differenti. Un’analisi di taglio antropologico non può prescindere dalla constatazione
che tale interazione si costruisce attorno ad aspettative reciproche che tengono conto in
modo preponderante della variabile etnico-culturale.
L’evolversi di tali dinamiche verso modelli di interazione improntati all’apertura ovvero
alla chiusura comunicativa, alla molteplicità ovvero all’omogeneità etnico-culturale,
dipenderà dalla capacità delle varie componenti di negoziare strategicamente le proprie
identificazioni. Su questa importante capacità, connessa alla natura intrinsecamente
plastica e dialogica di ogni identità, si gioca il futuro delle società multietniche. Senza
negoziazioni strategiche e bilaterali l’identità etnica corre il rischio di essere
assolutizzata (etnicizzazione dei rapporti sociali) o, all’opposto, messa al bando
(assimilazione-mimetizzazione), decretando l’incapacità di costruire l’interazione su
confini deboli e permeabili.
La nostra attenzione si è quindi soffermata su una fascia di popolazione che rappresenta
a nostro avviso una sorta di “catalizzatore” delle problematiche interculturali: gli
immigrati di seconda generazione, chiamati a costruire la propria identità muovendosi
tra spazi e tempi del quotidiano comuni ai propri coetanei (servizi educativi, tempo
libero…) e spazi e tempi caratterizzati invece da forti discontinuità (legami familiari, riti
e cerimonialità legate alla cultura d’origine, vita vissuta in patria…).
Sulla base di queste riflessioni teoriche è stata elaborata una ricerca empirica, che
costituisce la seconda parte del presente elaborato.
Accettando i principi basilari della metodologia qualitativa e combinandoli con un
approccio basato sulle immagini, si è strutturata una ricerca visuale, finalizzata a
comprendere vissuti soggettivi e riferimenti culturali di giovani stranieri di seconda
generazione. In tal modo si è fatta propria l’ipotesi secondo cui la comunicazione
iconica può essere considerata “linguaggio del vissuto soggettivo”.
Utilizzando la tecnica della photo-elicitation, sono stati condotti alcuni colloqui semi-
strutturati che ci hanno permesso di verificare come, nel tentativo di mediare tra due
universi di identificazione spesso dissonanti o addirittura contraddittori, questi giovani
mettano in atto strategie identitarie molto differenti, da noi elaborate seguendo tre
tipologie di sintesi.
Il ricorso alla sociologia visuale è stato suggerito dal suo essere un approccio
conoscitivo diverso dai tradizionali metodi di indagine sociologica: in un ambito in cui
particolarmente elevato appariva il rischio di stigmatizzare l’interazione tra
intervistatore e intervistato, creando o perpetuando attraverso il linguaggio stereotipi già
troppo diffusi, si è rivelato utile far leva su un linguaggio scarsamente codificato, e
perciò più libero, capace di lasciare agli intervistati ampi margini di soggettività.
Incentivando il coinvolgimento emotivo nelle immagini presentate, si è inteso inoltre
ridurre il distacco tra osservatore ed osservato, tentando una riformulazione dei ruoli
tipici della ricerca che andasse verso un rapporto meno asimmetrico e più
“collaborativo”.
1
LE MIGRAZIONI NEL CONTESTO DELLA
GLOBALIZZAZIONE
«Per fortuna si comincia ad affermare il
principio che molte periferie stanno nel centro
e che molti centri stanno nelle periferie»
Canevacci, 1995
1.1 Migrazioni, mutamento sociale, sistema globale
Allo scadere del Novecento, la migrazione è stata definita come “una
delle sfide più impegnative del prossimo secolo”. Eppure, questa
particolare forma di mobilità - così difficile da definire visti gli aspetti
svariati in cui storicamente si manifesta - caratterizza l’umanità sin dai
primordi della sua esistenza, ed è responsabile delle più profonde
modificazioni storiche, economiche, culturali e sociali di ogni epoca.
Adottando una visione dinamica e relazionale del fenomeno in
questione alcuni studiosi hanno sottolineato il lato del mutamento
innescato «nelle relazioni sociali, nei modelli socioculturali di vita e
nell’ambiente umano, cioè nella società globale in quanto rete di
relazioni» (Pollini e Scidà, 1998: 17) da quello che sembra essere «uno
dei meccanismi essenziali di cambiamento in seno alle società» (Noin,
1979).
