In questo lavoro si cerca di comprendere e presentare la realtà dei paesi in via di 
sviluppo (Pvs) ed in particolare alcuni dei numerosi tentativi che sono stati messi in atto 
dagli anni ottanta fino ad ora per cambiare e migliorare la situazione interna e aiutarli 
nella loro via verso lo sviluppo.  
Nella prima parte si darà un’idea generale delle dimensioni del problema. 
Il primo capitolo, analizza il concetto di sviluppo e sottosviluppo e alcune delle 
diverse interpretazioni che sono state date sulle possibili cause di questo fenomeno, che 
risulta essere strettamente correlato con il problema del debito estero per i paesi in via di 
sviluppo. Viene, quindi, esposto il processo che ha portato al progressivo indebitamento 
di questi paesi, cercando di sottolineare le ragioni che ne hanno determinato la nascita, 
la crescita e il progressivo peggioramento. Infine, si presenta la situazione attuale per 
quei paesi che definiamo in via di sviluppo, evidenziando in particolare modo la 
struttura industriale interna e il loro grado di indebitamento con alcuni dati e statistiche 
fornite dalla Banca Mondiale e delle Nazioni Unite.   
Nel secondo capitolo viene fatta una panoramica di tutte le diverse soluzioni e 
proposte, ideate e messe in atto, per risollevare questi paesi dal peso del debito, da 
quando negli anni 80 si è cominciato a considerare il problema del debito estero non più 
un fenomeno localizzato e temporaneo, bensì di portata mondiale. Si è scelto di 
presentare in modo più approfondito le politiche indirizzate alla risoluzione del 
problema del debito, perché fondamentali  per un qualsiasi progetto di sviluppo, e per la 
forte influenza che esse esercitano sulla performance economica dei Pvs. 
Si è attuata una distinzione fra macro e micro, sia dal punto di vista del tipo di 
promotore dell’iniziativa, sia dal punto di vista del livello al quale una determinata 
iniziativa opera. Vengono quindi definite quelle iniziative che sono state proposte e 
portate avanti da organismi internazionali su scala globale o locale (tipo di livello), quali 
il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, le Nazioni Unite, come i piani di 
aggiustamento strutturale, l’iniziativa HIPC, il mercato secondario del debito, ecc. Con 
il termine micro, invece, si intendono tutte le proposte e le attività messe in atto invece 
da realtà più piccole e spesso volontaristiche, che con il medesimo obiettivo di 
risollevare questi paesi dal peso del debito, hanno cercato di trovare soluzioni 
alternative a quelle istituzionali, come: il commercio equo e solidale, il microcredito, il 
 turismo responsabile, la Banca Etica, l’iniziativa di “Bilanci di Giustizia”, il consumo 
critico e i progetti delle numerose Organizzazioni Non Governative (ONG) ormai 
diffuse in tutto il mondo. 
Nella seconda parte del lavoro si cerca di presentare in maniera più approfondita 
una possibile via allo sviluppo di questi paesi: la piccola impresa 
Si parte, nel terzo capitolo, da una presentazione generale del fenomeno della 
piccola impresa nei Pvs, analizzandone la distribuzione e le caratteristiche generali di 
base nelle tre regioni più povere del mondo; Africa, Asia del Sud e America Latina. 
Si passa in seguito ad una presentazione più approfondita del fenomeno in due 
realtà concrete: Bangladesh e Tanzania. Sono stati scelti due paesi, all’interno del 
gruppo preso in esame, per vedere nello specifico la struttura industriale, il tipo di 
produzione, la storia dell’economia  per capire il tipo di realtà in cui i diversi interventi 
di sostegno  sono stati messi in atto (quarto capitolo). 
Nel quinto e ultimo capitolo, infine si mettono a confronto le due realtà per 
alcuni punti rilevanti in questo contesto. Si cerca di mettere in evidenza come 
effettivamente, se la piccola impresa è una via allo sviluppo dei Pvs, si può contribuire 
alla sua espansione e diffusione. 
Nei paesi dove lo sviluppo viene, in qualche modo frenato dal problema del 
debito, la piccola impresa può essere una via per arrivare alla soluzione del problema? E 
cosa si può fare per incentivarne e sostenerne lo sviluppo? 
Queste sono le domande alla base di questo lavoro; un’analisi delle realtà 
caratterizzate dal sottosviluppo e dal peso del debito all’interno delle quali la piccola 
impresa gioca un ruolo importante. Come approfondiremo essa permette una riduzione 
della povertà, maggiori opportunità di occupazione e una migliore distribuzione di 
reddito e una partecipazione attiva e diretta delle singole persone. (permettere una 
riduzione della povertà, una migliore distribuzione della ricchezza e una reale 
autocoscienza e autodeterminazione degli abitanti). 
Se, come dice Amartya Sen, «la promozione della libertà umana è sia l’oggetto 
principale, sia il mezzo primario dello sviluppo» (Sen, 2000) solo attraverso una sorta di 
industrializzazione dal basso, che permetta prima di tutto alle persone di diventare attori 
principali nella gestione delle loro attività economiche, si può veramente promuovere e 
incentivare lo sviluppo economico e umano di un paese. In questo caso, lo sviluppo 
 della piccola impresa si può considerare, allo stesso momento, come fine e mezzo per 
l’eliminazione del debito che alcuni stati hanno verso i paesi ricchi (sviluppati, 
industrializzati).  
 
