I
INTRODUZIONE
La mattina del 5 giugno 1967 l’attacco preventivo israeliano contro
l’aviazione egiziana, diede inizio a quella che è passata alla storia come la
“Guerra dei Sei Giorni”.
Il conflitto tra Israele e i paesi arabi non aveva avuto inizio con l’attacco
israeliano, ma era latente da tempo, sin dalla nascita dello stesso Stato di Israele.
La crisi di Suez (1956) e il relativo atteggiamento “muscolare” dell’Egitto
di Nasser, le continue azioni di guerriglia e le successive rappresaglie, le
controversie per il controllo delle scarse risorse idriche
1
, non fecero che tenere
viva una tensione sempre costante in Medio Oriente, sin dalla nascita di Israele
(14 maggio 1948) e che inevitabilmente sfociò in scontro armato.
Nell’ottobre del 1956 le truppe israeliane, appoggiate da Gran Bretagna e
Francia, si scontrarono con quelle egiziane (alleate con l’URSS). Un mese dopo,
dietro la minaccia di uno scontro atomico, Israele si ritirò dall’Egitto e nei territori
contesi si stanziò una forza di interposizione dell’ONU.
E’ questa una sorta di premessa a ciò che accadrà pochi anni dopo. La
situazione restava tesa, anche perché il Medio Oriente divenne teatro di scontro tra
Stati Uniti e Unione Sovietica.
Una tensione che subì un’accelerazione quando Nasser, dopo aver stretto
un’alleanza con Giordania e Siria e isolato l’Iran filo-occidentale, e chiesto il ritiro
delle forze dell’ONU dalla penisola del Sinai, chiuse il golfo di Aqaba, di vitale
importanza per l’approvvigionamento di Israele
2
.
Israele non restò a guardare e il 5 giugno sferrò un attacco coordinato
contro Egitto, Siria e Giordania. L’aviazione egiziana venne distrutta e questa
“guerra lampo”, durata appena sei giorni (terminò il 10 giugno), mise in seria
difficoltà lo schieramento del mondo arabo, che si opponeva a Israele.
1
Illuminanti, a tal proposito, le parole di Ariel Sharon: «Le persone generalmente considerano il 5
giugno 1967 come il giorno in cui iniziò la guerra dei sei giorni. Questa è la data ufficiale. Ma in
realtà la Guerra dei sei giorni iniziò due anni e mezzo prima; nel giorno in cui Israele decise di
agire contro la deviazione del Giordano», cit., in Water Wars: Coming Conflicts in the Middle East
(J. BULLOCH, A. DARWISH a cura di), Gollancz, Londra, 1993.
2
H. MEJCHER, Sinai, 5 giugno 1967. Il conflitto arabo-israeliano. Il Mulino, Bologna, 2004, p.
15.
II
L’Egitto, infatti, perse la penisola del Sinai (sino a Suez) e la striscia di
Gaza, la Siria dovette cedere le alture del Golan, la Giordania tutti i territori sulla
riva occidentale del Giordano (Cisgiordania) e la zona orientale di Gerusalemme.
Perdite territoriali importanti che si sommarono a quelle umane derivanti
dagli scontri: oltre 30.000 morti fra le forze dei paesi arabi e qualche centinaia tra
gli israeliani. Circa 400.000 palestinesi lasciarono Israele e trovarono rifugio nei
campi profughi in Giordania e in altri paesi limitrofi
3
.
La Guerra dei Sei giorni è considerata uno spartiacque fondamentale nella
storia del Medio Oriente
4
; il presidente egiziano Nasser vide sfumare il sogno del
“panarabismo” e emerse contestualmente una politica di stampo islamico
apertamente estremista; ciò determinò inevitabilmente il declino politico di
Nasser. Di contro il conflitto indusse la Giordania ad assumere un atteggiamento
più prudente, al pari degli altri paesi dell’area.