Questa visione è in parte già presente in alcuni lavori “classici”:
Robert Park, nel saggio Human Migration and the Marginal Man (1928)
pone come centrale la questione della relazione fra migrazione e
mutamento, pur considerandola univocamente diretta: il mutamento
sociale è effetto della migrazione. Facendo propria la cosiddetta teoria
catastrofica della civiltà, egli giudica il cambiamento epocale dovuto alle
migrazioni linfa vitale per tutte le civiltà, minacciate più dalla
stagnazione etnico-culturale che da queste “contaminazioni forzate”.
Senza perdere peraltro il suo carattere destabilizzante e problematico per
qualsiasi ordine e struttura sociale, la migrazione si pone in questo caso
come una condizione di sviluppo della civiltà.
Adeguando il modello ad una realtà diversa e più attuale, fatta sempre
più di interrelazioni globali, Giuseppe Scidà sottolinea invece la doppia
relazione causale esistente tra migrazione e mutamento:
«le migrazioni vengono viste dalla sociologia essenzialmente come una
fonte non secondaria del mutamento sociale ma anche come effetto di
questo […] che, come è noto, può non consistere necessariamente in un
progresso della società globale» (Pollini e Scidà, 1998: 17).
Già negli anni ’60, cambiamenti epocali nel sistema dei trasporti, delle
comunicazioni, della telematica determinarono una repentina caduta
della frizione dello spazio (ivi) facilitando sia la diffusione di elementi
concreti e materiali (persone, merci…) sia quella di elementi immateriali
(immagini, idee, informazioni…). Indicata da alcuni studiosi americani
come rivoluzione mobiletica (Gross e Russett, cit. in Pollini e Scidà,
1998), questo stravolgimento del modo di esperire le distanze spaziali
non può non avere stimolato anche la mobilità umana.
Cogliendo il suggerimento di Scidà potremmo considerare le migrazioni
internazionali l’emblema di un’epoca di globalizzazione, causa ed
effetto di grandi e planetarie modificazioni, in una rete ormai quasi
inestricabile di interrelazioni e feedback.
Le “nuove migrazioni” ed in special modo le migrazioni internazionali, si
caratterizzeranno dunque per la loro inevitabile “contaminazione” con i
fenomeni globali; i loro tratti inediti troveranno spiegazione in quelle
ampie modificazioni planetarie che vanno sotto il termine, ormai
inflazionato, di globalizzazione.
1.1.1 World as a whole?
L’idea di vivere in un pianeta “globalizzato” è così ripetutamente e
abbondantemente evidenziata – nei discorsi specialistici come nel parlare
comune – da essere ormai acriticamente accettata da ciascuno come si
trattasse di un destino ineluttabile, un’evoluzione naturale del corso degli
eventi, spesso nel modo disarmato e preoccupato con cui si è soliti
osservare l’arrivo di una grossa perturbazione atmosferica. Con la
locuzione globalizzazione si definisce “il rapido e persistente incremento
delle relazioni internazionali, di qualunque genere esse siano, al di là
delle fluttuazioni della mera congiuntura economica” (Pollini e Scidà,
1998: 18).
Purtroppo, il dibattito su questo tema si è rivelato spesso riduttivo e
parziale, limitandosi a tematizzare soltanto alcune delle dimensioni del
fenomeno (specialmente quella economica e politica), più evidenti e
macroscopiche. Del tutto sottovalutato è stato il ruolo della dimensione
culturale e delle relazioni intersocietarie, lasciate per lungo tempo ai
margini della riflessione:
«E’ in larga misura questa l’origine delle difficoltà che la sociologia oggi
incontra e dei ritardi che ha accumulato nello studio della globalizzazione intesa
come fenomeno empirico ma soprattutto nel raccogliere la sfida concettuale da
essa portata che vuole l’assunzione di ogni particolare sistema sociale come parte
del “mondo come un tutto” (the world as a whole)» (Scidà, 1990: 12)
E’ il concetto di interdipendenza la chiave per comprendere il
fenomeno. Avvertito come processo ineluttabile già alla fine degli anni
‘60
1
, dispiega i suoi effetti nel decennio successivo, quando una serie di
eventi internazionali, più o meno traumatici – uno per tutti: la crisi
petrolifera del dicembre 1973
2
– mettono in luce quanto la comunità
1
Richard N. Cooper, in un pionieristico studio del 1968, definì l’interdipendenza «un
processo che accresce la sensitività dell’economia di un paese rispetto a quanto accade
nei paesi con cui vi sono importanti relazioni e scambi» (Cooper, cit. in Scidà, 1990:
19).
