iv
Le fonti di cui disponiamo sono letterarie, archeologiche ed
epigrafiche, risalenti ad epoche ed a contesti molto diversi tra
loro.
Cominciando dalle fonti letterarie, esse provengono
esclusivamente dal mondo greco-romano: risalgono quindi a
periodi spesso posteriori di secoli all’argomento trattato, e da un
ambiente culturale fortemente ellenizzato.
Oltre all’influenza ellenistica, all’interno dello stesso orizzonte
culturale latino, il passaggio da una forma politica “tribale” ad
una “statale” ha prodotto una lenta ma sicura rivoluzione, in
primis tra le élites detentrici del potere politico, le uniche forze
sociali ad averci tramandato documenti scritti; dobbiamo tenere
conto di tutti questi fattori per utilizzare correttamente le fonti.
La religione pubblica romana escluse ogni forma di divinazione
in senso proprio; le notizie che abbiamo, attraverso il filtro
romano, finiscono per essere “normalizzate” o “razionalizzate”.
Così ad esempio il picchio, originariamente oracolare, si riduce
ad uccello augurale, mentre l’indovino Picus deve adattarsi alle
funzioni di augur.
Motivi politico-propagandistici portavano inoltre
all’accentuazione di un aspetto di una religione o di un’etnia per
screditarla o, al contrario, nobilitarla; un caso classico è
l’attribuzione di un’origine greca o una grecizzazione dei
costumi delle città alleate, o la barbarizzazione dei nemici.
Ad esempio riguardo gli oracoli di Praeneste e Veio, abbiamo
fonti romane che sembrano tendere alla contrapposizione delle
tradizioni religiose delle altre città rispetto a Roma, tradizioni che
v
sappiamo nate invece nel medesimo ambiente culturale, proprie
di città vicine e popolazioni affini
1
.
Di contro queste città, di fronte alla prepotenza romana,
reagirono accentuando quelle che erano le differenze rispetto alla
città egemone.
Abbiamo detto che non possediamo fonti letterarie indigene:
sappiamo però che dovevano esistere per i popoli e le città
dell’Italia preromana una serie di compilazioni scritte degli
avvenimenti più importanti, sul tipo degli annales romani:
Solino
2
parla infatti di Libri Praenestini, mentre Varrone
3
menziona l’esistenza di Tuscae Historiae. Casuali accenni ci
permettono di capire che esistevano un tempo storie campane,
mamertine, e tradizioni locali cui Catone poté ancora attingere
nel II sec. a.C.
Le storie locali dovettero sorgere contemporaneamente alla
prima storiografia romana, verso la fine del III secolo a.C., nel
quadro e secondo i principi della storiografia “locale” greca. A
Roma inizialmente si impiegava proprio la lingua greca, e greco
era evidentemente il mondo a cui queste storie si rivolgevano.
Le storie locali dei popoli italici furono quindi utilizzate da
antiquari e storici romani: Varrone, sabino di Reate e vissuto tra
la fine del II ed il I secolo a.C., nelle stesura delle “Antiquitates
rerum humanarum et divinarum” aveva raccolto e sistemato le
varie tradizioni sui Sabini; si avvalse probabilmente anche delle
ricerche antiquarie di Dicearco da Messina e Catone oltre che
1
Cfr.: Brelich 1955; Champeaux 1986; Pairault Massa 1986.
2
Solin, II, 9.
3
Varro apud Censor. De die nat. XVII, 6.
vi
delle leggende locali, saghe poi contaminate da racconti di
origine greca.
Il mondo greco, e soprattutto magnogreco, presto si interessò alla
crescente potenza di Roma, interrogandosi sulle sue origini:
Timeo di Tauromenio, Dicearco da Messina, più tardi Diodoro
Siculo si occuparono anche di storia romana. Dionigi di
Alicarnasso, contemporaneo di Livio, affrontò il problema delle
origini di Roma nelle sue “antichità romane”, rielaborando
materiale dell’annalistica romana.
Le popolazioni italiche in queste fonti appaiono man mano che
vengono in contatto con Roma, e vengono descritte in funzione
dei loro rapporti con la città.
