenze; l’oppressione collettiva è quella che il mondo degli adulti
esercita quotidianamente sui sogni e le speranze di milioni di giovani.
E’ un universo nuovo quello che nasce in questi anni, che si fa largo travolgendo gli angusti confini di
un mondo diviso in blocchi e sfere d’influenza, che appaiono sempre più anacronistiche, dato lo
sviluppo tecnologico. Da un piccolo oblò di una navicella spaziale è possibile vedere il pianeta Terra
21
Jean Luc Godard, intervento per il film Lontano dal Vietnam, 1967, citato in Peppino Ortoleva, op. cit., p. 36.
22
H. J. Krahl, Dati personali, in Peppino Ortoleva, op. cit., p. 240.
23
Antonhy Oberschall, Una teoria sociologica della mobilitazione, in Movimenti di rivolta. Teorie e forme
dell’azione collettiva, a cura di A. Mellucci, Etas Libri, Milano, 1976, p. 175.
10
come è realmente: una sfera, neanche tanto perfetta, colorata dall’azzurro dei mari, dal verde della
grandi praterie e dal bianco delle cime innevate dei monti: non si vedono muri né cortine di ferro.
I giovani vogliono abbattere questo mondo disgregato, unito solo dall’ingiustizia, dalla fame e dalla
guerra. Ma per fare ciò è necessario che il movimento non abbia in sé niente di quel mondo. Ecco
perché Dutschke parla della necessità, propria di tutte le rivoluzioni epocali, di costruire “uomini
nuovi”, liberi dalla “implacabile coercizione del sistema”. Solo gli uomini “liberi ed autocoscienti”
possono minacciare l’esistenza del sistema24.
E’ vero. Infatti, ad Est come ad Ovest, al Sud come nel Nord del mondo, gli studenti vengono
duramente repressi. Una conferma del carattere planetario della contestazione e della inesattezza
delle tesi di Aron e dei suoi numerosi seguaci.
1.2) Il Sessantotto italiano. Le cause di una rivolta
a) Una scuola malata
In Italia la contestazione studentesca prende il nome dall’anno in cui dilaga in tutto il paese, il 1968.
Tuttavia, essa inizia qualche anno prima. Nel 1966, per esempio, l’Università romana della
“Sapienza” viene occupata in seguito alla morte di un giovane studente di sinistra, Paolo Rossi,
ucciso da un gruppo di neofascisti, e nel corso dell’anno successivo numerose agitazioni coinvolgono
altri prestigiosi atenei, come quelli di Pisa, Trento, Venezia e la “Cattolica” di Milano.
Anche in Italia, dunque, l’università è il luogo dove il malessere di una generazione trova il modo di
esprimersi e di organizzarsi. Carlo Oliva ed Aloisio Rendi, autori di un saggio del 1968 sul
movimento italiano, scrivono che il “No all’università autoritaria”, che compare nei primi documenti
della contestazione, si trasforma presto in un “No alla società autoritaria”, quando il movimento,
estendendosi, si trova di fronte “poliziotti, magistrati, cittadini per bene, giornalisti e carabinieri”25.
Anche in Italia la contestazione studentesca risente della controcultura giovanile degli anni precedenti.
Il “no alla società autoritaria”, infatti, è l’urlo dei Beat, la diserzione degli Hippies, la lotta dei Provos:
è lo slogan di una generazione, che appartiene più alla tradizione rivoluzionaria del Sette-Ottocento
che a quella marxista-leninista.
Ma perché la rivolta, in Italia come nel resto del mondo, scoppia proprio negli atenei? Il sociologo
americano Philip G. Altbach scrive che l’università, luogo nel quale una gran massa di studenti “è
raggruppata in un medesimo luogo, sottoposta agli stessi stimoli ed animata da interessi simili, offre
un potente stimolo ad attività organizzative di ogni genere”, crea cioè un gruppo “numericamente
consistente di studenti politicizzati, impegnati e pieni di dedizione”26. Ma il movimento studentesco,
continua Altbach, nasce anche dal sentimento emotivo derivante da un conflitto generazionale.
I suoi membri sono convinti di avere, come giovani intellettuali, la peculiare missione storica
di conseguire le mete che le vecchie generazioni non erano riuscite a raggiungere, o a
correggere i difetti dell’ambiente in cui vivono.27
24
Rudi Dutschke, citato in Peppino Ortoleva, p. 93.