2
«Si fa spesso riferimento alla crisi petrolifera del 1973 come al grande spartiacque e,
sebbene questo avvenimento sia stato solo un segno indicatore dei cambiamenti
strutturali del sistema globale […] ciò ci ha probabilmente informato meglio di ogni
altra cosa sulla vulnerabilità del sistema industriale occidentale, l’esauribilità delle
risorse naturali, il potere delle società multinazionali, e la sempre minore capacità degli
mondiale sia un sistema di parti interrelate e qualsiasi perturbazione delle
condizioni normali di equilibrio di una parte qualsiasi del globo si
diffonda rapidamente al resto del pianeta (ivi: 20).
Poco a poco l’idea di interdipendenza tende a debordare dall’ambito
prettamente economico, assumendo una funzione ideologica, come ci
ricorda Björn Hettne:
«[essa] propone una categoria come per tutti i popoli della terra (“siamo tutti
sulla stessa barca”). Questa interpretazione dell’interdipendenza adempie ad una
funzione ideologica, trascurando di solito il fatto che i passeggeri della barca
[…] non viaggiano nella stessa classe e neppure hanno identiche possibilità di
accesso al numero esiguo di scialuppe di salvataggio» (Hettne, 1986).
Così, il concetto si inserisce con successo prima nel dibattito ecologico
3
,
poi in quello etnico-culturale, politico, demografico. Gran parte dei
problemi emergenti a livello planetario vengono letti alla luce di questa
teoria, con alcuni limiti evidenti:
«La concezione del pianeta soggiacente a questi studi è quella di un
mondo postulato come un tutto omogeneo a partire da una visione
planetaria del sistema dominante: quello della società industriale che
appunto “si planetarizza”» (Scidà, 1990: 21).
Il postulato della unidirezionalità della diffusione della razionalità
occidentale costituisce un punto debole per tutte le teorie che hanno visto
come ineluttabile e relativamente agevole l’avvento della
uniformizzazione planetaria, diventando un limite invalicabile man mano
che l’eterogeneità veniva evidenziandosi con decisione e la
globalizzazione rivelava senza mezzi termini la sua natura dialettica.
stati-nazione di controllare i fatti dell’economia mondiale mediante la propria esclusiva
giurisdizione» (Hettne, 1986)
3
La conferenza dell’ONU sull’ambiente del 1972 sottolinea con fermezza il fatto che
«i sistemi ecologici non conoscono confini nazionali. Poiché l’umanità intera dipende
dalla biosfera, nessun paese può sconvolgere l’equilibrio ecologico senza influenzare
anche gli altri paesi. Si è cominciato a render conto che c’è “solo un pianeta terra”»
(Hettne, 1986). Otto anni più tardi, nel Rapporto Brandt (1980) la parola-chiave è
ancora interdipendenza.
1.1.2 Dialettica della globalizzazione
In un sistema nel quale sempre più spesso si aprono lacerazioni, si
ravvivano contraddizioni, si alimentano contrasti, l’essenza conflittuale
della globalizzazione balza evidente: utilizzando le lapidarie parole di
Wolfgang Sachs potremmo affermare, con un certo sollievo:
“l’universalismo è sotto assedio” (Sachs, 1998).
Sottolineando la natura dialettica della globalizzazione si tenta di
rendere conto simultaneamente dei «potenti fenomeni di diffusione
dell’omogeneizzazione degli orientamenti e dei comportamenti ai più
diversi livelli nella vita degli individui e dei sub-sistemi sociali nazionali,
unitamente all’insorgere complementare di persistenti orientamenti e
comportamenti per la difesa della diversità» (Scidà, 1990: 12). Per questo
«le analisi e le interpretazioni che enfatizzano il ruolo di fattori come la
coercizione degli uni sugli altri o della diffusione di pretesi valori comuni
operanti in sostanza in modo unilaterale portano a semplificazioni che
finiscono col rendere le conclusioni spesso del tutto irrealistiche» (ivi:
22).