Non è solo la storiografia a fornirci importanti notizie: un’opera
come la Geografia di Strabone, o la parte sull’Italia della
Naturalis Historia di Plinio costituiscono fonti di primaria
importanza per la descrizione del territorio, dell’economia e della
stessa distribuzione territoriale delle diverse etnie. Basta
naturalmente ricordare che furono scritte fra l’età augustea e
quella flavia, e non possono attestare la situazione delle origini.
Singole notizie, brevi menzioni, paragoni o esempi che
riguardino gli italici li troviamo in molti altri generi letterari,
dall’epica alle Notti Attiche di Gellio, da Plauto a Lattanzio, in
un puzzle che presenta una realtà sempre più sfaccettata e
complessa.
Per quanto concerne invece la divinazione vera e propria, le fonti
si riferiscono al mondo romano ed etrusco, con vaghe e
sporadiche menzioni delle pratiche di altre popolazioni.
Opera chiave rimane il De Divinatione di Cicerone, che sotto la
forma del dialogo filosofico mette in discussione la divinazione
vii
come idea e come prassi; nei due libri da cui l’opera è composta
fornisce importanti notizie sulle pratiche divinatorie a lui
contemporanee, con riferimenti anche ad etruschi ed italici. Del
resto è provato che Italici, Etruschi e Romani, pur nelle loro
differenze anche grandi, utilizzavano metodi divinatori molto
affini, tanto che è stata formulata l’ipotesi di un’influenza etrusca
sugli altri popoli. Personalmente trovo più convincente l’ipotesi
della formazione nel tempo, dei reciproci scambi e contatti durati
secoli, della sovrapposizione di credenze e pratiche diverse,
anche provenienti dal mondo extratalico; analizzando e
mettendo a confronto le diverse fonti, quello che cercherò di
dimostrare è proprio la complessità e la dinamicità di questa
problematica.
Gran parte delle fonti risalgono all’età augustea o a periodi
seriori: sotto Augusto in particolare si sviluppò un grande
interesse antiquario, volto alla conoscenza ed al ripristino dei
mores degli antichi patres, all’interno di un programma politico
che andava reintroducendo a Roma antichi culti e sacerdozi
oramai caduti nell’oblio.
La direttiva dominante della propaganda augustea era l’idea di
Roma come città fondata dagli dei e guidata da un fato quasi
“provvidenziale”, l’ineluttabile destino di dominare l’orbis
terrarum; Livio ne fu lo storico, Virgilio il vate.
In ogni caso rappresentano fonti di primaria importanza, per le
diverse tradizioni che raccolgono e la quantità di notizie che ci
tramandano.
Tito Livio raccolse le tradizioni annalistiche dalla mitica
fondazione di Roma all’ascesa di Augusto, anche se è provato
che attinse il materiale dai libri degli storici precedenti, senza fare
viii
ricerche di archivio né prendere visione diretta di iscrizioni o
testi di trattati ubicati nella capitale. Del resto il rigore storico non
era un requisito richiesto all’opus oratorium maximum, la
storiografia. Tenendo conto di questi limiti, il racconto di Livio ci
interessa per le guerre ed i contatti con gli italici e per la
frequentissima menzione di prodigi. A questo proposito egli
stesso dice che “..un certo scrupolo religioso mi impedisce di
ritenere indegni di essere riportati nei miei annali i prodigi
che quegli uomini molto saggi ritennero di dover raccogliere
come riguardanti l’interesse dello stato
4
”.
Livio dubitava dunque dell’autenticità dei singoli prodigi,
ritenendo che qualcuno fosse stato inventato da uomini creduli e
superstiziosi
5
, ma non escludeva che gli dei dessero segni della
loro volontà.
In realtà il problema religioso non rientra negli interessi della sua
opera, ed egli si limitò a mostrare rispetto per la religione
tradizionale, anche nei suoi aspetti più formalistici.
Dal canto suo, Virgilio, pur richiamandosi continuamente ad
episodi, divinità, similitudini omeriche, raccoglie e rielabora in
chiave mitica tradizioni e leggende riguardanti l’Italia antica.
Nomi divini e geografici, richiami ad un patrimonio di
conoscenze che doveva essere ancora vivo al suo tempo, e che i
suoi commentatori tre secoli dopo cercheranno ricostruire.
Fonti archeologiche, numismatiche e soprattutto epigrafiche
vanno ad arricchire, integrare o a volte smentire quelle letterarie.
