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più la struttura chimica differisce da quelle presenti in natura, più per i processi
degradativi sarà difficile aggredirla con successo. La biodegradabilità di un composto
può essere quantificata attraverso l’indice I.R., corrispondente al rapporto tra BOD
5
e
COD, oppure attraverso il tempo di dimezzamento. Tra le classi di inquinanti organici
di maggiore importanza si possono citare: cloroalifatici (come il TriCloroEtilene, forse
l’inquinante più diffuso tra i solventi industriali, molto stabile, tossico, cancerogeno),
policiclici aromatici (IPA, notoriamente cancerogeni), cloroaromatici (per esempio i
PCB, bifenili policlorurati, tra cui la diossina), aromatici volatili (indicati con la sigla
BTEX, Benzene Toluene Etilbenzene Xilene), alifatici volatili (derivati del petrolio, non
fra i più tossici), fenolici, azotati; sono decisamente dannosi molti pesticidi, vari erbicidi
(ad esempio, atrazina e bentazone), esplosivi quali TriNitroToluene e nitroglicerina
(Lozzi, 2004).
Riguardo agli inquinanti inorganici, questi nei terreni si identificano sostanzialmente
con i metalli pesanti, categoria abbastanza omogenea, che presenta una serie di
caratteristiche comuni dal punto di vista chimico, di origine e di comportamento nel
suolo. A dire il vero la definizione “metalli pesanti” non è netta né univoca. A rigore
dovrebbero essere inclusi elementi di tipo metallico con densità superiore a 5,0 g/cm
3
(5
Kg/l), ma a volte viene posta la condizione di un numero atomico almeno pari a 20 e di
un peso atomico oltre 40; inoltre vengono generalmente compresi alcuni metalloidi
assimilabili per proprietà chimiche. Scarsa solubilità dei corrispettivi idrati,
complessabilità, reattività verso i solfuri sono le proprietà che devono essere presenti in
un metallo pesante (Renella, 2004). Esiste una definizione alternativa, quella di
“elementi in tracce”, che fa riferimento al fatto che gli elementi in questione,
praticamente ubiquitari nella crosta terrestre, vi sono presenti in quantità minime
rispetto alla massa totale; ma questa definizione, che di fatto viene ad indicare gli stessi
elementi, non è comunemente diffusa, benché più precisa e formalmente corretta.
Continua quindi ad essere utilizzata la classica dizione “metalli pesanti”, che include i
metalli argento (Ag), bario (Ba), cadmio (Cd), cobalto (Co), cromo (Cr), manganese
(Mn), mercurio (Hg), molibdeno (Mo), nichel (Ni), piombo (Pb), rame (Cu), stagno
(Sn), tallio (Tl), titanio (Ti), vanadio (V), zinco (Zn), ed i metalloidi arsenico (As),
antimonio (Sb), bismuto (Bi), selenio (Se). In condizioni naturali essi sono presenti nei
suoli a concentrazioni bassissime (qualche parte per milione); fanno eccezione suoli che
insistono su formazioni geologiche particolari o su giacimenti minerari, dove si
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raggiungono valori anomali anche altissimi (fino a qualche migliaio di p.p.m.). Non si
può parlare in queste situazioni di suoli inquinati, trattandosi di fenomeni naturali,
mentre si parla di inquinamento laddove un sostanziale incremento dei quantitativi sia
attribuibile ad attività antropiche, anche senza raggiungere i succitati valori estremi. Il
problema è tutt’altro che trascurabile; è stato stimato ad esempio che dalla fine del XIX
secolo ad oggi le concentrazioni di Pb, Zn, Cd e Cu siano aumentate anche del 10%
negli orizzonti superficiali dei suoli della Terra (Renella, 2004). Questi elementi,
assieme ad As, Cr, Hg e Ni possono essere ritenuti i più diffusi come inquinanti; il Mn,
peraltro relativamente abbondante nel terreno in condizioni naturali, è un agente di
contaminazione abbastanza diffuso; gli altri superano le quantità normali solo di rado
(Radaelli e Calamai, 2001).