25
Carlo Oliva e Aloisio Rendi, Il movimento studentesco e le sue lotte, Feltrinelli, Milano, 1969, p. 142.
26
Philip G. Altbach, Studenti e politica, in S.M. Lipset, Studenti e politica, De Donato, Bari, 1968, pp. 98-99.
27
Ibidem, pp. 103-104.
11
In Italia non esistono grandi campus universitari come quelli americani, ai quali si riferisce Altbach.
Tuttavia, vi è un numero consistente di studenti che passa intere giornate nelle università, che “vive”
nelle università, anche se non nelle forme che si riscontrano oltreoceano. Ma l’esistenza di grandi
complessi universitari, di vere e proprie città nelle quali sono raggruppati migliaia di giovani e la
rottura generazionale non sono i soli fattori che possono determinare una mobilitazione studentesca.
“Nelle nazioni in cui i laureati corrono il rischio della disoccupazione e gli studenti sentono che la
qualità dell’istruzione è inadeguata - scrive ancora Altbach - è facile che nasca un profondo
malcontento”28, perché - scrive un altro studioso americano, Leonard Berkovitz - “l’istruzione
aumenta le esigenze di godere i vantaggi della società e intensifica le speranze che si possano
ottenere questi vantaggi. La mancata soddisfazione di queste speranze - conclude Berkovitz - è
causa di frustrazione”29.
E’ questo il caso dell’Italia, dove gli studenti universitari, che nel 1960 erano 268.000, nell’anno
accademico 1967-68 sono più di mezzo milione, stipati a decine di migliaia in atenei capaci di
contenerne al massimo cinquemila, dove i docenti sono pochi e poco presenti e dove non sono
previsti seminari né esercitazioni scritte. Un mondo vecchio, un sistema ingiusto, un castello di
privilegi, questo è il sistema universitario italiano nel 1968.
L’università non è stata capace di accogliere i figli del boom economico, soprattutto quelli
provenienti dai ceti subalterni, la maggior parte dei quali si è indirizzata verso le cosiddette facoltà
“povere” del ramo umanistico, dove maggiore è la selezione30.
Scrivono i giovani del movimento studentesco torinese:
All’università entrano in molti ed escono in pochi. Escono innanzitutto coloro per i quali la
collocazione professionale in una posizione dirigenziale è già garantita dalla situazione
sociale della famiglia di provenienza. I figli dei medici saranno medici e i figli dei farmacisti
faranno tutti i farmacisti. Se il padre ha un’impresa, i figli si laureano ed ereditano
l’impresa.31
Riescono a laurearsi però anche i giovani che non hanno una famiglia ricca alle spalle. Sono gli
studenti della “seconda schiera”, quelli che vengono assorbiti dall’industria, dalla pubblica istruzione,
dalla burocrazia statale, dalle banche, dalle svariate organizzazioni di vendita, ma senza possibilità di
fare carriera. Per loro, i passaggi di grado e i miglioramenti economici saranno precostituiti in
funzione dell’anzianità32. Dunque, laurearsi, come scrive lo storico Aurelio Lepre, “non significa di
per sé avere la strada aperta a una carriera di prestigio ed economicamente vantaggiosa”33.
28
Ibidem.
29
Leonard Berkovitz, I fattori emozionali delle agitazioni sociali, in Movimenti di rivolta, op. cit ., p. 147. Il
sociologo americano distingue tra “deprivazione”, propria dei ceti subalterni, e “frustrazione”. Scrive Berkovitz: “Le
persone che sperimentano le maggiori deprivazioni obiettive, coloro cioè che si trovano nel punto più basso della
scala economica, nutrono presumibilmente meno speranze di quelli meglio situati e sono meno aggressivi per il fatto
di non godere di un buon livello di vita”. Questi sarebbero dunque, secondo lo studioso americano, i “deprivati”,
mentre gli studenti, potendo nutrire maggiori speranze e andando incontro a una profonda delusione una volta che
queste svaniscono, sono dei “frustrati”, quindi più aggressivi.
30
Guido Martinotti, Gli studenti universitari. Profilo sociologico, Marsilio, Padova, 1969, pp. 47-57.
31
Sul diritto allo studio, in Documenti della rivolta universitaria, a cura del Movimento studentesco, Laterza,
Bari, 1968, p. 272.