Si tratta di un patrimonio che è oggetto di studi sistematici da
non moltissimo tempo, e che continua a fornire risultati nuovi e
4
Liv. XLIII, 13.
5
Liv. XXI, 62,1; XXIV, 10,6 ; V, 21.
ix
sorprendenti. Per alcune parti d’Italia c’è stato un lavoro
sistematico di ricerche e scavi, mentre per altre zone questo
lavoro è tuttora in fieri: in un lavoro del 1990 La Regina scriveva
che “siamo ad un livello di conoscenze ancora
relativamente elementare, nel senso che gli scavi non
hanno proceduto con la stessa velocità…con cui sono
incrementate le notizie ed i rilievi topografici”.
Le fonti archeologiche sono inoltre di per sé fonti mute, anche se
l’iconografia o, ad esempio, il contenuto di una stipe votiva
possono essere interpretati, spesso con successo.
Il patrimonio di epigrafi italiche, già raccolte dal Vetter nel 1953
ed in seguito da Poccetti (1979) e dal Rix (2002), si sta arricchendo
sempre di più negli anni, dando anche ai linguisti la possibilità di
lavorare su dati nuovi. Malgrado le difficoltà interpretative, sono
gli unici documenti scritti che quelle popolazioni ci abbiano
lasciato. Fra i documenti di primaria importanza, come la tavola
di Agnone ed il cippo Abellano, spiccano per l’argomento
trattato le tavole di Gubbio, che descrivono, all’interno del culto,
una forma divinatoria: l’auspicio.
Oltre ai documenti più consistenti, anche brevi menzioni o
brandelli di frasi semicancellate possono fornire importanti
indizi per gli studi. Così, ad esempio, nel capitolo III prenderemo
in considerazione due epigrafi brevissime e di difficile
interpretazione, che saranno importanti indizi per questo lavoro.
x
2. Storia della ricerca: le grandi linee
Una delle maggiori difficoltà nell’affrontare l’argomento che
stiamo trattando, oltre alla penuria di fonti letterarie, è
sicuramente lo stato degli studi: linguisti, archeologi, storici delle
religioni, storici romani affrontano l’argomento degli italici da
angolazioni diverse e con metodologie diverse, offrendo studi
molto specialistici e validi, ma anche un quadro generale
incompleto e zoppicante.
Mi pare quindi necessario andare un po’ a ritroso, ed analizzare
la storia degli studi per capire il perché di questo stato di cose.
Una prima, lampante considerazione, soprattutto rispetto alle
storie romana e greca, è la “giovinezza” degli studi: è soltanto
dal secolo XIX, infatti, che il problema di una storia degli Italici è
stato affrontato. Il motivo è molto semplice, ed è stato già
introdotto: la mancanza di fonti letterarie dirette, quando gli
studi storici si basavano essenzialmente su quelle.
Inoltre la storiografia riflette sempre le problematiche ad essa
contemporanee, anzi: la storia è attualità, nel momento in cui si
guarda al passato per comprendere il presente, e si prendono in
considerazione temi cari alla propria cultura.
Come le scoperte geografiche diedero un tempo il via a studi
etnografici che poco a poco sono sfociati nell’etnologia e
nell’antropologia culturale, così il divario sempre più grande tra
pubblico e privato, tra stato e singolo individuo, tra polites ed
idiotes che caratterizza la nostra epoca, ha spostato l’attenzione
dalle grandi vicende politiche, dall’histoire évenementielle al
mondo quotidiano, la vita contadina, la condizione della donna,
la religiosità: in altre parole, un’antropologia del mondo antico.
xi
Non è a caso quindi che per tutto il secolo diciannovesimo,
mentre gli studi di storia greca e romana continuavano a
progredire, il filone della storia italica avviato dal Micali all’inizio
del secolo non abbia avuto seguito. Il passaggio da una
concezione della storia “per popoli, per etnie” ad una storia
universale risvegliò l’interesse dei romanisti all’inizio del
ventesimo secolo, in un’ottica di dialettica tra Roma e l’Italia. Il
progredire degli studi linguistici, epigrafici e soprattutto
etruscologici aprì la strada a nuove ricerche e prospettive, che
confluirono in tre opere dello stesso anno, il 1925: la “Storia
dell’Italia antica” di E. Pais, l’”Italie primitive et les débuts de
l’impérialisme romain” di L. Homo, e “Storia italica”, la conferenza
tenuta a Firenze da U. von Wilamowitz-Moellendorf.
