2
esplicativa a questo proposito: “A metà del ventesimo secolo, abbiamo visto per la prima
volta il nostro pianeta dallo spazio… Dallo spazio si vede una piccola e fragile palla
dominata non dall’azione e dalle costruzioni umane, ma da un disegno di nuvole, oceani,
verde e suoli. L’incapacità umana di inserire la propria attività in quel disegno sta
cambiando gli equilibri planetari in modo sostanziale, minacciando così ogni forma di vita.
Questa nuova realtà deve essere riconosciuta e gestita”
1
.
Nel corso degli anni sia i governi nazionali sia le istituzioni multilaterali hanno
compreso l’inscindibilità delle questioni ambientali dai problemi dello sviluppo
economico: considerati a lungo distinti (e quindi affidati a diverse agenzie governative), i
problemi ecologici e sociali sono in realtà strettamente interconnessi e si alimentano
reciprocamente. Il peso dell’inquinamento dell’aria e dell’acqua e l’esaurimento delle
risorse naturali si ripercuotono inevitabilmente sulle fasce più deboli dell’umanità. I
poveri, a loro volta, sono spesso costretti ad abbattere l’ultimo albero nei paraggi o ad
inquinare il primo corso d’acqua che trovano per sopravvivere. Risulta quindi necessario
adottare un approccio globale in grado da un lato di alleviare, se non di annullare, lo stato
di povertà del Sud del mondo e dall’altro di evitare un eccessivo impatto sull’ecosistema
(si parla di “win-win policies”).
Il concetto di “sviluppo sostenibile” cerca proprio di conciliare le diverse
dimensioni –ambientale, economica e sociale- proponendo dei modelli alternativi alla
“crescita senza limiti”, un mito dominante nella cultura dei paesi industrializzati.
Parafrasando la definizione del rapporto Brundtland, assicurare la sostenibilità dello
sviluppo significa non compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i
propri bisogni e, contemporaneamente, estendere ad ogni popolazione la possibilità di
realizzare le proprie aspirazioni per una vita migliore: accettare dei limiti alla crescita,
dunque, per salvaguardare la sopravvivenza della specie umana e per assicurare una più
equa ripartizione delle ricchezze.
Il paradigma prevalente nell’attuale sistema economico internazionale è, senza
dubbio, il libero scambio. Secondo le teorie dei classici (Adam Smith e David Ricardo in
primis), ogni paese può trarre beneficio dall’apertura della propria economia al commercio
1
World Commission on Enviroment and Development, Our Common Future, 1987 (pag.1).
3
internazionale, specializzandosi nella produzione ed esportazione del bene per il quale
gode di un vantaggio in termini di efficienza produttiva
2
. Effettivamente l’incremento degli
scambi internazionali ha trainato la crescita economica mondiale, avvantaggiando però
alcuni (pochi) paesi a scapito di (molti) altri. Tuttavia non è venuta meno la convinzione
che proprio attraverso il commercio e la promozione delle esportazioni i paesi in via di
sviluppo possano uscire dal proprio stato di povertà. Ecco quindi che in sede multilaterale,
in particolare nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (conosciuta come
WTO, World Trade Organization), sono proprio questi paesi a chiedere con maggiore
insistenza l’abbattimento delle barriere tariffarie e non tariffarie e l’apertura incondizionata
dei mercati esteri alle loro merci.
Lo scopo della presente tesi è quello di indagare la natura economica, politica e
giuridica del rapporto tra libero scambio e ambiente, evidenziando in particolare il modo in
cui questo rapporto viene gestito (o non gestito) a livello di regimi internazionali. Nella
prima parte si cercherà di presentare un quadro generale dell’attuale “stato del mondo”, dei
fenomeni in atto, delle tendenze prevalenti in ambito commerciale e ambientale. Si
cercherà poi di riassumere le teorie principali in materia di sviluppo sostenibile, così come
elaborate all’interno delle Conferenze delle Nazioni Unite a partire dagli anni Settanta. In
definitiva, l’obiettivo è quello di contestualizzare lo studio nell’ambito del Diritto
Internazionale dell’Economia e del Diritto Internazionale sull’Ambiente, evidenziando le
analogie e le contraddizioni tra i diversi regimi giuridici.