Prima di passare ad analizzare in dettaglio i temi qui sopra presentati, si è 
ritenuto di fondamentale importanza cercare di definire in maniera più precisa l’oggetto 
della nostra analisi: cosa si intende per “paesi in via di sviluppo”. 
Si è sempre cercato  di raggruppare tutti i paesi del mondo in diverse categorie, 
secondo le loro caratteristiche più importanti, per poi poterli comparare tra loro.  
Una delle classificazioni più significative viene riportata dal Reynolds nel 1979. 
Egli distingue  i paesi del mondo in base al loro sistema economico in tre grandi gruppi, 
al loro interno eterogenei: le economie capitalistiche modificate o “miste”, le economie 
socialiste e le economie meno sviluppate. In particolare egli definisce questo ultimo 
gruppo come quei paesi che presentano le seguenti caratteristiche: «limitata competenza 
economica al governo, prevalenza della produzione di sussistenza e del lavoro in 
proprio, imperfezione dei mercati, sottoutilizzazione e bassa produttività dei fattori 
produttivi, accentuata dipendenza dai proventi derivati dalle esportazioni e dall’afflusso 
di capitali, settore pubblico e settore industriale moderno poco sviluppati, basso reddito 
per abitante e distribuzione del reddito molto ineguale, saggi di sviluppo bassi, con 
grave dispersione nel rendimento dei singoli paesi.» (Reynolds, 1979:116). 
 
In seguito, il rapporto Brant nel 1980 divise tutti i paesi del mondo in tre gruppi. 
Il primo mondo, che comprende i paesi industriali a sistema capitalistico, il secondo 
mondo, che comprende i paesi a sistema socialista, il terzo mondo, che comprende  le 
regioni economiche meno sviluppate. 
Con il crollo del comunismo alla fine degli anni ’80, questa distinzione è risultata 
obsoleta e si è sentito la necessità di una classificazione che più corrispondesse alla 
realtà esistente. Così, da un punto di vista strettamente economico, i paesi del mondo 
sono stati sottoposti ad un’ulteriore divisione in quattro blocchi, due del nord e due del 
sud.  
 Primo mondo: conta circa mezzo miliardo di abitanti e oltre ad avere capacità produttiva 
e tecnologica, è ricco di materie prime.  
Secondo mondo: conta circa 600 milioni di abitanti e, pur avendo anch’esso una grande 
capacità tecnologica e produttiva, è povero di materie prime. 
Terzo mondo: ha una popolazione di circa tre miliardi e mezzo di abitanti ed è molto 
inserito nell’economia mondiale soprattutto come esportatore di materie prime (petrolio, 
minerali, risorse forestali ed agricole). Alcuni paesi di questo blocco hanno anche una 
certa forza industriale 
Quarto mondo: conta quasi miliardo di persone e non ha né materie prime né industrie. I 
paesi appartenenti a questo blocco sono anche chiamati “paesi meno avanzati”. Essi 
sono 42 ed appartengono in gran parte all’Africa. 
 
