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successive svalutazioni del Dollaro rispetto all’Euro); le delocalizzazioni
produttive verso paesi a basso costo del lavoro (pensiamo, ad esempio, ai
paesi usciti dal dominio sovietico) hanno inciso sull’economia italiana e
particolarmente sulle regioni come la Toscana la cui crescita dipende in
larga misura dalle esportazioni di prodotti manifatturieri. In questo contesto,
come affermano molti studiosi, la competizione non è più solo fra imprese;
essa è pure fra sistemi territoriali (Becattini, 1999)
In un ambiente così turbolento e dove le minacce e le opportunità sono
globali rischiano di trovarsi in pericolo i sistemi e gli schemi rigidi. Come ha
recentemente affermato Claudio Martini, presidente della Regione Toscana,
sulla prevedibilità dell’impatto dei cambiamenti in atto sui sistemi locali “non
eravamo preparati. Non solo, ma l’eccessiva fiducia nel nostro modello di
sviluppo, nel dinamismo delle strutture produttive, nella qualità del nostro
sistema sociale e ambientale, alimentata dalla certezza di avere costruito
una società ad elevato benessere e coesione sociale, ci ha impedito di
percepire e intercettare i segnali e le discontinuità strutturali che si stavano
manifestando fino a determinare i punti critici della situazione attuale. Per
questo oggi vogliamo cambiare marcia. Vogliamo provare ad analizzare
alcune direttrici dello sviluppo tentando di studiarne le possibili variabili e di
percepire i segnali che possono determinare particolari sviluppi ed
evoluzioni. Si tratta di imparare, partendo dalla convinzione che ciò che
accadrà domani è già presente oggi” (Irpet, Toscana 2020 una regione
verso il futuro).
Dunque i sistemi locali, allo stesso titolo delle imprese, devono adattarsi
e addirittura avere un atteggiamento proattivo nei confronti dell’ambiente
che si evolve. I sistemi locali, come le imprese, devono avere strategie
proprie e devono essere costantemente monitorati. Ecco che per introdurre
innovazioni su base territoriale diventano indispensabili ai politici, agli
studiosi ed agli operatori economici, strumenti per descrivere, stimare,
interpretare ed eventualmente prevedere i fattori che hanno influenzato
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l’andamento di fenomeni economici (occupazione, reddito, ecc…). Esistono
molte tecniche per raggiungere lo scopo appena accennato fra cui la
dynamic shift-share.
L’intento del nostro studio è di analizzare tramite la dynamic shift-share
di Haynes and Dinc (1997) i cambiamenti nell’occupazione e nel valore
aggiunto in Toscana tra 1996 e 2002. Le unità territoriali scelte nell’analisi
sono i sistemi locali del lavoro (SLL). Questo perchè l’analisi di tipo ha
ricevuto riconoscimenti come base per implementare le politiche di sviluppo
sia a livello nazionale che a livello internazionale .
A livello nazionale, con la legge 144/99, i SLL sono stati riconosciuti
come unità territoriali rilevanti per la realizzazione ed il controllo delle
politiche di sviluppo del territorio . Anche il Documento di Programmazione
Economica e Finanziaria del 1999 ha di fatto identificato i Sistemi Locali di
Sviluppo, unità territoriali basi sulle quali è impostata l’azione del Governo in
merito alla politica di sviluppo del Paese con i Sistemi locali del lavoro.
A livello internazionale la Commissione Europea ha assunto la griglia
territoriale dei SLL come base per definire le aree territoriali nelle quali
potranno essere concessi incentivi alle imprese: ” i SLL rappresentano zone
economicamente e socialmente omogenee, utilizzati sin dal 1987 come
unità di riferimento nelle politiche nazionali in materia di programmazione e
sviluppo economico, di occupazione e di autonomie locali e che la scelta di
tale unità risponde all’intento della Commissione europea di evitare che il
massimale di popolazione venga utilizzato per selezionare esclusivamente
zone a densità di imprese senza tenere conto della popolazione che
partecipa alla produzione e beneficia della creazione di ricchezza. Inoltre i
SLL, garantendo una correlazione tra il luogo di residenza e quello di lavoro,
assicurano il rispetto dello spirito del Trattato che ammette deroghe al
divieto di principio degli aiuti alle imprese sancito dall’art. 87, allo scopo di
favorire lo sviluppo di talune regioni economiche” (Ministero del tesoro, del
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Bilancio e della programmazione economica, Terzo rapporto sullo sviluppo
territoriale 1999 – 2000).
