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oltre alla riduzione dei margini di interesse dovuta alla concorrenza, la rinnovata
forza dei circuiti mobiliari e lo spostamento della clientela su attività meno liquide e
più remunerative hanno avuto l’effetto di velocizzare il processo di
disintermediazione delle banche; la disintermediazione ha riguardato le imprese di
maggiori dimensioni che hanno la facoltà di rivolgersi direttamente al mercato dei
capitali e il conseguente deterioramento del portafoglio crediti porta a maggiore
attenzione al rischio. La riduzione della raccolta ha, in aggiunta, avuto come
risultato l’accentuazione di politiche aggressive di erogazione e non una maggiore
selettività degli impieghi; anche in questo caso l’attenzione al rischio di credito
deve essere più alta. La massimizzazione dei profitti è solo uno dei motivi
dell’interesse per lo sviluppo di modelli interni per il rischio di credito, l’altro va
ricercato nella necessità di adeguamento alla normativa internazionale, come su
detto.
Il lavoro è sostanzialmente diviso in due parti, una teorica, costituita dai capitoli 1,2
e 3 e l’altra applicativa, rappresentata dal capitolo 4. Il primo capitolo introduce il
concetto di rischio di credito e fornisce una panoramica degli approcci previsti dal
NSR sulla “Convergenza Internazionale della misurazione del capitale e dei
coefficienti regolamentari” per la sua quantificazione; si descrivono, cioè, gli
approcci IRB, di base e avanzati, e gli approcci standard per quantificare il rischio
di credito. In questa sezione si introducono, inoltre, le disposizioni della normativa
internazionale sulle attività al dettaglio e si illustrano le difficoltà di modellizzazione
del rischio di credito retail incontrate da procedure già in uso per altri tipi di
esposizioni creditizie (KMV, Credit Risk Plus).
Il secondo capitolo descrive le fasi di assegnazione del rating ai clienti retail,
distinguendo tra approcci bottom-up, basati sull’analisi individuale del debitore, e
approcci top-down, fondati sulla segmentazione della clientela sulla base di
generici fattori di rischio, e le fasi di quantificazione della PD per ciascuna classe di
rating. Si presentano i tre approcci previsti dal NSR per derivare le PD illustrando
vantaggi e limiti di ognuno di questi. Il terzo capitolo affronta il problema della
validazione degli approcci IRB da parte delle Autorità di Vigilanza e presenta
alcuni dei più diffusi test di validazione della capacità di un modello IRB di
distinguere tra debitori solventi e non e della capacità previsionale delle PD.
8
La seconda parte consiste nella implementazione per il portafoglio di esposizioni al
dettaglio di un istituto bancario italiano, il Credito Emiliano S.p.A, o Credem, di un
approccio A-IRB. Si descrivono le fasi di ripartizione dei clienti in classi di merito
creditizio (pool) e, per ognuna di queste, le procedure di quantificazione delle
probabilità di insolvenza dei debitori. L’attenzione del lavoro non è rivolta ai
parametri di rischio LGD, EAD e M. Particolare interesse è riservato alla
discussione di limiti e pregi delle scelte compiute da Credem ai fini della
validazione del modello di rating A-IRB.
Si precisa che il lavoro nasce da un’esperienza di stage semestrale presso l’ufficio
Global Risk Management di Credem.
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CAPITOLO 1
RISCHIO DI CREDITO E NORMATIVA INTERNAZIONALE
Il Nuovo Schema Regolamentare del giugno 2004 (NSR) sulla “Convergenza
Internazionale della misurazione del capitale e dei coefficienti regolamentari”
impone che gli istituti di credito detengano un patrimonio di vigilanza minimo
obbligatorio pari all’8% dell’attivo ponderato per il rischio di mercato, operativo e di
credito. Il primo capitolo introduce il concetto di rischio di credito, fornisce una
panoramica degli approcci per la sua quantificazione e per la definizione, secondo
la vigente normativa, del capitale regolamentare per le esposizioni creditizie al
dettaglio (retail).