La presenza di metalli pesanti nel terreno ha varie origini; la quantità riscontrabile in un
suolo agricolo può essere individuata dalla seguente equazione:
M
tot
= (M
p
+ M
a
+ M
f
+ M
ac
+ M
ow
+ M
ip
) – (M
cr
+ M
l
),
dove M
tot
rappresenta la quantità totale, M
p
la quantità presente nel materiale
pedologico di partenza, M
a
il deposito proveniente dall’atmosfera, M
f
l’apporto con i
fertilizzanti, M
ac
l’apporto con gli altri prodotti chimici usati in agricoltura, M
ow
la
frazione derivante dai rifiuti organici, M
ip
quella derivante dagli inquinanti organici, M
cr
la quota asportata con il raccolto, M
l
quella allontanata dal suolo per processi di vario
tipo (volatilizzazione, lisciviazione, ecc.) (Alloway, 1990). Mentre la porzione
imputabile al substrato pedologico è un dato di fatto, gli altri apporti, evidentemente
legati all’azione umana, risultano dei fattori di inquinamento controllabili. All’interno
della deposizione secca ed umida di origine atmosferica (sotto forma di aerosol,
particolati, precipitazioni) i metalli pesanti di origine naturale – da emissioni
vulcaniche, da materiale terroso sospeso – hanno infatti una consistenza ben poco
significativa di fronte ai quantitativi immessi in atmosfera dalle attività antropiche. Le
fonti di emissione sono molteplici: attività industriali (in particolare fonderie e
lavorazione dei metalli, galvanizzazione, concerie, cartiere, industrie del cloro e degli
alcali, vetrerie, cementifici), processi di estrazione mineraria, centrali termoelettriche,
inceneritori, traffico veicolare, impianti di riscaldamento (Tab. 1).
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Origine Cd Cr Cu Mn Ni Pb Zn
Centrali elettriche 101 1196 1377 1011 4580 1138 1316
Impianti di riscaldamento 155 1580 2038 1378 7467 1652 1824
Carburanti 31 - - 92 1330 74300 -
Miniere 1 - 192 275 1640 1090 460
Produzione di metalli non ferrosi 2156 - 8471 140 28022 54920 -
Produzione e trasformazione di
ferro e leghe ferrose
58 15400 1710 10770 340 14660 10250
Incenerimento dei rifiuti 84 53 260 114 10 804 5880
Fertilizzanti fosfatici 27 - 77 - 77 6 230
Cementifici 15 663 - - - 746 -
TOTALE 2628 18892 14125 13640 15584 122418 74880
Tab. 1 – Fonti principali di metalli pesanti in atmosfera a livello europeo; valori in
tonnellate/anno (modificato da Pacyna, 1994)
I metalli pesanti in atmosfera vengono trasportati come aerosol, in forma di particelle
del diametro di 0,1 – 10 µm, anche su distanze enormi; possono resistere in aria, prima
di depositarsi, 10 – 30 giorni (Bowen, 1979).
Gli input di origine agricola hanno un’importanza tutt’altro che trascurabile: si tratta in
parte di depositi derivanti dall’applicazione di fitofarmaci sulle colture, in parte di
prodotti applicati direttamente al suolo. La presenza di metalli pesanti è riscontrabile in
un’ampia gamma di prodotti ad uso agricolo, quali fertilizzanti chimici, ammendanti,
correttivi (ceneri, pirite), essiccanti, fitofarmaci di vario tipo. Particolari problemi sono
posti dall’uso in agricoltura di compost e fanghi di depurazione, il quale, oltre ai
vantaggi agronomici, risulta un’interessantissima alternativa per lo smaltimento di
questi materiali, che però per la loro stessa origine sono frequentemente ricchi in metalli
pesanti; visto che le normative dei Paesi dell’Unione Europea limitano sempre più la
possibilità di scarico dei fanghi di depurazione, si prevede un largo incremento del loro
uso a livello agricolo, con conseguenti rischi per la contaminazione dei suoli.
Infine vanno segnalati i problemi legati al rilascio di metalli pesanti da parte di
inquinanti organici e da parte di rifiuti; l’abbandono nell’ambiente di particolari oggetti
ad alto rischio (pile, batterie, parti di auto) può determinare inquinamenti localizzati di
altissima intensità (Alloway, 1990).