Nella seconda parte verranno forniti gli elementi chiave del dibattito attraverso
l’analisi degli effetti della liberalizzazione sull’ecosistema e, di riflesso, degli standard
ambientali sul commercio internazionale. Sullo sfondo rimane il problema dello sviluppo
dei paesi meno avanzati le cui priorità, attualmente, non sono certo di natura ambientale
nonostante l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali li danneggi fortemente. In
particolare verranno analizzati i regimi internazionali sull’ambiente e il modo in cui i
principali Accordi Multilaterali
3
si servono di misure commerciali per essere efficaci.
Proprio queste restrizioni al commercio di sostanze o merci che possono essere dannose
2
Salvatore D., Economia Internazionale, Carocci, Roma, 1998.
3
Nel lessico giuridico internazionale si parla di Multilateral Environmental Agreements (MEAs).
4
per l’ecosistema rappresentano un motivo di conflitto con gli obiettivi del libero scambio e,
quindi, con gli Accordi Multilaterali elaborati in sede WTO.
Nella terza parte verrà approfondito il ruolo dell’Organizzazione Mondiale del
Commercio nella tutela dell’ambiente. Il WTO si preoccupa essenzialmente di rimuovere
tutte le barriere, tariffarie e non, al libero scambio. Tuttavia aspetti ambientali e
commerciali possono essere difficilmente disgiunti: sia i principi base del WTO sia le
disposizioni contenute nei principali accordi hanno un impatto sull’ecosistema e incidono,
in qualche modo, sulla sostenibilità. Da un lato, la preoccupazione per la “salute” della
Terra ha indotto gli Stati Membri ad affrontare questioni non strettamente legate al libero
scambio. D’altra parte, il timore che gli standard ambientali diventino una forma di
neoprotezionismo ha generato non poche preoccupazioni soprattutto per i paesi in via di
sviluppo. Il dibattito si è fatto molto acceso in occasione della Conferenza Ministeriale di
Doha e si è concretizzato nell’impegno ad affrontare la questione nei prossimi anni.
Nell’ultima parte si cercherà di arrivare, per quanto possibile, ad una sintesi e di
presentare alcune proposte miranti a creare un ponte tra i due regimi internazionali –
ambientale e commerciale. Verranno, infine, evidenziate le prospettive e le sfide future in
vista della prossima Conferenza delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Sostenibile che si
terrà nel 2002 a Johannesburg.
2. LO STATO DEL MONDO AGLI INIZI DEL NUOVO MILLENNIO
Il secolo scorso ha lasciato come retaggio all’umanità una serie di processi e di
dinamiche ancora in atto, riconducibili essenzialmente a due fenomeni:
!" L’interdipendenza economica tra gli stati, collegata all’aumento degli scambi
internazionali e allo sviluppo tecnologico.
!" L’interdipendenza ecologica, cioè la presenza di problemi ambientali comuni che
trascendono i confini nazionali.
Le due tendenze sono tra loro unite da nessi causali, non univoci ma piuttosto complessi.
E’ innegabile che la crescita economica prodotta dalla “globalizzazione” (e i cui benefici
sono estesi a una fetta limitata di persone) sia una delle cause principali di problemi
ambientali universali, quali la deforestazione, la perdita di diversità biologica, il
5
cambiamento climatico e il buco dell’ozono. Si avverte quindi la necessità di prendere
coscienza dei limiti della crescita economica incondizionata e di gestire le questioni
“globali” attraverso un approccio “globale” e omnicomprensivo.
“Curare i mali ecologici della Terra separatamente dai problemi legati a situazioni
debitorie, squilibri commerciali, sperequazioni nel livello di reddito e di consumo è come
cercare di curare una malattia cardiaca senza combattere l’obesità del paziente e la sua
dieta carica di colesterolo: non esiste possibilità di successo finale” (State of the World
1992).