Ognuna delle classificazione qui sopra presentate può essere utile secondo il 
punto di vista che si vuole tenere presente nell’analisi del problema. Ma sono due le 
classificazioni attualmente prese più in considerazione e che utilizzeremo maggiormente 
in questa tesi; quella della Banca Mondiale basata sul prodotto nazionale lordo pro 
capite e quella delle Nazioni Unite basata invece su un particolare indice, detto Indice 
dello Sviluppo Umano. 
La Banca Mondiale classifica le nazioni in base al loro prodotto nazionale lordo 
pro capite: quanta ricchezza un paese produce ogni anno per ogni suo abitante. Il PNL è 
la misura più generale del prodotto di un paese; esso consiste nella somma della 
produzione interna ad un paese, più  gli introiti dall’estero, che sono però di proprietà 
degli abitanti di quel paese. Questo risultato è diviso per il numero di abitanti e 
convertito in dollari USA al tasso di cambio.  
In base a questo criterio si possono distinguere quattro fasce di reddito: 
1. Basso, comprende tutti i paesi con un PNL pro capite inferiore o uguale a 755$ 
all’anno (40% della popolazione mondiale); 
2. Medio-basso, comprende tutti i paesi con un PNL pro capite compreso fra 756 e 
2,995$ all’anno (35% della popolazione mondiale); 
3. Medio-alto, comprende tutti i paesi con un PNL pro capite compreso fra 2,996 e 
9,265$ all’anno (10% della popolazione mondiale); 
 4. Alto, comprende infine tutti paesi che hanno un PNL pro capite maggiore o uguale a 
9,266$ l’anno (15% della popolazione mondiale) (World Development Indicators 
2001). 
 
Il paese più povero risulta essere dunque l’Etiopia, con solo 100$ di PNL pro 
capite, mentre quello più ricco è il Lussemburgo con 42,930 $ annui. 
Questa classificazione è stata molto criticata per due motivi principali. In primo 
luogo perché il reddito pro capite non è che una media e, come tutte le medie, non 
rappresenta la realtà in maniera corretta ed esauriente. Il calcolo del reddito nazionale 
(PNL) si basa solo sulle informazioni fornite dalle aziende registrate dalla pubblica 
amministrazione, senza prendere in considerazione due realtà molto diffuse nel Sud del 
mondo: l’economia non monetaria e l’economia irregolare. La prima si riferisce al 
lavoro dei piccoli contadini che producono per l’autoconsumo, la seconda si riferisce 
alle piccole attività artigianali e commerciali che la gente improvvisa per sopravvivere. 
In secondo luogo, si denuncia il fatto che classificare i paesi solo in base al loro 
PNL pro capite implica la convinzione che la sola cosa da fare per garantire alla gente 
più benessere è far crescere la produzione. In realtà, essa non tiene conto di altri fattori 
non strettamente economici, che però nell’analisi di qualsiasi società sono di primaria 
importanza. Ad esempio, bisogna tenere conto del grado di distribuzione della ricchezza 
e del reddito e di conseguenza del benessere, speranza di vita alla nascita, accesso ai 
servizi sanitari, tasso di povertà, tasso di disoccupazione, tasso di analfabetismo, 
sicurezza alimentare, disponibilità di acqua potabile, diritti civili, grado di uguaglianza 
fra i sessi. 
 
Anche sulla base di queste critiche, nel 1990, le Nazioni Unite, in particolare 
l’agenzia che si occupa di sviluppo UNDP (United Nations Development Program), 
pubblicano per la prima volta il Rapporto sullo Sviluppo Umano, in cui viene presentato 
un indice per cercare di classificare in gruppi tutti i paesi del mondo: Indice di Sviluppo 
Umano come nuovo metodo di classificazione, indicatore di sviluppo e quindi di 
benessere di un paese, in contrapposizione alla concezione di reddito pro capite 
economico. L’indice di sviluppo umano parte dal presupposto che il reddito non sia 
l’essenza assoluta delle vite umane, come la sua mancanza non sia l’essenza assoluta 
 delle privazioni umane. Si cerca in questo modo di dare una visione più completa del 
benessere umano rispetto a quella espressa dal reddito o dalla sua mancanza.  
Per realizzare la sua classificazione l’UNDP usa l’Indice di Sviluppo Umano 
(ISU), rispetto a tre variabili: durata media della vita, livello medio di istruzione e 
reddito familiare. 
Da allora sono stati elaborati altri tre indici: l’Indice di Povertà Umana, l’Indice 
di Sviluppo di Genere e la Misura dell’Empowerment di Genere. Li presentiamo 
brevemente per poi fare un’analisi approfondita dell’indice di sviluppo umano che in 
questo contesto  interessa in maniera particolare. 
 