A differenza dei composti organici, i metalli pesanti non sono degradabili dall’attività
del suolo; inoltre sono in genere scarsamente mobili, rimanendo spesso confinati entro
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pochi cm dal punto d’immissione; vanno quindi a configurare forme di inquinamento
molto persistente. Vero è che la mobilità nel terreno dipende da molteplici fattori: pH
(innalzandolo si tende ad immobilizzare diversi metalli pesanti, influenzando la
precipitazione, l’adsorbimento, la stabilità dei complessi), potenziale redox, Capacità di
Scambio Cationico, presenza di sostanza organica e componente argillosa (che
trattengono i metalli), attività biologica. I metalli pesanti sono riscontrabili in varie
forme, alcune più facilmente biodisponibili (metalli in soluzione, scambiabili o legati
alla S.O.), altre meno (in particolare gli ossidi). Le caratteristiche intrinseche del terreno
giocano dunque un ruolo importante nel determinare il livello di inquinamento: suoli
sabbiosi e poveri di S.O., trattenendo poco i metalli pesanti, possono rilasciarne quantità
pericolose, anche in vista dei valori limite fissati dall’Organizzazione Mondiale della
Sanità (Ingwersen et al., 2000). Comunque, parlando in termini generali, la persistenza
nel terreno è molto elevata: si calcolano dai 75 ai 380 anni per il cadmio, addirittura dai
1000 ai 3000 anni per As, Cu, Ni, Pb, Se, Zn (Renella, 2004). Fatto importante da
considerare è che, con il tempo, le forme più mobili tendono ad evolversi in forme più
recalcitranti (processo di ageing).
La dannosità dei metalli pesanti si esplica quando vengono ad essere assimilati dagli
organismi viventi, a causa di certe loro proprietà: la presenza di diversi numeri di
ossidazione li rende particolarmente reattivi; la loro attività come catalizzatori biologici
li fa interferire con le reazioni biochimiche; la loro affinità con i gruppi tiolici degli
amminoacidi fa sì che agiscano da veleni enzimatici; Cu, Cr e Ni sono implicati nella
formazione delle specie di ossigeno attivo ben note come agenti tossici.
Effetti della contaminazione da metalli pesanti sono la riduzione della biomassa e della
diversità microbiche, dell’attività enzimatica, della fissazione di azoto; è stata
riscontrata una diminuzione della mineralizzazione di certe sostanze organiche, in
specie fitofarmaci quali parathion e pyrazophos (Fließbach e Reber, 1990). Le piante
hanno solitamente un basso livello di assunzione di metalli pesanti, ma va detto che gli
essudati radicali esercitano un effetto di mobilizzazione di questi; da non trascurare,
sebbene nettamente minore rispetto all’assorbimento radicale, l’assorbimento per via
fogliare, riguardante metalli rilasciati dall’aria direttamente sulle piante. I metalli
pesanti provocano interferenze con l’assimilazione ed il metabolismo di elementi
indispensabili per la nutrizione vegetale; va ricordato che gli stessi metalli pesanti
possono svolgere funzione di nutrienti essenziali, il che non esclude affatto la loro
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tossicità: alcuni elementi essenziali sono tollerati solo a concentrazioni bassissime
(mentre altri non essenziali sono talora largamente sopportati). Comunque i problemi di
fitotossicità, benché da tenere in considerazione, non sono quelli più preoccupanti a
livello ambientale (Lorenzini e Nali, 2004). L’inserimento nella catena alimentare
attraverso i vegetali, fino a raggiungere consumatori animali di vario livello, rappresenta
un pericolo molto più sentito, gravido di conseguenze anche per la salute umana.
L’assunzione di metalli pesanti con gli alimenti, insieme all’esposizione a quelli
presenti nell’ambiente, provoca infatti il loro passaggio nei tessuti cutanei e nelle
mucose gastriche e respiratorie, con accumulo finale nei tessuti connettivi, ossei e
adiposi, e conseguenze sanitarie anche gravi.
1.1.2 Le normative in materia di bonifica dei suoli
contaminati
I problemi relativi alla contaminazione del suolo non sono certamente una novità degli
ultimi anni, ma lo è il forte interesse (sebbene non ancora largamente diffuso) rivolto
alla tematica ed alle eventuali soluzioni. Fino agli anni ’90 del XX secolo mancava un
approccio integrato al problema dell’inquinamento delle matrici ambientali, resistendo
un approccio per compartimenti (acqua, suolo, aria) che non coglieva pienamente la
complessità dei fenomeni (Boschi, 2004). L’interesse tardivo per la problematica dei
terreni contaminati da parte dell’opinione pubblica e della comunità scientifica si riflette
in una tardiva azione legislativa volta alla difesa ed al recupero del suolo, che a questo
punto viene inteso come un bene ambientale, al pari dell’acqua e dell’aria. Se sul fronte
della difesa dall’inquinamento si possono fissare vincoli e limiti tesi a non immettere
quantità eccessive di inquinanti nel suolo, la questione del risanamento dei siti già
compromessi appare particolarmente spinosa.