Risulta indispensabile, a tal fine, un cambiamento di mentalità a livello individuale,
un ripensamento delle istituzioni mondiali e una riflessione sul ruolo del diritto
internazionale di fronte ai nuovi fenomeni economici e ambientali che interessano la
comunità degli Stati.
2.1 PROBLEMI ECONOMICI ED ECOLOGICI LEGATI ALLO SVILUPPO E ALLA
GLOBALIZZAZIONE
Negli ultimi cinquant’anni il commercio internazionale ha acquisito una grande
importanza ed ha rappresentato un motore per la crescita di molti paesi. La liberalizzazione
degli scambi, promossa dal GATT prima e dal WTO poi, ha determinato una forte
integrazione delle economie nazionali fino a far parlare di un unico “mercato globale”. Il
progressivo abbattimento delle barriere all’importazione di merci e servizi ha comportato,
infatti, un incremento esponenziale nei volumi scambiati. Qualche dato può aiutare a capire
meglio la portata del fenomeno in atto.
Il prodotto dell’economia globale è salito dai 31.000 miliardi di dollari del 1990 ai
42.000 miliardi nel 2000; al confronto, il prodotto totale dell’economia mondiale nel 1950
era di soli 6.300 miliardi
4
. Il boom economico dell’ultimo decennio non ha interessato solo
i ricchi paesi del Nord. La maggior parte della crescita si è registrata nei paesi in via di
sviluppo dell’ Asia e dell’America, dove le riforme economiche, la riduzione delle barriere
commerciali e l’incremento dei capitali stranieri hanno fomentato gli investimenti e il
4
Fonti: OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) e Banca Mondiale, 2000.
6
consumo. Ad esempio, fra il 1990 e il 1998 l’economia brasiliana è salita del 30%, quella
indiana del 60% e quella cinese di uno straordinario 130%
5
.
Come si può notare dal grafico sottostante, dalla Seconda Guerra Mondiale in
avanti il prodotto globale lordo è cresciuto in modo esponenziale trainato dalla
liberalizzazione e dall’aumento più che proporzionale dei volumi scambiati.
Crescita del commercio e del prodotto globale lordo
Fonte: WTO
Eppure, l’economia globale trainata dal commercio internazionale è offuscata da
enormi disparità. Il 10° rapporto del Programma delle Nazioni Unite sullo Sviluppo
Umano dedicato alla globalizzazione (1999) ci ricorda che il 20% più ricco della
popolazione mondiale possiede l’86% del prodotto globale lordo, mentre il 20% più
povero possiede solo l’1% del prodotto globale lordo. Nonostante la crescita economica
globale, il divario di reddito tra il quinto degli individui che vive nei paesi più ricchi e il
5
Banca Mondiale, World Development Indicators 2000, Washington (DC), 2000.
7
quinto che vive nei paesi più poveri è passato da 30 a 1 del 1960, a 60 a 1 nel 1990, a 74 a
1 nel 1997. La Banca Mondiale (2000) riporta, infine, che 2,8 miliardi di persone
sopravvivono con meno di 2 dollari al giorno, 1,2 miliardi con meno di 1 dollaro al giorno
e 1,1 miliardo di persone sono denutrite. Un numero impressionante di persone è entrato,
quindi nel nuovo secolo senza il reddito necessario per rispondere ai propri bisogni
primari, quali cibo, acqua e assistenza sanitaria.
Un altro effetto negativo della globalizzazione risiede nel degrado ambientale
indotto dall’ intensificazione dei rapporti economici tra gli stati e dai maggiori volumi di
produzione e consumo mondiali. All’integrazione commerciale sembra aver fatto seguito
una crescente “interdipendenza ecologica”
6
, con l’emergere nell’ultimo quarto di secolo di
problemi ambientali globali come la deforestazione, la perdita di biodiversità, il
cambiamento climatico e il buco dell’ozono. Queste questioni coinvolgono tutti i paesi e
dimostrano come i sistemi naturali, garanzia di vita per gli esseri umani e per le altre
specie, non abbiano confini politici.