Inoltre l’Ocse ha iniziato un filone di “Studi territoriali” dei quali il primo
riguarda proprio il caso italiano ed è realizzato a livello di Sistema locale del
lavoro(Ocse, Territorial review on Italy, 2001).
La shift and share è una tecnica di scomposizione della variazione, in un
determinato periodo, di un fenomeno in componente tendenziale,
componente strutturale e componente residua. La dynamic shift and share,
a differenza della shift and share statica, tiene conto degli effetti composti
durante il periodo considerato, costituito da più intervalli di tempo.
Il metodo di Haynes and Dinc è stato scelto non solo perché è dinamico,
cioè tiene conto dei cambiamenti infraperiodici; altresì perché, andando oltre
il modello tradizionale che individua i contributi strutturali e locali, propone
un modello per valutare gli impatti dell’output, della produttività del lavoro e
della produttività dei fattori extra-lavoro (capitale, infrastrutture materie
prime, tecnologie, ecc…).
L’analisi è divisa in cinque capitoli di cui i primi due costituiscono la parte
teorica
Nel primo capitolo parleremo dei SLL e dei distretti industriali.
Nel secondo capitolo presenteremo la tecnica shift-share, l’approccio
tradizionale, il modello di Rigby and Anderson (1993) e l’approccio di
Haynes and Dinc (1997).
Il terzo capitolo è un quadro d’insieme dell’economia Toscana negli anni
novanta e primi anni 2000. In questo capitolo verranno illustrate le
specializzazioni produttive regionali e locali, i cambiamenti negli indicatori
macroecomici (occupazione, valore aggiunto, ecc…) e si farà cenno alle
politiche adottate.
Il quarto capitolo è la sezione analitica dedicata all’applicazione della
versione estesa di Haynes and Dinc (1997) all’occupazione negli sistemi
locali del lavoro. In questa sezione, si cercherà di interpretare i risultati e di
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mettere in risalto i cambiamenti nei distretti industriali in quanto
costituiscono un perno dell’economia italiana e di alcune regioni.
L’ultimo capitolo contiene alcune osservazioni conclusive.
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Capitolo 1
I SISTEMI LOCALI DEL LAVORO
E I DISTRETTI INDUSTRIALI
1) Sistemi locali del lavoro
I Sistemi Locali del Lavoro (SLL) derivano da una ricerca condotta
dall’Istat e l’Irpet in collaborazione con l’università di Newcastle Upon Tyne.
Ricerca di cui l’obiettivo era la partizione del territorio sulla base dei flussi
giornalieri di persone per motivi di lavoro. Quindi i SLL sono luoghi in cui
una popolazione lavoro e vive ovvero come dice SFORZI (1990): il SLL
“identifica lo schema tempo-spazio della vita quotidiana della popolazione
residente, ove si innesta la gran parte delle relazioni sociali ed economiche“.
Il SLL è un’area territoriale intermedia tra comune e provincia costituita di
comuni contigui e si caratterizza per una certa omogeneità nella propria
specializzazione produttiva. La partizione del territorio nazionale in SLL,
rispetto ai tradizionali metodi su base politico-amministrativa , ha maggiore
rilevanza dal punto di vista economico, politico, sociale, territoriale e
statistico:
- Dal punto di vista economico, i SLL contribuiscono ad evidenziare le
zone più attive di un paese o di una regione.
- Dal punto di vista politico, sono stati definiti anche “sistemi locali di
sviluppo” ossia unità territoriali per le quali calibrare politiche di sviluppo
locale in linea con le potenzialità del territorio stesso.
- Dal punto di vista sociale, sono detti anche mercati di lavoro. Si
caratterizzano da una elevata concentrazione dei posti di lavoro cioè
sono luoghi dove la maggior parte dei residenti può trovare o cambiare
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lavoro senza cambiare residenza e dove i datori di lavoro assumono la
maggiore parte dei lavoratori.
- Dal punto di vista territoriale, i SLL possono essere considerati come
indicatori del grado d’integrazione territoriale o di coalescenza territoriale
(processo di formazione delle agglomerazioni urbane): Perché il
pendolarismo presuppone idonee vie di comunicazione e esprime il
livello di mobilità della popolazione.