Non che fino agli anni ’90 il problema delle bonifiche fosse stato totalmente ignorato:
risale al 1972 la preparazione di una Carta del suolo da parte del Consiglio della
Comunità Europea; compaiono nel 1982 la World Soil Charter (FAO) e la World Soil
Policy (UNEP). Ma è nel 1992, con la Conferenza sulla Terra di Rio de Janeiro, che si
aprono nuove prospettive per la tutela dei beni ambientali, in armonia con il principio
dello sviluppo sostenibile portato avanti in quest’occasione. Estremamente importante,
sul piano dei principi enunciati, è anche la Convenzione di Lugano dell’anno
11
successivo, voluta dal Consiglio europeo, nella quale si definiscono delle responsabilità
civili per i danni derivati da attività pericolose per l’ambiente; trova così affermazione il
principio PPP, Polluter Pays Principle (chi inquina paga), secondo il quale chi si rende
responsabile di danno ambientale è tenuto in prima persona a risarcire il danno
(accollandosi tra l’altro le spese per il ripristino ambientale). Ma la responsabilità di far
valere i principi è lasciata ai singoli Paesi dell’Unione Europea, senza una
regolamentazione unitaria. Nel 1995 arriva uno studio pilota su nuove tecnologie di
decontaminazione di acqua e suolo, realizzato stavolta dalla Commissione sulle sfide
della società moderna, creata nel 1969 dalla NATO. Nel 1996 a livello dell’Unione
Europea vengono istituti due network per lo scambio di informazioni e conoscenze su
siti contaminati e loro recupero: CARACAS, Concerted Action on Risk Assessment for
Contaminated Sites in the European Union (adesso è diventato CLARINET), e
NICOLE (Network for Industrial COntaminated Land in Europe), il primo destinato
fondamentalmente alle pubbliche amministrazioni, il secondo alle industrie. Nel 1998
l’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA), attraverso l’ETCS (European Topic Center /
Soil), pubblica un rapporto sullo stato dell’arte delle bonifiche, evidenziando grande
disomogeneità nella situazione dei vari Paesi.
Tirando le somme dell’azione comunitaria dell’ultima dozzina di anni in tema di
bonifiche, si nota che ci sono state un’analisi della dimensione del problema,
un’attenzione verso la risoluzione di certe singole situazioni, l’espressione di principi
generali, la costituzione di reti di contatto e di informazione, ma sono sostanzialmente
mancati indirizzi legislativi netti ed adeguate incentivazioni per la ricerca sulle tecniche
d’intervento (Boschi, 2004).
Riguardo all’Italia, la legislazione nazionale nel campo delle bonifiche si è sviluppata a
partire dagli anni ’90 sulla scorta delle indicazioni comunitarie. Fino ad allora erano
state prese più che altro misure di emergenza legate a situazioni particolarmente
compromesse, con riferimento soprattutto alle problematiche relative alla
contaminazione da rifiuti. Episodi legislativi comunque significativi sono, negli anni
’80, il D.P.R. 915/82 e la legge 441/87, entrambi sullo smaltimento dei rifiuti. In
particolare la l. 441/87 (“Disposizioni urgenti in materia di smaltimento dei rifiuti”),
indica la necessità di redigere dei Piani di Bonifica relativi alle varie Regioni,
demandando a queste tale compito. Tale necessità viene ripresa dal D.M. 185/89 del
Ministero dell’Ambiente, “Criteri e linee guida per l’elaborazione e la disposizione, con
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modalità uniformi da parte di tutte le Regioni e Province autonome dei Piani di
Bonifica”, che si sofferma sulle modalità di censimento dei siti e di accertamento della
loro contaminazione. Ma l’auspicata uniformazione dell’operato delle singole Regioni
di fatto non avrà luogo. Nella prima metà degli anni ’90 le leggi 132/92 e 133/92 sulla
protezione delle acque e la 549/95 sulle discariche abusive segnano ulteriori passi in
avanti, ma la vera svolta si ha soltanto nel 1997, col Decreto Legislativo 5 febbraio
1997, n. 22 (decreto Ronchi): “Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti,
91/686/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di
imballaggio”. Il decreto introduce alcune chiare definizioni di base, distinguendo tra
l’altro fra la messa in sicurezza (contenimento degli agenti inquinanti all’interno del sito
degradato, evitando pericoli per l’ambiente esterno e per la salute umana) e la vera e
propria bonifica (rimozione degli inquinanti fino a valori limite fissati); inoltre vengono
determinati responsabilità ed obblighi riguardo alle azioni di risanamento da
intraprendere. Di fondamentale importanza l’articolo 17, al quale si legge: “Chiunque
cagiona, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di cui al comma 1,
lettera a), ovvero determina un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti
medesimi, è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di
bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali deriva
il pericolo di inquinamento”. Lo stesso articolo fissa le procedure di riferimento per le
operazioni di risanamento (tra cui anche il ripristino ambientale, ossia il riportare l’area
a condizioni compatibili con quelle dell’ambiente circostante), con tutta una serie di
scadenze che il soggetto responsabile è tenuto a rispettare. Dal decreto vengono inoltre
specificati funzioni e contenuti dei Piani regionali di Bonifica, adesso inquadrati
all’interno dei Piani di gestione dei rifiuti.