Indice della povertà umana (IPU).  
Misura le privazioni nello sviluppo umano cercando di evidenziare la 
distribuzione dei progressi evidenziati dall’ISU. L’IPU è presente in due versioni, per i 
paesi in via di sviluppo (IPU-1) e per i paesi industrializzati (IPU-2), perché la 
privazione umana varia a seconda delle condizioni economiche e sociali di una 
comunità. 
 L’IPU-1 misura la povertà nei paesi in via di sviluppo. Esso è centrato sulla 
privazione di tre dimensioni: sopravvivenza, misurata dalla probabilità alla nascita di 
non vivere fino ai 40 anni; istruzione, misurata dal tasso di analfabetismo negli adulti; 
sostentamento economico generale, pubblico e privato, misurato dalla percentuale di 
persone che non utilizzano fonti di acqua pulita e dalla percentuale di bambini, al di 
sotto dei cinque anni, che sono sotto peso. 
L’IPU-2 misura la povertà umana in determinati paesi OCSE (Organizzazione 
per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico). Esso è incentrato sulle stesse tre 
dimensioni già descritte, con termini di riferimento diversi: la probabilità di non vivere 
fino a 60 anni, il tasso funzionale di analfabetismo degli adulti, la percentuale di persone 
che vivono al di sotto della linea di povertà di reddito (con un reddito familiare inferiore 
al 50% del reddito mediano). A queste tre viene aggiunta un’ulteriore dimensione, 
l’esclusione sociale, misurata dal tasso di disoccupazione di lungo periodo ( 12 mesi o 
più). 
  
Indice dello sviluppo di genere (ISG).  
Cerca di evidenziare le disuguaglianze fra uomini e donne, misurando le stesse 
dimensioni e utilizzando le stesse variabili dell’ISU. Quanto maggiore è la disparità di 
genere nello sviluppo umano, tanto più basso sarà il ISG di un paese paragonato all’ 
ISU del paese stesso. L’indice di sviluppo di genere non è altro, quindi, che l’ISU 
aggiustato verso il basso per tenere conto della disparità di genere.  
 
Misura dell’empowerment di genere (MEG).  
Misura il grado di partecipazione attiva delle donne alla vita politica ad 
economica di un paese, in particolare nei processi decisionali. Rivela la percentuale di 
donne al governo e in alti compiti dirigenziali e la disparità di genere nel reddito 
guadagnato, che riflette l’indipendenza economica. In concreto, dunque, studia tre 
dimensioni: la partecipazione politica e il potere decisionale, la partecipazione 
economica e il potere decisionale, e il potere sulle risorse economiche. Esprime la 
disuguaglianza di opportunità in aree selezionate. 
 
Passiamo quindi a presentare l’ISU, consci del fatto che il concetto di sviluppo 
umano è molto più ricco e profondo di quanto possa emergere da qualsiasi indice 
composito o perfino da un insieme dettagliato di indicatori statistici che mirano solo a 
darne una quantificazione parziale necessaria per permettere il confronto fra i diversi 
paesi. Non è possibile trovare una misura perfettamente esauriente di questo concetto, 
perché molte delle variabili e degli aspetti che lo influenzano non sono direttamente 
quantificabili.  
L’ISU, che dal 1990 viene costruito ogni anno, misura i risultati medi conseguiti 
in un paese nell’ambito di tre dimensioni ritenute fondamentali per una analisi dello 
sviluppo umano: 
→ una vita lunga e sana, misurata dalla speranza di vita alla nascita; 
→ l’istruzione, misurata dal tasso di alfabetizzazione adulta (con un peso pari a due 
terzi) e il rapporto lordo di iscrizioni cONGiunte ai livelli di istruzione primario, 
secondario e terziario rispetto alle classi di età (con un peso pari a un terzo); 
 → uno standard di vita dignitoso, misurato dal PIL pro capite in dollari USA con un 
tasso di cambio  a Parità di Potere d’Acquisto (PPA)
1
. Il livello del reddito è 
considerato un mezzo molto importante per ampliare le opportunità di scelta della 
persone e viene utilizzato come una proxy dello standard di vita dignitoso. 
 