1.1 Il rischio di credito
La banca è un’impresa che nella sua attività caratteristica sviluppa un’esperienza
specifica nella valutazione del merito di credito e nella gestione degli affidamenti, il
che la mette in condizione di svolgere un ruolo quasi unico nella selezione e
nell’allocazione delle risorse nel mercato del credito. E’ ormai nota l’esistenza di
asimmetrie informative che possono portare al fallimento del mercato per l’effetto
di una selezione avversa (adverse selection) degli affidamenti, cioè l’impossibilità
di valutare la qualità effettiva degli strumenti trattati
1
, ma anche maggiori rischi
derivanti da comportamenti opportunistici (moral hazard) da parte dell’affidato nel
corso della vita del prestito stesso; fattispecie, queste, che sono viste come
ostacoli al libero estrinsecarsi dei meccanismi di mercato, ma anche come
giustificazioni dell’esistenza e dell’operare degli intermediari.
1
In sostanza si accordano crediti a condizioni non proporzionate al rischio a cui ci si espone: in
presenza di condizioni troppo restrittive e tassi di credito eccessivamente alti, la banca corre il serio
pericolo di cedere i rischi più contenuti alla concorrenza più a buon mercato (perdita di clienti),
innalzando automaticamente il peso dei rischi insiti nel portafoglio crediti. Viceversa, se i tassi di
credito sono troppo modesti la banca appare appetibile agli occhi dei debitori della fascia di
solvibilità più bassa (clienti in perdita), con l’effetto di deteriorare ulteriormente la struttura del
portafoglio.
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Tutto ciò espone la banca al credit risk (rischio di credito), cioè al rischio che il
finanziato sia inadempiente o addirittura insolvente, con conseguente necessità di
misurare tale rischio con metodologie più o meno sofisticate che rientrano tra i
criteri di valutazione dei fidi. L’analisi del merito di credito della clientela richiede
però una notevole quantità di informazioni che di solito sono riservate, e solo
l’instaurazione di un reciproco rapporto di fiducia tra impresa e banca può
consentire a quest’ultima l’accesso a dati necessari alla valutazione, superando di
fatto i problemi legati all’esistenza di asimmetrie informative. I benefici derivanti da
un siffatto rapporto si estendono a entrambi i contraenti: per l’impresa infatti c’è la
possibilità di ottenere una stabilizzazione del costo del finanziamento, ovvero di
godere di finanziamenti a tassi inferiori, mentre per la banca si intravede un
migliore sfruttamento delle informazioni riservate. Come rovescio della medaglia,
le imprese si trovano ad affrontare però l’eterno dilemma tra la diffusione di
informazioni necessarie alla loro valutazione e le esigenze di competitività
aziendale, che invece suggeriscono di tenere una certa riservatezza per evitare di
favorire le aziende concorrenti.
Non c’è dubbio però che l’avvio di un rapporto privilegiato con gli istituti di credito è
particolarmente importante per le imprese di dimensioni minori, che solamente
tramite l'intervento della stessa hanno accesso al mercato dei capitali,
determinante per raccogliere finanziamenti a costi adeguati alle loro possibilità. Se,
infatti, le grandi imprese hanno la possibilità di agire autonomamente sui mercati
finanziari, e accedere direttamente alle opportunità di finanziamento, le imprese
più piccole, che non hanno tale capacità, devono necessariamente rivolgersi al
mercato finanziario in forma mediata.
Il concetto di rischio di credito, che a prima vista potrebbe sembrare scontato, in
realtà racchiude in se diversi significati che devono essere analizzati e chiariti.
Secondo una definizione ormai condivisa nel mondo accademico per rischio di
credito s’intende la possibilità che una variazione inattesa del merito creditizio di
una controparte, nei confronti della quale esiste un’esposizione, generi una
corrispondente variazione inattesa del valore di mercato della posizione creditoria.
Questo porta ad alcune riflessioni importanti: innanzitutto rischio di credito non
significa solo possibilità di insolvenza di una controparte (credit default risk), in
quanto anche il semplice deterioramento del merito creditizio di questa, che
11
determina una riduzione del valore di mercato della posizione creditoria detenuta,
deve già considerarsi una manifestazione del rischio predetto (credit spread risk).
A sua volta le componenti del rischio di credito sono essenzialmente due: la
perdita attesa (o Expected loss, EL) e la perdita inattesa (o Unexpected loss, UL).