I palestinesi, riuniti in gruppi di resistenza, il cui più noto fu l’OLP
(Organizzazione per la liberazione della Palestina), perdettero la tradizionale
tutela dei paesi arabi. Il nuovo capo dell’OLP, Yasser Arafat (al potere dal 1969),
pose le basi per la creazione di uno “stato nello stato”, dando così avvio alla
questione palestinese.
L’esito del conflitto, la situazione dei palestinesi, lo status giuridico di
quelli che divennero i “territori “occupati”, condizionano ancora oggi la stabilità
del contesto geopolitico mediorientale, di cui la Guerra dei Sei Giorni rappresenta
uno spartiacque della sua storia.
Da quei fatidici giorni in avanti si innescarono diversi processi che ancora
oggi determinano l’instabilità della regione; si osservò una sorta di “biforcazione”
del perenne conflitto tra arabi e israeliani: da una parte un conflitto tra i paesi
arabi confinanti e Israele, in particolare dal 1979 quando l’Iran divenne una
repubblica islamica, dall’altra la questione nazionale palestinese.
Questo lavoro non intende analizzare le operazioni militari, lasciate sullo
sfondo, quanto porre l’accento sulle diverse prese di posizione dell’opinione
pubblica italiana a seguito delle posizione assunte dalla stampa nazionale.
3
B. MORRIS, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, BUR Biblioteca Universale
Rizzoli, Milano, 2003, pp. 383-437.
4
M. CAMPANINI, Storia del Medio Oriente 1798-2005, Il Mulino, Bologna, 2006, p. 145.
III
Lo stato di Israele e le sue scelte politico-militari portò infatti una parte
dell’opinione pubblica italiana a mantenere un giudizio ambivalente, di solidarietà
e condanna allo stesso tempo.
Il primo capitolo intende volgere lo sguardo sui vari schieramenti politici
alla fine degli anni Sessanta e sulle diverse valutazioni nei confronti della
situazione mediorientale.
Il secondo capitolo verterà sulle posizioni assunte dalla stampa italiana,
attraverso un’analisi dei diversi atteggiamenti delle testate giornalistiche più
importanti.
Il terzo capitolo cercherà di far emergere un trait d’union tra le vicende
storiche passate e ciò che accade tuttora, giacché il dibattito è sempre vivo nella
composita opinione pubblica italiana, come dimostra una costante
contrapposizione tra i “sostenitori” dei palestinesi e quelli di Israele, sempre viva
nel dibattito pubblico italiano.
1
I CAPITOLO
I partiti politici italiani e il Medio Oriente
Un’analisi del rapporto tra l’Italia e il composito mondo mediorientale
appare un’impresa improba; tuttavia, seppur schematicamente, si può rilevare
come, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, l’Italia abbia tentato di ritagliarsi
una dimensione di influenza politico-diplomatica tanto nel Nord Africa, quanto in
Medio Oriente
1
.
Da governi liberali post-unitari, passando al regime fascista, approdando
allo Stato repubblicano, le autorità nazionali hanno costantemente cercato, pur con
finalità e modi diversi, di esercitare un’influenza politica attiva nel mondo arabo,
con l’intento di rafforzare le relazioni diplomatico-economiche coi paesi della
sponda meridionale del Mediterraneo.
La nascita della Repubblica ha posto l’Italia davanti alla necessità di
recuperare e mantenere tali rapporti, spogliati dall’aura colonialista e nazionalista
del passato.
Per comprendere meglio il ruolo italiano nella complessa vicenda
mediorientale, è necessario analizzare l’atteggiamento dei vari schieramenti
politici, perfettamente inseriti nelle convulse dinamiche politico-diplomatiche
post-belliche, che tentavano di ricostruire un mondo devastato dalla guerra.
Il conflitto tra Stato d’Israele e coalizione araba metterà a nudo differenze
e divisioni ideologiche che animeranno un dibattito serrato tra i diversi partiti
politici e che si trascinerà per decenni.