Molti danni all’ecosistema sembrano già arrivati ad uno stadio potenzialmente
critico. L’assottigliamento dello strato di ozono nell’atmosfera, prodotto dall’utilizzo di
6
Daniel C. Esty, Greening the Gatt:Trade, Environment and the Future, Institute for International
Economics, Washington DC, 1994.
8
sostanze quali i cloro-fluoro-carburi (CFC), sarà causa di migliaia di casi di cancro alla
pelle solo negli Stati Uniti nei prossimi venti anni, se non ci sarà un’inversione di tendenza
attraverso l’applicazione del Protocollo di Montreal. Dal 1981, infatti, lo strato di ozono
che protegge la pelle dalle radiazioni ultraviolette del sole ha subito una riduzione tra il 3 e
il 5%.
Dagli anni Ottanta, inoltre, si è accentuato il processo di deforestazione: in media
15.4 milioni di foreste all’anno sono andate distrutte
7
. La drastica riduzione degli alberi
tropicali, ha alterato la capacità di assorbimento “vegetale” dell’anidride carbonica e ha
contribuito all’aumento dei cosiddetti gas serra.
Un problema strettamente connesso alla distruzione delle foreste e aggravato dalla
crescente attività umana, risiede nell’incremento dei livelli di monossido di carbonio
nell’atmosfera, che è causa diretta del cambiamento climatico. Recenti valutazioni
sembrano aver stabilito che, fra le miriadi di segnalazioni del cambiamento globale indotto
dall’uomo, il fattore più grave è la concentrazione di anidride carbonica derivante dalla
combustione di carburanti fossili.
Alla fine del 2000, il Comitato Intergovernativo sul Cambiamento Climatico
(IPCC sponsorizzato dalle Nazioni Unite) ha prodotto il suo ultimo rapporto, ove si
sostiene senza mezzi termini che il rilascio dell’anidride carbonica e di altri gas serra
nell’atmosfera ha contribuito in modo sostanziale al riscaldamento sperimentato negli
ultimi 50 anni. Per la fine del secolo, concludeva il rapporto IPCC, le temperature
potrebbero essere di 5 gradi Celsius più elevate di quelle del 1990, registrando quindi il
maggiore cambiamento avvenuto tra l’ultima glaciazione e oggi. Questo surriscaldamento,
apparentemente lieve, potrebbe risultare in un aumento del livello dei mari, in una perdita
di terre coltivabili (desertificazione), in una alterazione delle correnti marine, prima fra
tutte la Corrente del Golfo, che determina il clima relativamente temperato e stabile che ha
permesso lo sviluppo delle società dell’Europa settentrionale.
Il grafico sottostante mostra che la crescente concentrazione di anidride carbonica
nell’atmosfera negli ultimi cinquant’anni è legata soprattutto all’attività produttiva dei
paesi sviluppati.
7
Dati FAO.
9
Fonte: World Resources Institute (1998)
L’attività umana è anche causa dell’estinzione di molte specie animali e vegetali e
minaccia la ricchezza e la diversità biologica del pianeta. La perdita di biodiversità
potrebbe avere serie conseguenze: da un lato potrebbe comportare uno squilibrio
fondamentale nell’ecosistema, dall’altro ridurrebbe le possibilità di ricavare nuovi
medicamenti dalle piante tropicali (riducendo contemporaneamente le opportunità di
utilizzo e di commercio di questi prodotti da parte dei paesi in via di sviluppo).
Questo scenario poco incoraggiante di povertà e iniquità crescente da una parte e di
inquinamento terrestre dall’altra, è alimentato da una serie di forze varie, complesse e
spesso sinergiche. La crescita demografica e lo spostamento della popolazione dalle
campagne alle città sono alcuni di questi fattori.
2.2 BOOM DEMOGRAFICO E INURBAMENTO
Nel XVII secolo la popolazione umana mondiale era di 500 milioni di individui e
cresceva a un tasso dello 0,3% all’anno, corrispondente a un tempo di raddoppio di 250
10
anni; nel 1900 la popolazione era già salita a 1.600 milioni e il ritmo di crescita allo 0,5%
annuo. Nel 1970 eravamo 3.600 milioni che crescevano del 2,1% all’anno. Nel 1999 è
stato superato il sesto miliardo di individui. Per il 2050 si stima che la popolazione
mondiale raggiungerà quota 7,9 o 10,9 miliardi, a seconda del tasso di fertilità
8
(vedi
grafico).