- Esiste un grado di complementarietà tra le unità territoriali di un SLL. La
domanda di lavoro si localizza prevalentemente in alcune unità mentre
le altre fanno da bacino di offerta di lavoro; donde l’esistenza di zone
residenziali e zone industriali.
Oltre che da esigenze economiche, la mobilità è condizionata dalle
preferenze ovvero il senso di appartenenza ad una comunità. Non a
caso, in un SLL, i comuni gravitano intorno ad un comune centrale.
- Statisticamente, i SLL sono unità territoriali significative, contrariamente
alla griglia territoriale basata su eventi storici e semplici decisioni
politiche-amministrative, per un’analisi della struttura socio-economica di
una macroarea (regione, paese, ecc…).
Il sistema locale del lavoro è costruito a partire dei dati censuari inerenti
agli spostamenti giornalieri per motivi di lavoro e i dati di occupazione (Istat,
1991); tale sistema si configura come:
- un'area che comprende più comuni, intorno ad un comune centrale dove
si concentrano maggiormente i posti di lavoro offerti, contraddistinta da
una soglia minima di occupati (almeno 1.000)
- un’area dove la maggior parte dell'occupazione residente svolge
un'attività, ovvero dove i flussi casa-lavoro appaiono autocontenuti
intorno ad un valore del 75%.
Tali sistemi locali del lavoro sono una partizione dell'intero territorio
nazionale che non sempre segue i confini regionali; accade che comuni di
confine hanno relazioni più significative con comuni limitrofi extra-regionale.
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Dal punto di vista degli interventi di politica economica, l’aggregazione di
aree territoriali appartenenti a enti amministrativi diversi è stata affrontata
dal decreto del Ministero dell’Industria (“decreto Guarino” del 21/04/1993)
dando la possibilità di riaggregare ai sistemi regionali i comuni appartenenti
alla stessa regione, ma a mercati del lavoro di regioni limitrofe, nonché
escludendo comuni non appartenenti alla regione considerata.
I SLL si caratterizzano per differenti specializzazioni produttive si
distinguono, ad esempio, i sistemi locali manifatturieri, del turismo. Visto
l’interesse per l’economia i sistemi più studiati sono quelli manifatturieri,
particolarmente i distretti industriali.
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2) I distretti industriali
Il concetto di distretto industriale ha le sue origini nello studio
dell’organizzazione industriale da Alfred Marshall nella sua opera “Principles
of economics” del 1890. Secondo Marshall i distretti sono concentrazioni di
piccole e medie imprese di natura simile che partecipano a uno stesso
processo produttivo in località particolari, o come si dice comunemente,
mediante la concentrazione dell’industria. I distretti marshalliani sono forme
organizzative industriali alternative, nell’organizzazione del processo
produttivo per realizzare economie esterne, alla grande impresa. Le
economie realizzate dai distretti sono dette economie esterne di
localizzazione ma interne al distretto; in quanto viene coinvolta nel processo
produttivo la comunità ivi insediata, vengono ridotti i costi transazionali di
filiera .
Dopo Marshall, in letteratura numerose sono le definizioni che sono
state date ai distretti industriali. Quelle più significative, in Italia, sono fornite
dal Beccatini (1989); Garofoli (1991); Brusco e Paba (1997); dal legislatore;
dall’Istituto Tagliacarne (1992 ); dal Club dei Distretti Industriali (1994) e
dall’Istat (1996).