L’idea di una globalizzazione dagli effetti unilaterali e uniformizzanti
appare cioè sempre più improponibile. Il globo, prima inteso come un
grande spazio omogeneo «che aspettava solo di essere organizzato da
programmi e tecnologie universalmente applicabili» (Sachs, 1998: 438),
inizia ora ad essere percepito come uno spazio discontinuo ove
fioriscono, si affiancano, convivono differenze irriducibili, in un gioco di
reciproche contaminazioni:
«the process of globalization is not simply one in wich indigenous culture is
modernized but also that in wich modernity is indigenized» (Vasankumar, 1992,
cit. in Canevacci, 1995: 15).
Molti degli attuali studi sui possibili mutamenti futuri, specie sul piano
culturale, si concentrano su questi effetti “sincretici”, dinamici,
imprevedibili e incontrollabili della globalizzazione, assumendo
l’ipotesi che:
«anziché piatta omologazione, l’attuale fase sviluppi una tensione forte,
decentrata e conflittuale tra mondializzazione e localizzazione: ovvero tra
processi di unificazione culturale – un insieme seriale di flussi universalizzanti –
e pressioni antropofagiche “periferiche” che decontestualizzano, rimasticano,
rigenerano» (Canevacci, 1995: 18).
Quelli che un tempo erano reputati unilateralmente veicoli di una cultura
uniformizzatrice attraverso l’operato travolgente dei mass media,
vengono oggi letti in un’ottica sempre più pluralistica e decentrata. Ciò
che Pasolini scriveva nel 1973
4
a proposito dell’omologazione imposta in
Italia dai mezzi di comunicazione di massa, pur rappresentando un
pericolo incombente ormai sull’intero pianeta, sembra tuttavia aver perso
il suo carattere di destino ineluttabile.
La comunicazione mediatica diventa oggi polisemica e pluriversa,
capace di veicolare non solo linguaggi imposti dal centro, ma in modo
sempre più efficiente e deciso anche le voci dissidenti delle “periferie”.
Essa offre agli individui coinvolti in quella che Gad Lerner ha chiamato
diaspora dei giorni nostri, possibilità inedite di continui contatti con le
comunità d’origine, di accesso diretto a fonti di informazione come
giornali, telegiornali, programmi in lingua nazionale, consentendo «una
continua rigenerazione identitaria attraverso un ritorno alle sorgenti della
loro cultura, alle loro radici identitarie» (Pollini e Scidà, 1993: 70), e
perciò alimentando quelle spinte particolaristiche di cui è sempre più
costellata la panoramica della globalizzazione planetaria.
4
«Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della
civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che
però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie,
operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli […] Oggi, al
contrario, l'adesione ai modelli imposti dal centro, è totale e incondizionata. [...] Per
mezzo della televisione, il centro ha assimilato a sé l'intero paese, che era così
storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un'opera di
omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza» (Pasolini, Scritti corsari,
1975).
Non solo: questi assidui contatti “a distanza” si rivelano sempre più
determinanti nelle cosiddette catene migratorie
5
, agevolate senza dubbio
dalle sempre più fitte «reti di legami interpersonali intercorrenti tra i
migranti, i vecchi emigrati e i non emigrati dalla regione di origine che si
fondano su vincoli di parentela, di amicizia e di comunanza culturale»
(Pellicani, 1999: 506). Questi network sociali accrescono la mobilità
internazionale perché riducono i costi e i rischi degli spostamenti e
massimizzano le risorse finanziarie, confermandosi come «una vera e
propria forma di capitale sociale che gli individui possono utilizzare per
una più agevole integrazione» (ivi).
5
Si definiscono catene migratorie «quei collegamenti che si instaurano tra zone di
origine e zone di accoglienza e che rappresentano una solida base per i successivi arrivi
innescando meccanismi di autoalimentazione e di cumulo» (Pellicani, 1999: 506).
1.2 Come cambiano le migrazioni
1.2.1 Uno sguardo al passato
Per meglio comprendere i tratti, più o meno inediti, di quelle che
andiamo delineando come nuove migrazioni, occorre soffermarsi – in
maniera sommaria – sull’evoluzione che ha interessato le migrazioni
internazionali della forza lavoro dal secondo dopoguerra ad oggi, pur
limitandosi al panorama europeo.
Nell’immediato dopoguerra l’Europa Nord-Occidentale
6
fu terra di
immigrazione di lavoratori provenienti da vari paesi dell’Africa,
dell’Asia e dell’Europa meridionale.