Da sottolineare che il boom demografico in atto si concentra soprattutto nei paesi in
via di sviluppo: India, Cina, Pakistan, Nigeria, Bangladesh e Indonesia sono i sei paesi che
contribuiscono maggiormente alla crescita della popolazione, mentre gli abitanti dei paesi
sviluppati sono destinati a diminuire nei prossimi cinquant’anni.
L’incremento esponenziale della popolazione mondiale ha fatto aumentare
drasticamente la domanda di risorse naturali: in altre parole, la richiesta di acqua, energia,
cibo e materie prime cresce, sostenuta dall’espansione senza precedenti della popolazione.
Il risultato è che proprio nei paesi in via di sviluppo i sistemi naturali stanno
declinando più rapidamente e le persone soffrono delle più gravi conseguenze ambientali.
Inoltre le pratiche a più alto consumo di risorse che caratterizzano lo stile di vita di miliardi
di persone nei paesi ricchi (l’alimentazione basata sulla carne, i sistemi di trasporto
incentrati sull’automobile) si stanno rapidamente diffondendo in molte aree del mondo in
via di sviluppo. Non bisogna dimenticare che, in questi paesi, le norme e le tecnologie per
il controllo delle emissioni e dei livelli di inquinamento sono ben più arretrate di quelle
adottate nei paesi ricchi.
8
Dati United Nations Conference on Human Settlement. Sito web: www.unchs.org
11
E’ evidente che alla popolazione attuale di oltre 6 miliardi di esseri umani, ai 7
previsti già per la fine di questo primo decennio del nuovo secolo e agli 8 previsti per la
fine del secondo decennio sarà impossibile garantire un livello di consumo e uno stile di
12
vita simili a quelli di un nordamericano o di un europeo occidentale medio
9
. Per questo
motivo, ogni discorso sullo sviluppo sostenibile non può prescindere dalla questione
demografica: si tratta di un numero sempre crescente di persone che consumano, che
inquinano, che producono rifiuti, che contribuiscono ad alterare i ritmi della natura.
Parallelamente al boom demografico, si è verificato un fenomeno di vaste
proporzioni che trova le sue origini nella Rivoluzione Industriale: lo spostamento
massiccio delle persone dalle campagne alle città. L’inurbamento ha portato, in questi due
secoli, ma soprattutto negli ultimi anni, 3 miliardi di persone a vivere in città: entro il 2030
si ipotizza che i centri urbani accoglieranno il 60% degli esseri umani. Il fenomeno è molto
accentuato soprattutto nei paesi meno avanzati dove si concentrano numerose megalopoli
(Città del Messico, Bombay, Sao Paulo, Lagos, Calcutta…) con più di 12 milioni di
abitanti. Come nel XIX secolo la città era il centro dell’attività industriale e commerciale,
anche oggi la metropoli è il fulcro della globalizzazione, degli affari, degli investimenti…
in una parola della ricchezza. Ma non per tutti.
Le grandi città sono impegnate ad attirare capitali stranieri e le istituzioni politiche
non si preoccupano, spesso, di risolvere i problemi di miseria assoluta, di insalubrità, di
sporcizia che attanagliano le bidonville cittadine: le immagini e le situazioni descritte da
Dickens e Zola tornano alla memoria e risultano di grande attualità. La globalizzazione
sembra, infatti, aver accentuato la polarizzazione tra ricchi e poveri anche in città come
New York e Londra
10
.
Il collegamento tra urbanizzazione e degrado ambientale è molto stretto. La
concentrazione di persone, di traffico automobilistico, di attività produttive, di polveri
inquinanti, di gas di scarico di ogni genere, ha reso molte città (anche di medie dimensioni)
invivibili.