1
L. SAIU, La politica estera italiana dall’Unità a oggi, Laterza, Bari, 2005, p. 28 e ss.
2
1.1 I governi repubblicani tra politica mediterranea e neo-atlantismo
Dopo la firma del trattato di pace del 1947, con il relativo abbandono di
ogni velleità coloniale, i governi centristi democristiani tornarono lentamente a
esercitare una diplomazia marcatamente mediterranea, riservando un’attenzione
particolare alle relazioni con gli Stati arabi.
A partire dagli anni Cinquanta, infatti, la diplomazia italiana tentò un
recupero dei tradizionali rapporti e della rete prebellica di relazioni economiche
del periodo prebellico. Ciò era funzionale a una nuova penetrazione economico-
commerciale delle imprese italiane, private e a partecipazione statale, nel Nord
Africa e nel Medio Oriente, ricchi di materie prime essenziali alla ricostruzione
industriale del Paese.
La rete dei rapporti diplomatici divenne quindi il sostegno principale
all’iniziativa dei grandi gruppi industriali a partecipazione statale, in primis con
l’Eni guidato da Enrico Mattei. Si trattò di un’azione atta a garantire all’Italia e al
suo tessuto economico una valida opportunità di espansione, attraverso un sicuro e
certo canale di approvvigionamento petrolifero, strategico per la rinascita
economica di un paese sostanzialmente privo delle indispensabili materie prime.
Ma, nonostante la svolta politico-istituzionale del dopoguerra, la politica
mediterranea italiana mantenne alcune particolarità tipiche del passato coloniale:
la classe dirigente repubblicana non rinnegò l’idea dell’Italia come nazione
“ponte” tra Europa e Levante mediterraneo e si attribuì un’unicità storica, politica
e culturale tra le nazioni europee.
Emblematico in tal senso il “neo-atlantismo” sostenuto dal presidente della
Repubblica Giovanni Gronchi
2
, dal ministro degli esteri Amintore Fanfani
3
e dal
già citato Enrico Mattei
4
.
2
GIOVANNI GRONCHI (1887-1978), politico italiano. Primo democristiano a ricoprire la carica
di Presidente della Repubblica (terzo in ordine di successione), dal 1955 al 1962.
3
AMINTORE FANFANI (1908-1999), politico, economista, storico e accademico italiano. Ha
ricoperto le più alte cariche governative in diverse occasioni: sei volte presidente del Consiglio dei
Ministri, cinque volte presidente del Senato, nove volte ministro (affari esteri, interno, bilancio e
programmazione economica). E’ stato segretario e presidente della Democrazia Cristiana.
4
G. PREZIOSI, Amintore Fanfani e la politica estera, in «La civiltà Cattolica», Roma, 2 aprile
2011.
3
L’Italia aveva il dovere di collaborare con gli Stati Uniti, in difesa
dell’Occidente e dei suoi valori, in chiara opposizione all’ideologia comunista dei
sovietici, ma aveva altresì la necessità di mantenere un dialogo aperto e vivo con i
paesi mediorientali e del Terzo mondo, con il chiaro scopo di riportare l’Italia a
una posizione strategica di importanza, nel complesso scacchiere mediterraneo
5
,
oltre alle necessarie finalità economiche. Questo ideale atlantico, rivisto e corretto,
fu l’ispiratore di molte iniziative diplomatiche a partire dagli anni Cinquanta del
XX secolo.
La crisi di Suez prima, la Guerra dei Sei Giorni e il colpo di Stato in Libia
nel 1969 poi, convinsero la classe dirigente italiana che il Paese avesse il dovere
di ricoprire un ruolo preminente nei rapporti diplomatici con tutte le nazioni in
campo, soprattutto proponendosi come principale mediatore tra mondo
occidentale e arabo, con il chiaro intento di crearsi un canale privilegiato, forse
anche per garantirsi una sorta di immunità da eventuali ritorsioni in caso di future
controversie.