Prima di calcolare l’ISU, è necessario ricavare i singoli indici relativi a ciascuna 
dimensione e per fare ciò sono stati scelti per ogni variabile dei valori massimi e minimi 
(limiti). 
Ogni variabile viene quindi normalizzata e il suo valore varia da 0 a 1, 
applicando la formula generale:  
 
 
 
L’ISU corrisponde alla media semplice degli indici delle tre dimensioni 
analizzate. Esso mostra la distanza che un paese dovrà compiere per raggiungere il 
massimo valore possibile 1 e permette di fare confronti fra paesi. Ogni paese deve 
affrontare la sfida di colmare il divario che lo separa dal valore massimo. 
In base a questo indice i paesi sono quindi classificati in tre gruppi: 
1. Paesi a sviluppo umano elevato con un indice da 0.801 a 1; 
2. Paesi a sviluppo umano medio con un indice da 0.501 a 0.800; 
3. Paesi a sviluppo umano basso da 0 a 0.500. 
Il paese a sviluppo umano più basso è la Sierra Leone (0.258) e quello più alto è la 
Norvegia (0.939) (UNDP, 2001). 
I “paesi in via di sviluppo” possono dunque essere definiti differentemente come 
i paesi che hanno un PNL pro capite medio basso, o come quei paesi che hanno un 
Indice di Sviluppo Umano basso. 
Per la nostra analisi si è scelto di considerare “paesi in via di sviluppo” quelli 
classificati a basso indice di sviluppo umano dalle Nazioni Unite. Si  ritiene infatti 
questa classificazione più esauriente e adeguata al tipo di analisi attuato in questo 
                                                 
1
Per confrontare le statistiche economiche fra i paesi, i dati devono essere convertiti in una valuta 
comune. Il  tasso di cambio della  parità di potere d’acquisto, PPA, permette di tenere in considerazione le 
differenze di prezzo fra i paesi, facilita quindi i confronti dei valori reali per quanto riguarda il reddito, la 
povertà, la disuguaglianza e i campioni di spesa. Per i paesi per i quali non è possibile avere dei dati 
diretti, vengono fatte delle stime utilizzando la regressione econometrica. 
                                                Valore attuale – valore 
minimo 
Indice della dimensione =  
 lavoro, perché più coerente con l’idea di sviluppo che ne sta alla base e perché più 
rappresentativa delle reali condizioni socio economiche di questi paesi. 
Ora che abbiamo definito in maniera più precisa il nostro oggetto di analisi 
possiamo finalmente procedere in questo lavoro di ricerca, nella convinzione che «la 
definizione di una strategia dello sviluppo per la periferia “deve essere” considerata 
come un problema che coinvolge tutti i paesi e interessa i destini di tutti gli uomini.» 
(Volpi, 1996). 
 
 
 
 
 
  
 
 
 
 
 