Il rapporto “State of the World’s Cities 2001” sottolinea il ruolo che può e deve
essere svolto dalle istituzioni politiche per attutire i problemi sociali ed ambientali
dell’inurbamento, attraverso maggiori investimenti nel campo dell’istruzione, dei trasporti,
9
L.R. Brown, C.Flavin, H.French, State of the World 2001, Stato del pianeta e sostenibilità:Rapporto
annuale,Worldwatch Institute, Edizioni ambiente, 2001.
10
Cfr. Rapporti preparati in occasione della Sessione straordinaria dell’ Assemblea delle Nazioni Unite
(Istanbul +5) , tenuta nel giugno 2001 e dedicata a diffondere una maggiore consapevolezza sui problemi
dell’inurbamento. Sito web: www.habitat.org
13
delle infrastrutture. In altre parole, attraverso una migliore governance che garantisca un
habitat sostenibile per l’homo urbanus.
Come si è cercato di dimostrare, l’alchimia di degrado ambientale e povertà, unita
all’incremento demografico, genera una situazione esplosiva per cui l’una alimenta l’altro
e viceversa. Se è vero che la crescita economica può essere causa di alterazione dei sistemi
naturali, è vero anche che lasciare larga parte del pianeta in uno stato di indigenza non è
una risposta né morale né logica. Risulta quindi indispensabile sia prendere coscienza del
carattere universale di questi problemi che travalicano in modo evidente i confini nazionali
sia affrontarli congiuntamente.
E’ necessario, in altre parole, risolvere con urgenza la questione della povertà senza
riproporre il modello economico fin qui utilizzato, foriero di un eccessivo spreco di risorse
e di ineguaglianze sociali inaccettabili. Occorre, da un lato, definire nuovi paradigmi che
tengano conto dei limiti “fisici” e “naturali” della crescita economica: quest’ultima
dovrebbe cessare di essere un obiettivo in sé per diventare strumento di una migliore
qualità della vita. D’altro lato, la cooperazione internazionale deve orientare i propri sforzi
alla ricerca di una risposta comune a questi problemi e al sostegno dei paesi meno avanzati.
Il trasferimento di tecnologie socialmente ed ecologicamente compatibili, la creazione di
capacità produttive in loco, la maggiore formazione e informazione facilitate dalla
diffusione di Internet: questi potrebbero essere alcuni dei mezzi utilizzabili all’interno di
una struttura istituzionale internazionale rinnovata, attualizzata e riequilibrata.
2.3 I LIMITI DELLA CRESCITA
“Lo sviluppo umano è il fine, la crescita economica è il mezzo. Lo scopo della
crescita economica dovrebbe essere, quindi, quello di arricchire l’esistenza delle persone.
Troppo spesso questo non accade”.
11
Così cominciava il Rapporto sullo Sviluppo Umano
del 1996, con l’obiettivo di criticare non la crescita in sé, quanto la sua struttura e la sua
qualità, e di riaffermare la centralità dell’essere umano e dell’ habitat che lo circonda
contro la pura legge del massimo profitto. Questo implica una presa di coscienza dei limiti
11
United Nations Development Programme, Human Development Report 1996, 1996.
14
che la crescita incontra nell’esauribilità delle risorse naturali e un ripensamento del
modello economico classico.
La teoria economica classica si è sviluppata nel periodo illuminista e può essere
considerata a pieno titolo figlia del suo tempo.Le principali idee dell’Illuminismo sono
state, infatti, implicitamente o esplicitamente incorporate nei fondamenti filosofici
dell’economia classica. Tra queste: a) la fede in un progresso illimitato; b) un
antropocentrismo molto forte per cui l’uomo occupa un posto al di sopra della natura, che
viene considerata come un semplice beneficio strumentale; c) l’uomo ha il potere di
dominare la natura grazie al metodo scientifico che gli consente di scoprire e di sfruttare le
leggi naturali
12
. Se la teoria classica (basti pensare ai contributi di Ricardo e soprattutto di
Malthus) considerava ancora la terra come una fattore della produzione, già nel corso del
XIX secolo il ruolo economico della terra viene sempre più trascurato e infine incluso nel
capitale. La funzione produttiva neoclassica prevede, infatti, solo due fattori –il lavoro e il
capitale- e solo più tardi ad essi si aggiunge un terzo fattore: il progresso tecnico.
