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Introduzione
Da molti anni lavoro con i bambini sordi e ogni volta mi ritrovo a sorprendermi di
qualcosa: di un nuovo segno, di una buffa espressione facciale, di una parola
pronunciata e del loro strano “humor da sordi.” Il loro mondo mi piace, mi stimola e mi
incuriosisce, amo lavorare con loro anche se alle volte è molto stancante. Ogni giorno
c’è una nuova sfida, una nuova difficoltà e non sempre la soluzione è così immediata e
vicina. Proprio grazie alla ricerca di una soluzione per le difficoltà presenti nei miei
alunni sordi rispetto alla lingua italiana, mi sono imbattuta nel libro “Nicola vuole le
virgole”, di Bruna Radelli. In questo libro è presentato un metodo di acquisizione del
linguaggio da parte dei sordi mediante la scrittura, questo metodo si chiama Logogenia.
Ho iniziato la lettura, sicuramente per me non facile, e ho capito che la Logogenia è
qualcosa di interessante, di utile o comunque un qualcosa da conoscere.
Ho frequentato un piccolo corso di 20 ore di approccio alla Logogenia, organizzato
dall’ENS di Firenze e diretto dalle dottoresse Franchi Elisa e Musola Debora, di
Cooperativa Logogenia, l’ente che in Italia si occupa di tutte le attività di Logogenia,
che affrontava i temi dell’arricchimento lessicale e della comprensione del testo nel
bambino sordo.
I sentimenti scaturiti dentro di me sono stati molteplici; la sensazione di aver trovato un
metodo che rispondesse precisamente ai miei dubbi, alle mie difficoltà e alle mie
esigenze è stata forte. Le dottoresse Franchi e Musola ci hanno dato la possibilità di fare
delle esercitazioni per mettere in pratica ciò che avevamo imparato al corso,
successivamente corrette dalle dottoresse e discusse all’interno del gruppo classe. Da
subito ho notato dei cambiamenti positivi nei miei alunni, un nuovo approccio alla
lettura e alla scrittura, ma anche nella mia impostazione di lavoro.
Da questa esperienza nasce l’idea di scrivere una tesi sulla Logogenia, dandomi così la
possibilità di continuare a mettere in atto ciò che ho imparato al corso su questa
metodologia, con i miei alunni e con un’alunna della scuola dell’infanzia in cui ho
svolto il mio tirocinio universitario. Questo lavoro non è una presentazione della
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Logogenia in termini “scientifici”, non ho gli strumenti per farlo perché non sono una
logogenista, ma rappresenta il racconto di questa avventura, iniziata per caso e che ha
coinvolto anche i miei alunni, con l’intento di far conoscere e far nascere almeno un po’
di curiosità verso questa metodologia.
Questo lavoro è diviso in tre capitoli:
Il primo capitolo si divide in due parti: nella prima parte prenderò in esame la sordità da
un punto di vista più prettamente medico-scientifico cercando di spiegare che cos’è la
sordità, quali sono le sue cause e in che modo è possibile intervenire sul deficit acustico.
Nella seconda parte tenterò di riassumere gli interventi educativi a favore dei soggetti
sordi messi in atto da maestri, medici, filosofi ed educatori a partire dall’antichità fino al
1800, anno in cui si tenne a Milano il famoso dibattito internazionale sulla scelta del
metodo educativo da adottare per la formazione del bambino sordo.
Nel secondo capitolo parlerò della Logogenia, metodologia che si approccia in termini
linguistici al problema dell’acquisizione della lingua orale nei sordi, prendendo spunto
dalla concezione chomskyana della lingua. Questo metodo si pone l’obiettivo di far
raggiungere ai bambini sordi una competenza linguistica nella lingua scritta pari a
quella dei bambini udenti nella lingua orale. Per questo motivo nel capitolo ho
introdotto una distinzione tra Competenza Comunicativa dalla Competenza Linguistica:
per Competenza Comunicativa si intende la capacità dell’individuo di estrarre un certo
numero di informazioni dalle frasi, attraverso la comprensione di alcune parole,
attraverso la capacità di interpretare il contesto in cui queste frasi sono emesse senza far
leva sulla conoscenza degli elementi grammaticali presenti nelle frasi; la Competenza
Linguistica al contrario è la capacità di percepire tutte quelle informazioni che, in una
qualunque frase di una lingua, sono veicolate non dalle parole che la compongono, ma
dalla struttura della frase.
Continuo il mio lavoro ponendo l’attenzione sulla distinzione tra apprendere e acquisire
una lingua, proprio perché la Logogenia rifiuta i tentativi di insegnare la lingua orale
attraverso spiegazioni, esercizi e lo studio della grammatica, poiché l’acquisizione della
lingua non può avvenire tramite un processo di apprendimento, ma grazie ad una
stimolazione naturale, che può avvenire anche nei bambini sordi.