Evidentemente assume rilevanza solo la componente inattesa del rischio di
credito, ossia deve verificarsi un deterioramento della qualità del credito che non
era stato previsto; questo perché le perdite attese sono già comprese negli
accantonamenti prudenziali e nella determinazione del tasso d’interesse per i titoli
di debito o per i prestiti, nell’ambito di quella attività di pricing che deve riflettere in
modo adeguato il profilo di rischio di un impiego. Proprio in quanto stimata a priori
quindi, la perdita attesa non costituisce il vero rischio di un’esposizione creditizia,
ma si configura piuttosto come un elemento di costo per così dire “fisiologico”,
incorporato già nelle aspettative dell’investitore. In altri termini, essa consente di
tener conto del rischio medio di insolvenza della controparte, che viene
quantificato, nella determinazione del pricing, da uno spread che misura il premio
rispetto ad un investimento privo di rischio. Analiticamente per perdita attesa
s’intende il valor medio della perdita che una banca si attende di subire con
riferimento ad un credito o portafoglio di crediti, in un certo arco temporale; mentre
la perdita inattesa non è altro che il grado di variabilità del tasso di perdita intorno
al proprio valore atteso. Quest’ultima, quindi, equivale alla possibilità che la perdita
effettiva risulti, ex post, superiore alla perdita attesa stimata ex ante. La EL è
espressa come funzione di tre elementi:
a) La probabilità di insolvenza del debitore (rischio insolvenza),
b) La perdita in caso di insolvenza (rischio esposizione),
c) L’esposizione al momento dell’insolvenza (rischio di recupero).
Le due componenti del rischio di credito quindi, non solo rappresentano aspetti
diversi della manifestazione delle perdite, ma hanno anche implicazioni diverse
sulle politiche di bilancio della banca: infatti, come abbiamo visto, la perdita attesa
serve a determinare il livello adeguato degli accantonamenti in conto economico,
mentre la componente inattesa ha il compito principale di garantire un adeguato
livello di patrimonializzazione dell’istituzione creditizia (il punto è oggetto di
approfondimento nel §1.2 e nel §1.3.1). Oltre alla suddivisione tra perdita attesa e
12
inattesa e alla identificazione dei tre elementi di rischio di cui sopra, è interessante
notare l’esistenza di un’altra determinante del rischio di credito: il rischio di
concentrazione, ossia il rischio che un portafoglio di crediti eccessivamente
orientato verso pochi grandi prestiti, o verso determinati settori industriali, risulti
esposto a grandi oscillazioni di valore rispetto a quello atteso.
La misurazione e la gestione del rischio di credito non sono purtroppo operazioni
agevoli né tanto meno intuitive, ed è ben nota la scarsità di serie storiche a cui le
istituzioni creditizie italiane dovrebbero far riferimento per costruire modelli previsivi
attendibili; tra i vari motivi, bisogna ricordare in particolare la difficoltà di stimare le
correlazioni esistenti all’interno di un portafoglio di crediti perché, a differenza delle
correlazioni tra i vari strumenti finanziari (generalmente liquidi), i crediti sono
tendenzialmente illiquidi e caratterizzati da frammentarie serie storiche (si veda per
approfondimenti il §1.4).
La rinnovata attenzione per il rischio di credito nella seconda metà degli anni
Novanta coincide, paradossalmente, con un periodo storico in cui i tassi di
insolvenza delle imprese che si rivolgono al mercato dei capitali calano; non fa
eccezione, in tal senso, il sistema bancario italiano, che, se nei primi anni Novanta
aveva registrato un deterioramento dei portafogli prestiti, sul volgere del decennio
conosce un ridimensionamento delle partite in sofferenza. Il paradosso a ben
vedere è solo di facciata e i motivi di una spiccata attualità della gestione del
rischio di credito sono palesi: emergono nuove opportunità per la gestione del
rischio e si sviluppano mercati secondari dei prestiti bancari, le pressioni esercitate
dalla concorrenza sono crescenti, le Autorità di vigilanza premono per la stabilità
del sistema bancario.
Il diffondersi dei derivati creditizi (Credit Derivatives) e lo sviluppo dei mercati
secondari dei prestiti (Loan Sales), oltre a dare liquidità ad attività tradizionalmente
non negoziabili, riescono a scindere la funzione di originator di un credito, legata
saldamente alla relazione con la clientela, dalla necessità di detenere i crediti e i
relativi rischi in bilancio fino alla naturale scadenza. A ciò si aggiunga che nella
seconda metà degli anni Novanta l’attività di intermediazione tradizionale di
raccolta e di erogazione del credito, remunerata con flussi di interessi, si è già
orientata verso un’attività di erogazione di servizi remunerata con le commissioni;
tra i servizi la gestione del rischio assume particolare rilievo.