Come è evidente, il modello economico prevalente non prende in alcuna
considerazione le interazioni tra il sistema economico e il sistema ecologico; le
precondizioni naturali delle azioni economiche sono considerate come “variabili esogene”.
Il valore di scambio di risorse naturali come l’acqua e l’aria è nullo e non ha prezzo,
nonostante il loro valore d’uso sia molto elevato.
Inoltre prevale una visione dell’economia come un sistema isolato dall’ambiente
circostante. L’immagine fondamentale del processo di produzione e consumo è quella di
un flusso circolare dalle fabbriche ai magazzini e viceversa, senza né vie d’entrata né vie
d’uscita. La teoria economica non riflette quindi l’immagine molto più realistica
dell’attività produttiva come processo unidirezionale e irreversibile nel quale si ha la
trasformazione dell’energia e della materia non solo in merci e servizi, ma anche in energia
e materie degradate, in sostanze inquinanti, liquami, rifiuti e calore. In altri termini, non si
tiene conto del fatto che il nostro sistema economico e produttivo è un sottosistema del più
ampio sistema naturale, grazie al quale vive, e non viceversa. Soprattutto non si considera
che il sistema naturale non offre risorse all’infinito; la natura è reputata indistruttibile, a
12
Tizzi, Marchettini, Che cos’è lo sviluppo sostenibile, Donzelli ed. Roma, 1999.
15
differenza del capitale, di cui si sottintende invece il naturale deterioramento attraverso
sistemi di contabilità che ne misurano il deprezzamento.
Alla luce dei disastri ambientali prodotti da una crescita incondizionata, la scienza
economica dovrebbe prendere in considerazione i limiti del sistema terrestre che è
materialmente e fisicamente chiuso. Alcuni studiosi
13
ripongono fiducia in un nuovo filone
di teorie legate all’ economia ecologica, che sta emergendo e che si occuperebbe di
analizzare i problemi ecologici globali emersi in tempi recenti, la dinamica dei sistemi
ecologici ed economici e delle loro interazioni, i problemi di degrado e di distruzione delle
basi ecologiche di intere regioni.
Più concretamente, sarebbe necessario includere i costi del degrado ambientale nel
prezzo finale delle merci, in modo da valorizzare le risorse utilizzate e da ridurre gli
sprechi. L’internalizzazione delle diseconomie e la contabilizzazione nei bilanci aziendali
dell’inquinamento prodotto ridurrebbe l’impatto dell’attività produttiva sull’ecosistema e
sulla salute della collettività. Il principio del “chi inquina paga” (polluter pays principle per
l’OCSE) sta prendendo piede anche nell’ambito dei regimi multilaterali sull’ambiente che
saranno analizzati nella seconda parte di questa tesi.
Il dibattito sui limiti della crescita fu lanciato all’inizio degli anni Settanta, in
seguito alla pubblicazione del rapporto Limits to Growth (Meadows, 1972)
14
, elaborato da
un gruppo di ricerca del Massachussets Institute of Technology di Boston su incarico del
Club di Roma. Lo studio proponeva, sulla base dei dati disponibili, la proiezione di crescita
di alcuni fenomeni ad elevato impatto ambientale (aumento della popolazione mondiale,
dei consumi di energia e dei materiali…) dimostrando come, se non si fosse provveduto a
una rapida inversione di tendenza, il sistema sarebbe stato destinato al collasso. In sintesi,
Meadows sosteneva che il “limite della crescita” risiedeva essenzialmente nell’esauribilità
delle risorse naturali non rinnovabili.
Molte delle previsioni del rapporto si rivelarono poi sbagliate, nel senso che i
fenomeni studiati ebbero un’evoluzione diversa da quella ipotizzata.
13
Ibidem.
14
Meadows D.L. et al., Limits to Growth, Earth Island Limited, London, 1972.