In ogni caso apparve chiaro sin da subito, che la necessità del governo
italiano era quella di essere sempre presente nel complesso scacchiere diplomatico
mediterraneo, con l’evidente intento di guadagnarsi uno spazio politico centrale
nelle tormentate vicende del mondo arabo, teso ad esercitare una marcata
influenza nelle relazioni tra le varie componenti mediorientali. Questa tendenza
della diplomazia italiana non mancò di suscitare forti malumori in seno alle forze
politiche della maggioranza di governo. L’evoluzione progressiva della politica
governativa filo-araba fece discutere aspramente: accettata ma anche osteggiata,
alla luce della situazione internazionale, sempre in bilico tra guerra fredda, vincoli
atlantici e situazione arabo-israeliana. Furono così inevitabili le ambiguità di
posizione delle varie forze politiche, tali da divenire, nel corso del tempo, motivo
di scontro e contrapposizione.
5
G. BELARDELLI, Neoatlantismo: il sogno di Fanfani a doppia marcia, in «Corriere della
Sera», Milano, 15 giugno 2020, p. 45.
4
1.2 La nascita dello Stato di Israele e l’Italia
A partire dal 1948 l’area mediorientale conobbe una nuova realtà statuale,
che provocò uno squilibrio nei rapporti in un’area che faticosamente cercava
stabilità, soprattutto dopo il tramonto del controllo coloniale e politico britannico.
L’Assemblea delle Nazioni Unite, con la risoluzione n.181 del 1947
6
,
approvò il piano di riorganizzazione della Palestina, con la creazione di due stati
indipendenti, uno ebraico, l’altro arabo, con Gerusalemme posta sotto un
“regime” di controllo internazionale.
Con la fine della presenza britannica, il 14 maggio 1948 venne sancita,
attraverso l’autoproclamazione del neo Primo ministro David Ben Gurion
7
, la
nascita dello Stato d’Israele
8
.
Naturalmente la ridistribuzione del territorio non fu accolta con favore dai
rappresentanti palestinesi, nonché da tutti i paesi arabi confinanti, e si ebbero
scontri, già all’indomani della risoluzione dell’ONU.
La Lega Araba, in risposta a questa spartizione, intraprese una guerra
(“guerra di indipendenza israeliana”, Nakba), invadendo il neonato Stato. Non è
improprio considerare questo come il “conflitto madre” di tutti gli scontri che
periodicamente si ripetono nell’area da decenni.
La complessità di questa situazione è chiaramente rappresentata dalla
difficoltà di comprendere la reale sovranità sui territori contesi da parte dei vari
attori in gioco: tale realtà troverà il culmine dello scontro a partire dalla prima
metà degli anni Sessanta.
L’Italia, almeno in principio, non pose fra le sue priorità la questione sorta
in Palestina: la neonata Repubblica era impegnata nel processo di ricostruzione e
la politica estera era tesa a dirimere le varie problematiche sorte dagli accordi di
pace, oltre a tentare un recupero di credibilità nello scenario internazionale.
6
United Nations General Assembly Resolution 181, November 29, 1947, The Avalon Project- Yale
Law School, 1996, www.web.archive.org.
7
DAVID BEN GURION (1886-1973), politico israeliano, fondatore dello Stato di Israele e primo
politico a ricoprire la carica di Primo ministro del neonato Stato ebraico.
8
Annuncio del 1947 sulla cessazione del mandato, PDF, Emory Institute for the Study of Modern
Israel, 2103, www.smi.emory.edu; S. BROOKS, Palestine, British Mandate for, in The
Encyclopedia of Arab-Israeli Conflict”, vol.3, Santa Barbara (USA), 2008, p. 770.; A. J.
SHERMAN, Mandate Days: British Lives in Palestine, 1918-1948, John Hopkins University
Press, 2001.