L’anno seguente la legge 426/98, “Nuovi interventi in campo ambientale”, indica alcune
aree da bonificare di interesse nazionale, da inserire nel Piano nazionale di bonifica e
ripristino ambientale; questo verrà definitivamente adottato con D.M. 18 settembre
2001, n. 468 (ed aggiornato successivamente con l’aggiunta di altre aree per effetto di
ulteriori decreti ministeriali). Nel frattempo viene emanato il D.M. 25 ottobre 1999, n.
471, “Regolamento recante criteri, procedure e modalità per la messa in sicurezza, la
bonifica e il ripristino ambientale dei siti inquinati, ai sensi dell’articolo 17 del D.Lgs. 5
febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni e integrazioni”: qui si individuano le
aree che necessitano di intervento sulla base del superamento dei valori soglia (valori
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limite di concentrazione), relativi ai diversi inquinanti ed all’uso del sito (residenziale,
ricreativo o verde pubblico oppure industriale e commerciale); qui si specificano le
modalità di intervento (notifica, ordinanza comunale, interventi ad iniziativa degli
interessati). Da questo decreto emergono indicazioni sulla scelta delle tecniche di
decontaminazione, le quali indicazioni, pur non vincolanti, evidenziano chiaramente
l’indirizzo caldeggiato dal legislatore: si prospettano metodologie efficaci e dai costi
sostenibili, che limitino la movimentazione del suolo inquinato ed il suo smaltimento
altrove, e che consentano di riutilizzare agevolmente il sito dopo l’intervento. Si vuole
insomma indirizzare la ricerca verso tecniche in situ a basso impatto ambientale, come
la biorimediazione. Questa tendenza è confermata nella “Strategia d’azione ambientale
per lo sviluppo sostenibile in Italia”, redatta dal Ministero dell’Ambiente nel 2002, la
quale peraltro appare in sintonia con il “Sesto programma di azione per l’ambiente”, col
quale l’UE stabilisce la propria politica ambientale fino al 2010.
La ricerca sui metodi di bonifica è sostenuta da finanziamenti pubblici a livello sia
comunitario, sia nazionale, sia regionale (Devoto et al., 2004). Sul piano comunitario il
VI Programma Quadro, che finanzia la ricerca dal 2002 al 2006, prevede tra le priorità
tematiche una che riguarda sviluppo sostenibile, cambiamento globale ed ecosistemi; in
particolare si può fare riferimento all’area II (Water cycle, including soil related
aspects) e più specificatamente al tema II.2.2 (Water soils system functioning and
management). Sul piano nazionale ci si riferisce al Fondo per le Agevolazioni alla
Ricerca previsto dal D.Lgs. 297/99 all’art. 5 (per attività di ricerca industriale), ed al
Fondo Innovazione Tecnologica previsto dalla l. 46/82 (per programmi di prevalente
sviluppo precompetitivo).
Si può rilevare comunque che, se la normativa si va ormai definendo, l’applicazione
pratica delle tecniche di bonifica, almeno di quelle più innovative come la
biorimediazione, è ancora a livello embrionale in Italia; per valutare i risultati si fa
riferimento soprattutto ad esperienze straniere, americane più che europee.
1.1.3 I metodi di bonifica
Le tecniche elaborate per bonificare i suoli sono di vario tipo, ed il loro stesso obiettivo
può differire: in alcuni casi si mira ad una decontaminazione, riducendo drasticamente
la quantità degli inquinanti (arrivando ad una vera e propria bonifica); in altri l’obiettivo