Forti motivi di attrazione innescarono gli spostamenti: la ripresa
economica post-bellica, il “mito occidentale”, gli ancora frequenti
contatti e le affinità linguistico-culturali delle ex colonie con la
madrepatria, la facilità di ingresso nei territori del continente. Addirittura,
potremmo parlare di vere e proprie politiche di richiamo della forza
lavoro straniera, attuate dai Paesi europei in linea con le teorie, allora
accreditate, secondo cui un’abbondante disponibilità di forza lavoro era
una condizione essenziale per una crescita economica sostenuta. Nel caso
contrario, infatti, la carenza di offerta avrebbe alimentato una crescita
incontrollata dei salari, con pesanti effetti sullo sviluppo economico
(Pollini e Scidà, 1993).
Fino alla fine degli anni ’60, quindi, l’immigrazione è vista
prevalentemente come “importazione di manodopera”, per giunta
temporanea: nessun paese avrebbe pensato in quegli anni di dover fare i
conti con una presenza che sarebbe invece diventata progressivamente
stabile, con tutti i problemi e le necessità che tale svolta avrebbe
comportato.
La svolta si ha negli anni ’70, sia per ciò che riguarda le prospettive e la
tipologia dei flussi migratori, sia per le politiche dei governi europei
verso gli stessi.
6
Per Europa Nord-Occidentale si intendono i Paesi: Germania, Francia, Regno Unito,
Scandinavia, Svizzera e Paesi Bassi (Pollini e Scidà, 1993).
Relativamente alla trasformazione delle tipologie dei flussi migratori
possiamo seguire lo schema evolutivo a quattro stadi tracciato da
Böhning (1974, cit. in Pollini e Scidà, 1993: 17):
1) Caratteristica del primo periodo la breve permanenza e l’elevato tasso
di attività dei migranti (di sesso maschile, molto giovani, con qualifiche
relativamente alte)
2) Si mantiene elevata la mascolinità. Crescono età media, percentuale di
sposati, durata della permanenza. Diminuisce il livello di qualificazione.
3) Prosegue la crescita dell’età media, aumenta la percentuale delle
donne immigrate (ricongiungimenti familiari), si allunga il periodo di
permanenza. Diminuiscono i rientri in patria.
4) Stadio di maturità del flusso migratorio: elevato numero di immigrati,
prolungamento dei soggiorni, crescita dei ricongiungimenti familiari.
Aumenta proporzionalmente la domanda di servizi sociali e la richiesta di
diritti.
Contemporaneamente, drastici mutamenti della congiuntura
economica mondiale segnano l’inizio di un’epoca di recessione
economica (risale al dicembre 1973 il primo shock petrolifero), gravando
non poco sull’attivazione di misure restrittive dei flussi migratori,
denominate da alcuni politiche di stop (Sciortino, 1989).
E’ in questa fase critica che l’immigrazione si estende ai paesi
dell’Europa meridionale
7
, coinvolgendo anche la nostra penisola, e
rendendola, nel giro di pochi anni da terra secolare di emigrazione a terra
di immigrazione.
Dagli anni ’70 in poi tutti i Paesi della Comunità tenderanno a rafforzare
in modo congiunto le misure di sicurezza dei confini esterni, rendendo
sempre più difficoltoso l’accesso alla “roccaforte europea”. Un rapporto
apparentemente paradossale, sottolinea Scidà: se da un lato l’accordo di
Schengen (siglato nel 1985 e reso applicativo nel 1990) abolisce ogni
controllo alle frontiere interne tra i Paesi firmatari, dall’altro «le frontiere
7
Per Europa meridionale intendiamo: Italia, Grecia, Spagna, Portogallo (Pollini e Scidà,
1993).
con l’esterno sembrano chiudersi sempre più ermeticamente» (Pollini e
Scidà, 1993: 19).
E’ in questo contesto storico-strutturale che si inseriscono le nuove
migrazioni.
1.2.2 Lineamenti generali delle nuove migrazioni
A giustificare il termine nuove migrazioni concorrono fattori precisi,
che tenteremo di delineare brevemente.
Primo fra tutti il carattere di spontaneità/incontrollabilità con cui il
fenomeno si manifesta: non più un’importazione più o meno
programmata di manodopera, ma una spontanea, disperata risposta a
problemi derivanti dal nuovo ordine economico mondiale, responsabile
dei crescenti squilibri tra Nord e Sud del pianeta
8
. Non a caso, il bacino
del mediterraneo, teatro di gran parte degli attuali spostamenti, appare
oggi come una delle aree dove più marcato risulta il divario tra Paesi
delle due sponde opposte (Livi Bacci, 1988).