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Nel terzo capitolo riporterò il lavoro fatto insieme ai miei alunni, che mi darà la
possibilità di parlare della Logogenia in senso pratico e di come essa affronta argomenti
come: l’arricchimento lessicale, la comprensione del testo e la grammatica. Questo
lavoro è stato per me molto significativo, perché ho avuto la possibilità di mettermi in
gioco, di proporre qualcosa di nuovo ai miei alunni, dando loro una possibile soluzione
per affrontare le loro difficoltà.
Il mio intento è quello di raccontare la nostra avventura per stimolare almeno un po’ di
curiosità verso questa metodologia.
“Distruggere la prigione, mettere al centro della scuola il bambino,
liberarlo da ogni paura, dare motivazione e felicità al suo lavoro,
creare intorno a lui una comunità di compagni che non gli siano antagonisti,
dare importanza alla sua vita e ai sentimenti più alti che dentro si svilupperanno,
questo è il dovere di un maestro, della scuola, di una buona società.”
Mauro Lodi
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Capitolo 1
Il mondo della sordità
“Che importanza ha la sordità dell’orecchio,
quando la mente sente.
L’unica vera sordità, l’incurabile sordità,
è quella della mente.”
Victor Hugo
1.1. Introduzione
La parola sordità viene generalmente usata per indicare sia il deficit sensoriale uditivo
sia l’handicap a livello sociale che ne deriva. Fra le due accezioni però esiste una
profonda differenza.
Con il termine deficit ci si riferisce alla quantità o qualità della perdita uditiva,
misurabile attraverso le diagnosi audiologica; l’handicap, invece, rappresenta l’insieme
delle difficoltà e dei limiti che una persona si trova ad affrontare quando partecipa ad
attività sociali. La gravità dell’handicap non va di pari passo con quella del deficit e la
possibilità di ridurlo è legata a due fattori principali:
1. fattore individuale: ovvero in che misura la persona si è impegnata per ridurre il
deficit; di questi fanno parte gli interventi di protesizzazione e la terapia
logopedia, entrambe unite alla consapevolezza che il deficit è una realtà che si
deve accettare e con cui convivere.
2. fattore sociale: ovvero quanto la sociètà ha fatto per rompere le barriere
comunicative, comprende tutti i servizi che vengono messi in atto per ridurre
l’handicap come ad esempio:
interpreti di lingua di segni all’interno di tutte le strutture pubbliche
sottotitoli e interprete della lingua dei segni in televisione
migliorie nella telefonia
servizio-ponte
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tutto per favorire la costruzione di una propria identità.
La sordità dunque, se è un problema, è innanzitutto un problema che ha le sue radici nel
rapporto dell’individuo con la società. Sono la famiglia, la scuola, le istituzioni, infatti,
che devono e possono trovare un modo per adattarsi alle esigenze del bambino sordo e
per accoglierlo in un ambiente che consenta una crescita adeguata alle sue potenzialità,
in quanto ha le stesse potenzialità di apprendimento del bambino udente.
Come sottolinea lo psicologo russo Vygotskij per il bambino sordo la sordità
rappresenta la normalità e non una condizione di malattia: “egli avverte l’handicap solo
indirettamente o secondariamente, come risultato delle sue esperienze sociali”
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La mancanza dell’udito non significa altro che assenza di una modalità sensoriale
attraverso cui il bambino interagisce con l’ambiente, assenza che viene compensata
dall’utilizzo di un’altra modalità percettiva: la vista. La compensazione è sempre un
processo di crescita e di ristrutturazione globale del comportamento e della psiche del
bambino portatore del deficit e mai solo una sostituzione di una funzione con un’altra.
Per questa ragione il bambino sordo ha le stesse potenzialità di apprendimento di un
bambino udente. Occorre quindi tenerne di conto nell’educazione dei sordi e
privilegiare il canale sensoriale visivo.
La sordità viene definita un handicap nascosto anche perché è difficile a prima vista
riconoscere una persona sorda, se per esempio la si vede per strada, a differenza della
disabilità visiva o motoria, dove le difficoltà sono subito evidenti. La sordità è
riconoscibile solo al momento della comunicazione, così le persone sorde non sempre
ricevono da parte degli udenti tutte quelle attenzioni e quella disponibilità necessaria.
L’impossibilità per la persona sorda di instaurare con gli altri udenti una relazione
significativa, provoca una serie atteggiamenti aggressivi, venendo giudicati chiusi o
irritabili, senza tener conto che non è la sordità di per sé a renderli diffidenti, aggressivi,
irritabili e polemici, quanto lo scontro quotidiano con le barriere che impediscono la
comunicazione. Gli atteggiamenti aggressivi sono maggiormente accentuati, dal fatto
molto spesso in situazioni di maggior coinvolgimento emotivo, ricorrono al linguaggio
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Vygotskij, L.S. “Trought and language” (Traduzione italiana “Pensiero e linguaggio” di Fara Costa, Gatti
e Veggetti), Firenze, Giunti Barbera, 1996