 
Parte prima: Sottosviluppo e debito estero 
 
Capitolo primo: Situazione attuale dei Pvs 
 
CAPITOLO 1: 
SITUAZIONE ATTUALE DEI PVS 
 
 
Introduzione  
 
Si afferma che il momento conoscitivo si sposa con il momento operativo; i 
problemi di sviluppo di una particolare realtà non possono essere studiati in termini 
puramente astratti ed essere risolti mentalmente prima che storicamente. Prima di agire 
o programmare un’azione in qualsiasi direzione è necessario conoscere la realtà su cui si 
opera, nelle sue caratteristiche fondamentali. 
La prima parte di questa tesi è dedicata principalmente al momento conoscitivo 
ed esplorativo dei principali fenomeni che caratterizzano le realtà dei Pvs; 
sottosviluppo, debito estero e le principali modalità di risoluzione applicate. 
Lo sviluppo economico e sociale dei paesi più poveri è considerato una 
condizione non solo favorevole, ma anche necessaria all’espansione dei mercati e alla 
creazione di un ambiente internazionale più stabile e pacifico. La riduzione della 
povertà e il miglioramento delle condizioni di vita sono diventate quindi, anche secondo 
l’ultimo Rapporto sullo Sviluppo redatto dalla Banca Mondiale, obiettivi prioritari e di 
fondamentale importanza sia per i paesi in via di sviluppo che per quelli definiti 
industrializzati. 
Un forte limite a questo processo risulta essere, però, il problema del debito 
estero, che caratterizza in modo pesante numerose economie nel mondo; la necessità di 
fronteggiare questo obbligo verso paesi o istituzioni creditrici vincola la maggior parte 
delle risorse interne, impedendo il loro impiego in programmi mirati di sviluppo. 
Sviluppo, sottosviluppo e debito estero sembrano essere tre fenomeni fra loro 
fortemente interdipendenti, che caratterizzano con modalità diverse tutte le realtà del 
mondo odierno. Vediamo, quindi, di fare un po’ di luce sulla loro correlazione e sui 
principali effetti diretti e indiretti che hanno nei rapporti fra i diversi paesi. 
Iniziamo il nostro percorso analizzando il fenomeno di arretratezza, che 
caratterizza i Pvs e la sua correlazione con l’indebitamento progressivo che li ha colpiti 
Capitolo primo: Situazione attuale dei Pvs 
 
negli ultimi trent’anni, per poi vedere come entrambi influiscono sulla situazione 
socioeconomica dei paesi da noi identificati nell’introduzione. 
 
1. Sviluppo e sottosviluppo 
 
Dal punto di vista storico il concetto di sottosviluppo ha assunto una certa 
rilevanza nel dibattito sulla situazione mondiale dall’inizio degli anni 80.  
Dopo il lungo periodo caratterizzato da fame e povertà delle due guerre 
mondiali, diversi e forti cambiamenti nella struttura e nel modo di vita interessano 
l’umanità. Tutti i paesi cercano lentamente di riaffermarsi sul proprio territorio; quelli 
occidentali cercando di ristabilire il proprio equilibrio interno e quelli delle ex colonie 
cercando di gestire e sfruttare la nuova autonomia appena conquistata. Si comincia a 
registrare il fenomeno dell’industrializzazione in molti paesi, insieme a quello più 
diffuso di un forte aumento demografico. Grazie ad una nuova e necessaria riforma 
sanitaria, una parte sempre maggiore della popolazione può avvantaggiarsi della nuove 
scoperte fatte in campo medico, determinando così una consistente riduzione della 
mortalità, accompagnata dalla sempre presente forte natalità. All’aumento demografico 
non corrisponde però in molti paesi, un contemporaneo miglioramento della produzione 
interna. Questo squilibrio, aggravato dalle crisi petrolifere degli anni ’70 e dalla 
conseguente crisi debitoria (vd. paragrafo seguente), determina un forte divario fra i 
diversi paesi delle diverse aree del mondo. 
Di fronte alla forte disuguaglianza mai fino ad ora registrata, i paesi vengono 
distinti e catalogati in gruppi secondo la loro situazione socioeconomica interna; 
nascono e si sviluppano numerose teorie per comprendere il fenomeno nelle sue 
componenti, per poi diffonderlo ai paesi definiti sottosviluppati. 
Si parla quindi di “sviluppo”, ma più che in senso dinamico si utilizza il termine 
in senso statico:  uno stato di maggior benessere e ricchezza che caratterizza  alcuni 
paesi definiti industrializzati, contrapposto all’antitetico stato di disagio, povertà e 
arretratezza che connota i paesi sottosviluppati. 
La letteratura sul sottosviluppo è vasta ed eterogenea sia nella disciplina 
sociologia che in quella economica; riprendiamo qui alcune teorie economiche che 
hanno caratterizzato e caratterizzano il dibattito mondiale sull’argomento.