A prevalere sembrano essere sempre più i cosiddetti fattori di
espulsione (push factors) su quelli di attrazione (pull factors)
9
, come
dimostra il fatto, altrimenti paradossale, che l’immigrazione si sia estesa
ai Paesi del sud Europa (Italia, Grecia, Spagna e Portogallo) proprio in
una fase di recessione economica di questi ultimi, quando il problema
occupazionale iniziava a preoccupare gli stessi lavoratori locali. Ciò a
dimostrazione di quanto poco questi flussi siano motivati dalle reali
opportunità offerte dal mercato del lavoro dei paesi di approdo.
I fattori di espulsione nei paesi d’esodo si ricollegano a un complesso
intreccio di situazioni: demografiche, politiche, economiche, sociali, che
interagiscono tra loro più o meno strettamente. Prima tra tutti possiamo
8
Umberto Melotti parla di crisi epocale del sud del mondo e afferma: «Le aree di
provenienza si estendono e finiscono per interessare quasi tutti i paesi del Terzo mondo,
colpiti da una crisi economica senza precedenti e per di più senza alcuna concreta
prospettiva di risoluzione a breve o a medio termine » (Melotti, 1990: 41-42).
9
«Dagli anni ’80 si tende […] a rilevare frequentemente l’accentuarsi del push effect
operante nei paesi d’origine che influenza non solo le scelte dei lavoratori migranti e
delle loro famiglie alla ricerca di un’occupazione che garantisca loro quella mera
possibilità di sopravvivenza che nei loro paesi non è assicurata ma alimenta anche il
annoverare l’esplosione demografica, dovuta principalmente alla brusca
caduta del tasso di mortalità
10
, non accompagnata da una corrispondente
contrazione del tasso di natalità.
L’incremento demografico si unisce purtroppo al drammatico
peggioramento delle condizioni di vita di gran parte della popolazione
minacciata da guerre, instabilità politica, carestie, epidemie.
Si aggiungano poi fattori di ordine culturale e sociale come la crescita
delle aspettative di vita – o “rivoluzione delle aspettative crescenti”
come la definisce Melotti (1990) – dovuta principalmente a contatti
sempre più intensi con il mondo occidentale e con i relativi stili di vita.
Inedite sono anche le attuali “mappe” migratorie: la decolonizzazione del
secondo dopoguerra aveva fornito un ampio contributo alla mobilità dei
migranti: in particolare Francia e Gran Bretagna, mantenendo stretti
rapporti economici e sociali con le ex colonie, si trovarono ad accogliere
numerosi immigrati provenienti dal Maghreb (per quanto riguarda la
prima) dall’India, dall’Africa e dai Caraibi (per la seconda). Allentandosi
definitivamente i vincoli coloniali, cresce l’imprevedibilità dei percorsi
migratori, non più strettamente legati a movimenti verso i paesi
linguisticamente affini. Alcuni studi attuali pongono l’accento su tali
caratteristiche di globalità che detti flussi hanno acquisito:
«Risulta, infatti, sempre più difficile stabilire con chiarezza le linee di
demarcazione delle diverse aree migratorie. Certo, se da una lato la vicinanza
geografica per esempio per la Spagna e per l’Italia, l’esistenza di legami
coloniali come per il Portogallo, la Francia, il Belgio, la presenza di insediamenti
più o meno di vecchia data come possono essere quello algerino, marocchino o
turco, esercitano la loro influenza nel dirigere questo fenomeno e nel
determinarne l’entità, dall’altro sembrano definitivamente abbandonati quei
processi di rigida selezione che, nel passato, hanno contraddistinto i processi
migratori» (Pellicani, 1999: 509).
crescente fenomeno dei rifugiati che fuggono dalle loro nazioni d’origine per motivi
politici, religiosi, razziali, ecc.» (Pollini e Scidà, 1993: 21).
10
Tale caduta del tasso di mortalità è a sua volta determinata dalla diffusione di principi
igienici elementari, dalle vaccinazioni di massa contro le malattie infettive più comuni,
dall’introduzione di cure mediche di base (Melotti, 1990).