Fu l’ultimo intervento a cambiare la prospettiva degli studi: da
uno studio in funzione romana ad un’autonomia delle civiltà
italiche. Raccogliendo questo invito, il linguista G. Devoto
nell’opera “Gli antichi italici” (1951) si proponeva di affrontare il
problema di una “storia italica” vista con occhi non romani.
Frattanto i sempre più numerosi rinvenimenti dell’avanzata età
del bronzo, delle culture dette protovillanoviane, e dell’età del
ferro permisero di identificare le strettissime interdipendenze tra
i fenomeni delle fasi delle origini nei diversi ambiti culturali e
territoriali dell’Italia protostorica. La mole dei dati raccolti a un
certo punto sembrò richiedere una trattazione sistematica e di
sintesi, affrontata nella monumentale opera “Popoli e civiltà
dell’Italia antica” pubblicata nel 1978 a cura di M. Pallottino; si
sviluppa in diversi volumi, trattando sia ogni zona
separatamente, sia affrontando trasversalmente temi chiave quali
la religione, la lingua o l’economia, ognuno dei quali viene
xii
trattato da un esperto diverso. Lo stesso Pallottino nel 1984
pubblicò una “storia della prima Italia” con il dichiarato obiettivo
di “considerare la progressione degli eventi dell’Italia
preromana in una loro propria prospettiva, fondata sulla
logica dei loro nessi spazio-temporali e sul loro significato
nel quadro del divenire del mondo antico
6
”.
A pochi anni di distanza, nel 1989, G. Pugliese Caratelli curò
l’edizione di due volumi, “Italia omnium terrarum parens” ed
“Italia omnium terrarum alumna”, in una nuova e più moderna
trattazione, con l’aggiunta di nuovi dati archeologici ed epigrafici
rispetto all’opera di appena un decennio prima.
Il lavoro sistematico in alcune zone d’Italia rende sempre più
chiaro e complesso il quadro dell’Italia protostorica
7
: di fronte
all’ottica romanocentrica delle fonti e degli studi ottocenteschi,
oggi si tende ad inquadrare gli avvenimenti in un’ottica europea,
ma soprattutto mediterranea. Negli ultimi anni sono state
pubblicate, accanto ad articoli scientifici su siti o rinvenimenti
specifici, diverse monografie riguardanti singole popolazioni:
Sanniti
8
, Piceni
9
, Marsi
10
, Sabini
11
, Umbri.
Da una parte, quindi, c’è la consapevolezza della dimensione
mediterranea della storia antica, che ha portato alcune università
a istituire cattedre di “storia del Mediterraneo arcaico
12
” invece
che greca e romana, dall’altra l’individuazione delle
6
Pallottino 1984, p. 33
7
Van Wonterghem nella zona dei Peligni, Letta in quella dei Marsi, Mattiocco
in quella di Vestini e Peligni, De Benedictis nel Sannio Pentro etc.
8
Sanniti 2000.
9
Piceni 1999.
10
Letta 1972.
11
Spadoni 2000.
12
Come l’ Universidad de Sevilla, dove ho avuto modo di passare un periodo
di studi.
xiii
caratteristiche peculiari delle diverse etnie, individuabili di pari
passo con l’andamento degli studi.
Un altro filone di studi molto importante è quello storico-
religioso, che per l’ambito che ci interessa comincia con la
monumentale opera di A. Bouché-Leclerq, “Histoire de la
divination dans l’antiquité” (1879-1882), che dedica l’ultimo dei
quattro volumi alla divinazione italica, etrusca e romana.
L’opera, oramai datata per i contenuti, è chiara e completa nella
menzione delle fonti, continuando a costituire una buona base di
partenza per l’argomento. Quasi un secolo dopo, nel 1968, fu
pubblicata un’altra opera sulla divinazione, a cura di A. Caquet e
M. Leibovici ( “La divination”), che raccoglieva articoli sui metodi
divinatori non solo greci, romani ed italici, ma anche dei Celti,
dei Germani, delle popolazioni slave.