32
Ibidem, p. 273.
33
Aurelio Lepre, Storia della Prima Repubblica, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 223. Lepre ritiene che siano proprio la
selezione e la ristrettezza degli sbocchi offerti dall’università le cause principali della contestazione studentesca
italiana.
12
Ma esiste anche una “terza schiera” di studenti, costituita da tutti quelli che per pagarsi gli studi
devono lavorare e che in alcune facoltà, soprattutto in quelle “povere”, costituiscono la maggioranza
della popolazione studentesca. Per questi ultimi, l’unico contatto con il mondo universitario è
costituito dall’esame, dove - scrive il movimento studentesco torinese - “un poliziotto denominato
per l’occasione docente liquida in cinque dieci minuti l’imputato con una serie di domande. E così,
sotto le spoglie di una selezione culturale e scientifica, l’università attua una selezione sociale”34.
Le cose non vanno meglio nella scuola dell’obbligo, dove ogni anno il 50% dei figli di contadini
vengono respinti. Nelle scuole medie superiori, nel corso degli anni sessanta, si assiste a un notevole
aumento degli iscritti: erano 663.000 nel 1959, sono quasi un milione e mezzo nel 1969. Il boom
delle iscrizioni si registra soprattutto negli istituti tecnici (nonostante una flessione che si manifesta
intorno alla metà del decennio, a causa della recessione economica e della stabilizzazione
dell’occupazione nel settore industriale), dove maggiore è la presenza di studenti appartenenti alle
famiglie meno abbienti. Scrivono gli studenti del movimento di Torino:
La scuola italiana, dalle elementari alle scuole medie superiori, è un grosso meccanismo di
discriminazione sociale. La scuola non fa altro che perpetuare la discriminazione sociale
esistente e riprodurla tale e quale. Ma questa, che è la funzione reale della scuola, è sempre
nascosta, mascherata: la selezione si presenta all’esterno come una scelta degli individui più
capaci, più volenterosi, più intelligenti.35
Della drammatica situazione in cui versa la scuola italiana sono testimoni gli studenti della Scuola di
Barbiana di don Lorenzo Milani, tutti figli di povera gente, la maggior parte dei quali respinti dalla
scuola pubblica, autori di uno dei libri più letti nel 1968, Lettera ad una professoressa. Questa la
testimonianza di uno di loro:
Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho
ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istruzione che chiamate scuola, ai ragazzi che
“respingete”. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate.36
Per gli allievi di don Lorenzo Milani la scuola attua una vera e propria selezione di classe ed è
curioso, scrivono rivolgendosi agli insegnanti della scuola pubblica, “che lo stipendio per buttarci
fuori ve lo paghiamo noi, gli esclusi”37. E ancora:
La Costituzione, nell’articolo 29, promette a tutti otto anni di scuola. Otto anni vuol dire otto
classi diverse. Non quattro classi ripetute due volte ognuna.38
E pensare che solo otto anni prima qualcuno aveva dichiarato che le riforme del centrosinistra
sarebbero stati i mezzi con cui le classi escluse avrebbero esercitato il potere in forme
democratiche39
34
Sul diritto allo studio, in Documenti della rivolta universitaria, op. cit., p. 275-278.
35
Ibidem, p. 283.
36
Scuola Di Barbiana, Lettera ad una professoressa , Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1967, p. 9.
37
Ibidem, p. 68.
38
Ibidem, p. 80.
39
Si fa riferimento ad una dichiarazione di Antonio Giolitti del 1958, citato in Giuseppe Tamburrano, Storia e critica
del centrosinistra , Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1990, p. 128.
13
b) La “sfida democratica al comunismo”40
Con il fallito tentativo di dare una risposta autoritaria alla crisi del centrismo41, il governo Tambroni
del 1960, la classe politica italiana decide a cambiare finalmente rotta. Si apre una nuova stagione
politica: la Dc rompe i legami con la destra e comincia a guardare con un certo interesse un Psi che
ha chiuso il periodo di stretta collaborazione a sinistra con il Pci dopo i tragici fatti d’Ungheria. La
gestazione del centrosinistra è lunga e travagliata, ma i sanguinosi avvenimenti del luglio 1960
avevano mostrato che non c’era altra soluzione42.