Secondo Beccatini (1989), il distretto industriale è “un’entità socio-
territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area territoriale
circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità
di persone e di una popolazione di imprese industriali”. Quindi in questa
accezione, gli elementi fondamentali del distretto sono:
- valori omogenei
- la concentrazione di piccole e medie imprese è legata a motivi storici,
quindi non è accidentale
- processi produttivi autonomi non casuali e scomponibilità in fasi del
processo
- risorse umane specializzate
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- risorse tecnologiche
Secondo Garofoli (1991), un distretto si caratterizza da:
- la diffusione di piccole e medie imprese e assenza di una impresa che
domina
- un peso della produzione non trascurabile sul mercato nazionale
- una consistente specializzazione produttiva
- interdipendenze produttive nei settori e fra i settori
- diffusione dei rapporti diretti tra produttori del settore di specializzazione
e imprenditori ausiliari
- formazione di un sistema informativo a livello d’area
- professionalità dei lavoratori
- elevati tassi di turn-over dei lavoratori e delle imprese
- flessibilità del mercato del lavoro
- consenso sociale e forme di regolazione sociale
Secondo Brusco e Paba (1997), le connotazioni di un distretto
industriale sono:
- comunità di persone e imprese che opera in un mercato limitato
- economie esterne alle imprese ma interne al sistema
- ruolo rilevante delle piccole e medie imprese
- peso rilevante del mercato nazionale e internazionale
- condivisione di saperi e valori da parte della comunità
- cooperazione tra imprese
- cooperazione tra lavoratori e imprenditori
- cooperazione tra imprenditori e utenti
- elevata mobilità dal lavoro dipendente a non dipendente e vice-versa
- importante ruolo delle istituzioni locali nel promuovere i caratteri della
comunità
- servizi reali forniti da istituzioni locali
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- talune imprese producono per il mercato finale ; altre sono sub-fornitrici
- imprese di una filiera producono per altre filiere
A scopi di programmazione economica, anche il legislatore nell’intento
di dare un quadro normativo alle politiche di sviluppo e industrializzazione
su base distrettuale ha delegato alle Regioni, sulla base dei requisiti
proposti dal Ministero delle Attività Produttive (allora Ministero
dell’Industria), l’identificazione dei distretti industriali (legge 317/91). Questa
legge formula che un distretto è un’ "area territoriale locale caratterizzata da
elevata concentrazione di piccole imprese, con particolare riferimento al
rapporto tra la presenza delle imprese e la popolazione residente nonché
alla specializzazione produttiva dell'insieme delle imprese".
Nel 1993, con il decreto ministeriale attuativo della legge 317/91
vengono definiti i parametri per l’individuazione dei distretti. Essi sono:
- la configurazione territoriale di riferimento è quella dei SLL dell’Istat
(1991)
- area con diffusa vocazione industriale superiore alla media nazionale: la
quota di addetti nell'industria, rispetto al totale dell'economia locale,
deve essere superiore del 30% della media nazionale. L'indice di
industrializzazione manifatturiera del sistema locale deve quindi
raggiungere almeno il valore di 1.3. Al fine di agevolare le regioni del
Sud, si afferma che quando l'indice regionale di industrializzazione è
inferiore alla media nazionale si debba prendere il dato regionale (e non
quello nazionale) come punto di riferimento. Il motivo di questa clausola
è di volere ampliare la rete definitoria in modo tale da inserire più aree
meridionali tra quelle definite distretti e al fine di potere ottenere
eventuali sostegni economici previsti dalle leggi.
- L'area deve avere un indice di densità imprenditoriale (calcolato come
rapporto tra le unità locali dell'industria manifatturiera e la popolazione)
superiore alla media nazionale.
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- L'indice di specializzazione produttiva deve essere superiore alla media
nazionale del 30%. L'indice è dato dalla quota percentuale di
occupazione del settore manifatturiero sul totale degli addetti. Le regioni
devono individuare la specializzazione produttiva dominante dell'area
come aggregazione significativa di sezioni,sottosezioni, divisioni, gruppi
(della classificazione ISTAT delle attività produttive) per dare
consistenza ai fenomeni di filiera produttiva; questo permette una certa
discrezionalità del legislatore regionale nel costruire le filiere come
risultato dei settori collegati.
- Il peso occupazionale del settore dominante deve essere superiore al
30% dell'occupazione manifatturiera locale. In questo modo vengono
privilegiati i distretti mono-settoriali.
- La quota di addetti nelle piccole imprese del settore di specializzazione
deve superare il 50% del totale, evidenziando così i distretti con una
forte incidenza delle piccole imprese
Osservando questi parametri la regione Toscana, nel 1997, individuò
sette distretti che hanno beneficiato di un sostegno a programmi operativi.
Questi distretti sono:
- Lamporecchio (Calzature)
- Castelfiorentino (Abbigliamento)
- Empoli (Abbigliamento)
- Prato (Tessile)
- S. Croce Sull’Arno (Concia)
- Poggibonsi (Mobili)
- Sinalunga (Mobili)
Per l’Istituto Tagliacarne (1992), il distretto industriale è un: “sistema
interattivo di imprese (minori) spazialmente concentrate (operanti in
differenti fasi del ciclo produttivo) che interagisce con una determinata
popolazione (operai e non) su di un territorio ristretto.”