Pochi anni dopo “Divination et rationalité” (1974), a cura di J.P.
Vernant, non avanzava pretese di completezza ma sceglieva di
affrontare dal punto di vista antropologico alcuni punti focali del
problema della divinazione; questo avveniva attraverso il
confronto con i metodi divinatori propri del mondo
mesopotamico e cinese, che avevano sviluppato sistemi molto
complessi. Pur non riguardando direttamente il mondo italico, il
libro pone delle questioni fondamentali come il rapporto tra
divinazione e potere, o quello tra segno e significato.
Tutti questi studi, non a caso francesi visto l’interesse da sempre
dimostrato verso le tematiche sociologiche ed antropologiche, si
sono però incentrati soprattutto sul mondo greco.
Anche questo non è un caso: a fronte della grande tradizione di
studi prima mitologici poi antropologici riguardanti la Grecia
xiv
arcaica, le religioni latina ed italica hanno suscitato meno
entusiasmo.
L’approccio scientifico alla religione romana iniziò con gli studi
del Wissowa
13
, passando per le teorie indoeuropeiste del
Dumézil e continuato dalla scuola francese
14
.
Tra il 1985 ed il 1986 proprio in Francia furono editi tre volumi
sul tema de “La divination dans le monde etrusco-italique”, che
vanno proprio ad affrontare le tematiche che in questo momento
ci interessano. Contengono articoli di diversi studiosi,
soprattutto italiani e francesi, che si occupano dal punto di vista
storico di varie questioni particolari. Un quadro globale, anche se
non sono sfociati nella redazione di un saggio vero e proprio,
tentano di darlo gli studi della Champeaux che, tra il 1986 ed il
1990 ha scritto vari articoli sulla divinazione nell’Italia antica,
indagando anche le tracce di divinazione non cleromantica. Nel
1991, sempre in Francia, R. Bloch pubblica La divination: essai sur
l’avenir et son imaginaire, che segue il precedente saggio sui
prodigi.
In Italia la cosiddetta scuola storico-religiosa di Roma, fondata
dal Pettazzoni e portata avanti prima dal Brelich, poi dalla
Piccaluga, più recentemente dal Sabbatucci e dal Montanari,
prese le mosse dallo studio della religione romana arcaica per poi
estendere i suoi interessi, ad esempio con i recenti studi di
Claudia Santi, all’ambito italico.
A Sabbatucci si deve il saggio “Divinazione e cosmogonia” (1989)
che si basa su una dialettica tra mondo romano e cinese,
andando ad indagare le relazioni tra un mondo “fondato”, cioè
13
Wissowa 1912.
14
Ad esempio gli studi di R. Bloch
xv
“cosmicizzato”, ed un mondo perennemente in fieri ed il
rapporto tra sistema politico e visione del mondo, che si riflette
anche sul metodo divinatorio.
E’ C. Grottanelli, infine, a curare l’edizione del più recente studio
sulla divinazione: “Sorteggio e cleromanzia” (2000) è una raccolta
di studi che si incentra sul metodo cleromantico, indagandone le
più profonde motivazioni ed allargando il campo d’indagine
anche all’età moderna.
Anche in questo campo, gli studi più recenti tendono da una
parte alla globalità, riconoscendo ad esempio una comunità
culturale mediterranea, dall’altra al particolarismo, cioè allo
studio approfondito di singole tematiche in aree ben precise.
Il presente lavoro si può annoverare nel secondo filone, poiché
affronta un tema ben preciso (la divinazione) in un contesto
geografico-culturale (il mondo italico); cercherà però di
affrontarlo tenendo presente la base teorica, che è data dalla
visione globale del problema.
La tesi si divide in due parti:
1. I capitoli I e II, in cui si cerca rispettivamente di offrire un
quadro della società italica, inserito nel contesto
mediterraneo arcaico, e di trattare la divinazione da un
punto di vista teorico evidenziandone, almeno riguardo il
mondo antico, le tematiche fondamentali.
2. I capitoli III, IV, V in cui invece si analizzano i tre
momenti principali della divinazione italica, cercando di
ricostruirne le dinamiche attraverso l’analisi delle fonti;
essi sono: l’ascolto della parola (pronunciata), il sorteggio
e l’osservazione dei segni divini.