13
Il secondo elemento che ha determinato una spiccata attenzione per il rischio di
credito va ricercato nella crescente concorrenza internazionale tra mercati
finanziari e circuiti creditizi, cui hanno contribuito le politiche di liberalizzazione di
circolazione dei capitali; la riduzione dei margini di interesse dovuta alla
concorrenza, la rinnovata forza dei circuiti mobiliari e lo spostamento della clientela
su attività meno liquide e più remunerative hanno avuto l’effetto di velocizzare il
processo di disintermediazione delle banche. Le conseguenze sono di due tipi:
1. La disintermediazione riguarda le imprese di maggiori dimensioni che
hanno la facoltà di rivolgersi direttamente al mercato dei capitali, ne
consegue deterioramento del portafoglio crediti e maggiore attenzione
al rischio.
2. La riduzione della raccolta ha avuto come risultato l’accentuazione di
politiche aggressive di erogazione e non una maggiore selettività degli
impieghi; anche in questo caso l’attenzione al rischio di credito deve
essere più alta.
Terzo elemento giustificativo della attualità della misurazione e gestione del rischio
di credito va cercato negli obiettivi di stabilità sistemica che le Autorità di vigilanza
nazionali e internazionali si sono prefissati, obiettivi di cui il risk management è
componente essenziale (§1.2).
1.2 Il Nuovo “Accordo” di Basilea
Il Nuovo Schema Regolamentare del giugno 2004 (NSR) sulla “Convergenza
Internazionale della misurazione del capitale e dei coefficienti regolamentari”,
meglio noto come Basilea 2, la cui entrata in vigore è prevista per fine 2006,
intende ottimizzare l’attuale sistema di valutazione dei rischi bancari e si adegua a
scenari finanziari che riflettono tempi ormai maturi per il raggiungimento di obiettivi
di stabilità sistemica. Con l'Accordo del 1988 (noto come Basilea 1) si riconosce al
capitale proprio un ruolo strategico nella gestione della banca, in ragione del suo
contributo all’assicurarne equilibrio finanziario, e si individuano i coefficienti
patrimoniali minimi obbligatori per il rischio creditizio quali strumenti per il
14
monitoraggio della capital adequacy. L'introduzione di questi ultimi, oltre che
soddisfare obiettivi di solidità del sistema bancario, era finalizzata a garantire un
quadro competitivo internazionale uniforme: sino al recepimento dell'Accordo del
1988, la disomogeneità dei criteri per disciplinare l'adeguatezza patrimoniale
adottati dai diversi Paesi finivano per creare le premesse necessarie all'evoluzione
di sistemi concorrenziali difformi. Le banche giapponesi, per esempio, operavano
con leve finanziarie più elevate rispetto a quelle degli istituti europei, non essendo
sottoposte ad alcun requisito patrimoniale.
Nel tempo la regolamentazione del 1988 ha mostrato numerosi limiti, che hanno
ispirato il processo di revisione: il Primo Accordo prevedeva uno schema di
coefficienti regolamentari che faceva riferimento al solo rischio di credito, si dovrà
attendere il 1996 affinché con un emendamento venga introdotta nella disciplina
della capital adequacy la quantificazione dei rischi di mercato; l'adozione di criteri
standard per il calcolo del patrimonio di vigilanza, che non consideravano a livello
nazionale diversità contabili, fiscali, legali e delle strutture bancarie, finiva, inoltre,
per non realizzare l'obiettivo di uniformità concorrenziale internazionale che
Basilea 1 implicitamente si proponeva; la griglia di ponderazione per il rischio
creditizio aveva classi di ponderazione troppo ampie che favorivano l'assunzione
di impieghi più rischiosi a parità di carico regolamentare; venivano trascurate le
garanzie accessorie, la durata delle operazioni e i derivati creditizi.