La stagione “romantica” della nuova formula di governo (i due esecutivi guidati da Fanfani e il primo
governo Moro) non dura a lungo, ma dimostra a tutti che è possibile governare in maniera diversa,
badando agli interessi generali del paese oltre che a quelli particolari. La nazionalizzazione
dell’energia elettrica, la cedolare d’acconto, i numerosi tentativi di realizzare un piano economico in
grado di porre un freno alle distorsioni provocate dalla possente crescita economica degli anni
precedenti, la rivalutazione del ruolo del sindacato e la riforma della scuola primaria non sono certo
una rivoluzione, ma rappresentano comunque un serio tentativo di riformare il paese. L’onorevole
Emilio Colombo, Ministro del Tesoro nel primo governo Moro, affermerà anni dopo che il
centrosinistra non doveva cambiare la società e le sue regole, ma “rinnovarla, ammodernarla,
correggerne i difetti”43. Quanto basta, però, per scatenare subito l’ira delle forze della conservazione
e della reazione. E, infatti, il governo che Moro guida a partire dal luglio 1964 perde tutta la carica
riformistica che aveva caratterizzato, soprattutto negli intenti, gli esecutivi precedenti e risulta, a
differenza di quelli, molto ben accetto ai cosiddetti poteri forti, nazionali ed internazionali. Il breve
intermezzo tra il primo e il secondo governo Moro è drammatico, anche se gli italiani cominceranno a
rendersene conto solo nel 1967, grazie alle inchieste di due coraggiosi giornalisti del settimanale
“L’Espresso”, Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi. E’ il cosiddetto “Piano Solo”, organizzato e diretto
40
Si fa riferimento alla relazione tenuta dal segretario della Dc, Aldo Moro, al Congresso di Napoli del 27-31 gennaio
del 1962, nel quale il partito doveva decidere sull’apertura al Psi. Tutto il discorso del Segretario, come scrive
Giuseppe Tamburrano, si incentra sulle linee maestre della politica democristiana: l’anticomunismo e l’atlantismo.
Tuttavia, continua lo storico italiano, “l’anticomunismo di Moro vuole essere di tipo nuovo, non più fondato sui
metodi di ‘resistenza attiva’, ma su basi democratiche”: una “sfida democratica al comunismo”, che avrebbe dovuto
concretizzarsi in una politica riformistica, in grado di isolare il Pci (Giuseppe Tamburrano, op. cit., p. 136).
41
Lo storico cattolico Pietro Scoppola è convinto della assoluta anomalia, dal punto di vista storiografico,
dell’esperienza centrista, perché “è stata scritta dai vinti assai più e prima dei vincitori”, cioè dalle sinistre e non dai
democristiani, e perciò, per lungo tempo, esso è stato visto in maniera negativa, come una politica “senza una
identità culturale, incapace di esprimere una precisa coscienza di sé” (Pietro Scoppola, La Repubblica dei partiti, Il
Mulino, Bologna, 1991, pp. 209-214).
42
Il Governo Tambroni, nato con i voti determinanti del Msi, è un momento cruciale nella storia italiana del
dopoguerra. Il suo tragico epilogo conferma alle classi dirigenti italiane che nel nostro paese è ancora molto vivo il
sentimento antifascista e che ogni fuga in avanti non può che incontrare una forte opposizione popolare. Ma per
Pietro Scoppola tutto ciò non ha fatto che oscurare un fatto molto più importante: lo scontro, per la prima volta nella
storia repubblicana, tra Primo Ministro e Piazza del Gesù, cioè tra Governo e Democrazia Cristiana. Tambroni, scrive
Scoppola, rivendicava infatti la piena autonomia dal suo partito, rompendo in tal modo una prassi consolidata, che
vedeva i capi del governo rendere continuamente conto del loro operato al segretario del partito di maggioranza
relativa. Tuttavia, anche Scoppola ritiene che il fallimento del governo Tambroni abbia dimostrato alla classe
dirigente del paese l’impossibilità di ricorrere a maggioranze di destra senza scatenare l’ira della piazze (Pietro
Scoppola, op. cit., pp. 340-343).
43
Citato in Giuseppe Tamburrano, op. cit., p. 339.
14
dal generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo: un vero e proprio colpo di Stato, che prevede la
schedatura, l’arresto e l’internamento di molte personalità democratiche in una amena località della
Sardegna44.