Alla luce dei punti di debolezza di Basilea 1 nascono il documento consultativo per
un nuovo accordo nel 1999, prima, una terza versione nell'aprile 2003, poi, fino
alla pubblicazione del NSR del giugno 2004, che mira a garantire un’allocazione
ottimale del capitale bancario a fronte dei rischi assunti dall'ente creditizio. Il NSR
parte dalla premessa che la stabilità del sistema finanziario possa essere il
risultato della interazione di una efficiente gestione del rischio, una attenta attività
di vigilanza e il funzionamento della disciplina di mercato e da tale premessa fa
derivare la definizione di tre pilastri:
Pilastro 1: Requisiti minimi di capitale.
Pilastro 2: Processo di controllo a cura delle Banche Centrali (BC).
Pilastro 3: Disciplina di mercato.
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1° PILASTRO: Requisiti minimi di capitale
Il Nuovo Schema Regolamentare proposto è diverso da quello vigente; è, tuttavia,
opportuno indicare gli elementi rimasti invariati. In Basilea 2 risultano immutate le
regole che definiscono il numeratore del rapporto patrimoniale, ossia il patrimonio
ai fini di vigilanza, così come non è cambiato il coefficiente di patrimonializzazione
minimo richiesto, l’8% del totale delle attività ponderate per il rischio
2
. Con
riferimento invece alla determinazione di queste ultime l'Attuale Accordo disciplina
il rischio di credito e di mercato
3
, ma non quello operativo, introdotto da Basilea2 e
definito come " il rischio di perdite derivante da fallimenti o inadeguatezza dei
processi interni, dovuti sia a risorse umane, sia a sistemi tecnologici, oppure
derivante da eventi esterni".
Nel NRS il calcolo del requisito patrimoniale minimo si basa sulla formula che
rapporta il patrimonio di vigilanza alla somma dei requisiti patrimoniali per i rischi di
credito, di mercato e operativi:
oRPoperativRPmercatoRWAcredito
VigilanzadiPatrimonio
5.12
%8 τ (1.1)
con:
RWAcredito : Risk Wheight Asset, attività ponderate per il rischio di credito.
RP : Requisito Patrimoniale.
L'opera di revisione di Basilea 2 nulla modifica per il rischio di mercato rispetto alla
disciplina del 1996, che consentiva alle banche di utilizzare criteri interni per la
misurazione del rischio e per la definizione del carico regolamentare, ma interviene
sulle modalità di calcolo del rischio di credito e operativo. Il presente lavoro pone
2
L’8% significa che l’ammontare dei crediti posto al denominatore del rapporto patrimoniale non
può superare 12,5 volte il patrimonio (Formula 1.1).
3
Il rischio di mercato aveva formato oggetto, nel 1996, dell’Emendamento dell’Accordo sui requisiti
patrimoniali del Comitato di Basilea, per questo il nuovo Accordo (Schema Regolamentare 2004)
prevede di lasciarlo inalterato.
16
l'attenzione sul rischio di credito, ma si riporta per completezza una breve
argomentazione sulle nuove prassi per la misurazione del rischio operativo.
In tutti e due i casi, la principale innovazione sta nell’introduzione di tre distinte
opzioni di calcolo per il rischio di credito e di altre tre per il rischio operativo. Sia
per quest’ultimo, sia per quello di credito, sono previsti tre metodi con crescente
attenzione e sensibilità al rischio proprio per consentire a banche e autorità di
vigilanza di scegliere quello ritenuto più appropriato al processo di sviluppo
dell’operatività bancaria e dell’infrastruttura di mercato.
I tre metodi sono:
Rischio di credito
Rischio operativo
Metodo standard
Metodo dell’indicatore semplice (Basic Indicator Approach)
Metodo IRB di base
Metodo standard (Standardized Approach)
Metodo IRB avanzato
Metodi avanzati di misurazione (Advanced Measurement Approaches)
Metodo standard per il rischio di credito
Tale metodo è simile a quello dell’Accordo attuale: le banche devono suddividere
le loro esposizioni creditizie in categorie prudenziali basate sulle caratteristiche
palesi degli investimenti, come per esempio crediti verso imprese o mutui su
immobili residenziali. Il metodo standard stabilisce ponderazioni fisse di rischio,
corrispondenti a ciascuna categoria prudenziale, e si avvale delle valutazioni
esterne del merito di credito al fine di rafforzare la sensibilità al rischio. In ogni
singolo paese, spetta alle autorità di vigilanza nazionali determinare se una società
esterna di rating (ECAI, External Credit Assesment Istitution) presenti i requisiti
necessari affinché i rating prodotti siano usati nel metodo standard.