Gli storici si sono divisi a lungo su questo evento. Per Giuseppe Tamburrano, di scuola socialista, per
esempio, le minacce del generale dei carabinieri, con l’appoggio del Capo dello Stato, Antonio
Segni, risultano decisive nel fare accettare al Psi un programma conservatore45. “Non sembra che si
possa parlare di un Partito Socialista che entra in un governo del quale non condivide il programma
per sventare una congiura”, replica il cattolico Pietro Scoppola46, il quale dimentica però il
drammatico articolo che il leader del Psi Pietro Nenni scrive per il quotidiano “L’Avanti!” alcuni
giorni dopo la crisi. Il segretario socialista spiega le ragioni del “sì” del suo partito al “Moro II”:
l’alternativa - scrive Nenni - sarebbe stata quella di “un governo d’emergenza, affidato a personalità
così dette eminenti, a tecnici, a servitori disinteressati dello Stato”, cioè un governo delle destre,
“con un contenuto fascistico-agrario-industriale nei cui confronti il ricordo del luglio 1960 sarebbe
impallidito”47.
Sono in tanti a dubitare che il Piano avrebbe potuto avere qualche chance di successo: l’esercito ne
fu tenuto all’oscuro e l’opinione pubblica avrebbe reagito duramente. E tuttavia, come scrive Aurelio
Lepre, il Piano Solo servì come “strumento di pressione” nei confronti di una classe politica che si
era spinta troppo oltre con il suo programma48. Il colpo di Stato è dunque riuscito perfettamente.
Questo non è che uno dei tanti aspetti di un decennio denso di rivolgimenti.
L’Italia degli anni sessanta è un paese che viene ricoperto da colate di cemento e in barba ad ogni
regola. La pianificazione urbanistica trova la dura opposizione degli amministratori locali, di molti
settori dei partiti di governo, degli speculatori e degli intermediari.
Gli scandali si susseguono a ritmo serrato. “Napoli crolla e uccide”: le amministrazioni post-
laurine seguono la strada aperta dal “comandante”. La speculazione edilizia in tutto il paese,
ma in particolare nel Mezzogiorno, riesce ad alimentare una rete di collusioni sempre più
fitta e sedimentata (...). Il suolo italiano viene lottizzato.49
Il 19 luglio 1966 una frana di spaventose dimensioni si abbatte su Agrigento, città nella quale ben
8.500 case sono state costruite abusivamente. Sempre nel 1966, una violenta alluvione sommerge
Firenze. Migliaia di giovani accorrono in soccorso della popolazione, attivandosi anche per salvare il
patrimonio artistico della città. Finita l’emergenza, un grande corteo sfila per le strade ancora
infangate del capoluogo toscano: i giovani intonano una delle canzoni più famose del movimento
studentesco americano, “We shall overcome”. Forse il Sessantotto nasce proprio qui.
L’Italia degli anni sessanta è figlia del “boom” economico, che certamente l’ha trasformata in un
moderno Stato industriale, esasperandone tuttavia gli storici dualismi, quelli tra Nord e Sud, tra i
settori avanzati e arretrati dell’industria, tra operai ben retribuiti e marginali o precari, e creando
nuove distorsioni, soprattutto nei modelli di consumo, perché, come scrive lo storico inglese Donald
Sasson, “il massiccio sviluppo dei consumi privati, per esempio quelli domestici, non è stato
44
Sentenza del 13 novembre 1970, citato in Giuseppe Tamburrano, op. cit., p. 329.
45
Giuseppe Tamburrano, op. cit., pp. 330-338.
46
Pietro Scoppola, op. cit., p. 349.
47Citato in Paul Ginsborg, Storia italiana dal dopoguerra ad oggi (volume II: Dal “miracolo economico” agli
anni ‘70), Einaudi, Torino, 1989, p. 376.
48
Aurelio Lepre, Storia della Prima Repubblica, Il Mulino, Bologna, 1993, pp. 207-210.
49
V.E. De Lucia, E. Salasano E F. Strobbe, La questione urbanistica, in L’Italia contemporanea. Dal centrosinistra
all’autunno caldo, Zanichelli, Bologna, 1975, pp. 74-75.
15
accompagnato da un eguale sviluppo dei beni di consumo collettivi e dei servizi in settori come
l’istruzione, gli alloggi, i trasporti e la sanità”50.
Per molti italiani è importante dimostrare, a se stessi prima di tutto, di essere definitivamente usciti dal
tunnel del primo dopoguerra, quando era difficile portare a casa anche una pagnotta. Il televisore, la
lavatrice, la lavastoviglie, l’asciugacapelli, l’aspirapolvere eccetera sono status symbol, cioè prodotti
che hanno un valore superiore a quello che possiedono intrinsecamente come strumenti tecnologici.
Sono i simboli di una nuova epoca, un’epoca di “benessere”.
Tra i beni di consumo durevoli, la televisione e l’automobile sono quelli che hanno più successo. Ci
sono persone che abitano in case fatiscenti, sporche, prive di servizi igienici, ma mai del tutto buie. A
illuminarle c’è una luce azzurrina, la Tv. E sono tanti gli italiani che fanno fatica a pagare l’affitto ma
che possiedono un’automobile.
La televisione e l’automobile, inoltre, sono anche i beni che maggiormente incidono sul costume.
Entrambi sono, prima di tutto, strumenti di unificazione nazionale. La televisione diffonde su tutto il
territorio la lingua italiana, anche se in molte zone del paese e in molti strati della popolazione il
dialetto continuerà per anni a essere l’unica lingua parlata. Ma l’unità linguistica che la televisione di
Stato cerca di realizzare non è accompagnata da un lavoro più ampio, volto cioè ad elevare il livello
culturale della popolazione. I modelli prevalenti nella Rai degli anni sessanta sono quelli americani:
quiz, film “holliwoodiani”, sport, spettacoli eccetera. Lo spazio dedicato alle trasmissioni culturali, se
si eccettuano gli sceneggiati (settore in cui la Rai sarà a lungo all’avanguardia), non solo è poco, ma
anche mal gestito, perché in queste, al contrario di quanto accade nei programmi d’intrattenimento,
prevale un linguaggio colto e letterario, inaccessibile ai più, come la collocazione oraria d’altro canto,
solitamente nelle fasce pomeridiane o notturne.
La televisione, che per anni è stata una forma di intrattenimento collettivo, diventa nel corso degli
anni sessanta un fenomeno di massa, grazie anche all’aumento del reddito procapite e alla
diminuzione del costo degli apparecchi. Nel 1954, anno della sua comparsa, gli abbonati erano
appena 800.000; dieci anni dopo sono il cinquanta per cento della popolazione.
L’automobile è l’altra grande “novità” di questi anni. Essa consente a milioni di persone di muoversi
liberamente. Anche negli anni cinquanta ci si muoveva per le strade, ma soprattutto con lo scooter,
che permetteva solo piccoli spostamenti e al massimo per due persone. Ora, grazie all’automobile, a
spostarsi sono intere famiglie e su un mezzo chiuso, cioè protetto e perciò “non soggetto alle norme
abituali del comportamento sociale e della dipendenza. Il regionalismo italiano, così forte e tenace
comincia a smorzarsi man mano che l’esercito motorizzato del ‘miracolo’ si riversa sulle strade della
penisola”51. Sempre grazie all’automobile, milioni di italiani emigrano ogni estate verso le località
balneari, spesso non lontane da quelle frequentate dai vip. Ma negli ospedali migliaia di degenti
stazionano nei corridoi per mesi, in mezzo alla sporcizia, ben lontani, loro, dalle cliniche private
riservate solo ai più ricchi.
L’Italia degli anni sessanta si lascia alle spalle un ventennio tragico (ma non per tutti), cinque anni di
guerra e quindici di ricostruzione, ma i programmi scolastici sono ancora fermi al 1923 e una miriade
di leggi, soprattutto quelle concernenti l’ordine pubblico, appartengono ancora al codice Rocco
dell’era fascista. Le principali città vengono visitate ogni anno dai più famosi registi del mondo. Le
loro cineprese riprendono via Veneto e Piazza di Spagna a Roma, ma non le baracche della sua
degradata periferia; via della Spiga e Piazza del Duomo a Milano, non i casermoni della cintura
operaia; il Ponte dei Sospiri e Piazza San Marco a Venezia, non la fatica stampata sui volti degli
operai del Petrolchimico di Porto Marghera.
50
Donald Sasson, L’Italia contemporanea, Editori Riuniti, Roma, 1988, p.36.
51
Paul Ginsborg, op. cit., p. 330.