4
società e la cultura siano riuscite ad assorbire. E’ proprio questo dunque il punto che va
affrontato.
Non intendo dire ovviamente che la ricerca tecnologica sia arrivata a conclusione su
questo versante, nè tanto meno che possano dirsi risolti, ad esempio, i problemi relativi alla
testualità a cui spingono i nuovi mezzi di comunicazione. Il punto centrale però, intorno al quale
si sviluppano i diversi temi specifici delle varie discipline interessate - dalla semiotica
all’informatica alla psicologia - è quello di definire complessivamente il contesto di cui questi
strumenti entreranno a far parte. Gli ambienti complessi - come quelli di apprendimento, di
lavoro o le stesse città - verranno ridisegnati dall’introduzione e dalla effettiva pratica d’uso dei
nuovi media, in un modo che non è prevedibile a priori e che non sarà semplicemente quello
indicato dai costruttori. Una molteplicità di fattori, una rete fitta e complessa di interazioni
costruirà una realtà nuova in cui questi media saranno fondanti.
Ma quali strumenti abbiamo a disposizione per interpretare i cambiamenti che
probabilmente presto interesseranno la quotidianità di tutti e non più soltanto i laboratori e i
centri di ricerca specializzati?
Il determinismo tecnologico - secondo cui le innovazioni generano automaticamente ed
autonomamente gli equilibri sociopsicologici degli ambienti in cui vengono introdotte - e,
all’opposto, una visione esclusivamente funzionale - per cui i nuovi media servirebbero solo a
svolgere meglio i compiti per i quali vengono concepiti, senza provocare mutamenti sostanziali
nelle persone e nei gruppi che con essi vengono a contatto - sembrano impostazioni teoriche
inadeguate per comprendere il mondo dei e con i nuovi media, e meno che mai per
progettarlo.
I concetti che possono essere mutuati dalle diverse discipline, tarati su oggetti differenti,
potranno esserci utili ma a patto che vengano in qualche modo integrati.
Lo studio dell’interazione uomo-macchina deve definire meglio i suoi strumenti; questo
sarà difficile poiché si rivolge non ad un oggetto, ma ad una serie di relazioni che, appunto
perché tali, non possono essere facilmente isolate dalla situazione in cui si sviluppano.
5
Capitolo 1
I Nuovi Media e la questione della scelta
Sarà il caso di cominciare con un tentativo di definizione dei nuovi media per poi individuare
alcune delle loro caratteristiche salienti da cui è possibile derivare le problematiche che
verranno trattate in seguito. Chiediamoci allora: che cosa accomuna il fax, la rete Internet, i cd-
rom, il satellite, il telefono cellulare? A cosa è dovuto l’aggettivo nuovi? Perché infine queste
tecnologie spingono a delle riflessioni originali nell’ambito degli studi sulla comunicazione, su
cui già si è detto e scritto moltissimo?
Non si tratta evidentemente di nuovi oggetti. Quasi tutti i new media infatti prevedono
l’utilizzo di tecnologie esistenti da prima che venisse coniata l’espressione. Il telefono, come il
computer o la televisione, non sono delle novità.
L’aggettivo nuovi che caratterizza questi media è dovuto infatti alla possibilità di stabilire
tra loro delle connessioni. La parola chiave dunque è integrazione. La differenza, che esiste tra
questi media e quelli tradizionali, consiste nell’aver connesso tecnologie esistenti che
provenivano da mondi differenti e rispondevano ad esigenze differenti. L’integrazione ci
permette oggi di fare cose che ci erano impossibili prima, anche se possedevamo già gli
strumenti che utilizziamo ora.
Tutto ciò non sarebbe stato possibile se gli oggetti che sono stati in qualche modo
collegati avessero continuato a parlare linguaggi differenti e incompatibili.
«L’invenzione fondamentale, che ha prodotto rimarchevoli conseguenze tanto nel campo
della diffusione-distribuzione, quanto in quello della costruzione dei segni e dei simboli coinvolti
nei diversi linguaggi e nei relativi messaggi, è stata senza dubbio quella della trasformazione
della forma del segnale dal suo tradizionale modello analogico in quello numerico1». Quando
tutti gli strumenti interessati hanno cominciato a parlare la lingua netta e scarna fatta
esclusivamente da 0/1 è stato possibile creare le connessioni su cui si basano le nuove
tecnologie della comunicazione. Il codice binario diventa quindi il fulcro di questa integrazione,
tanto da far assumere al computer un ruolo di regia del processo che ha dato origine ai nuovi
media. Il digitale è dunque il tratto fondante ed unificatore dei nuovi media e,
contemporaneamente, il personal computer diviene lo strumento con cui, materialmente, le
persone comunicano tra loro o con la macchina stessa, nel caso di nuovi media off line. Il
calcolatore assume così una funzione di meta-medium che sta ad indicare il doppio ruolo che
esso gioca. Questa definizione descrive da un lato «la capacità del computer di contaminare
altri strumenti tecnologici, dall’altro segnala l’ulteriorità del calcolatore, il suo essere in qualche
1G. Bettetini Tecnologia e comunicazione in G. Bettetini, F. Colombo (a cura di) Le nuove tecnologia della comunicazione
Bompiani 1993, p.13.
6
modo oltre gli altri mezzi (di comunicazione), e quindi anche la sua capacità di metterne in
evidenza gli elementi caratteristici da una posizione privilegiata2».
Ma cosa è venuto fuori da tutto ciò? Quale stile di comunicazione viene introdotto dalle
caratteristiche tecnologiche dei nuovi media? Le conseguenze di maggiore portata
probabilmente sono due: la multimedialità e l’interattività. La multimedialità si riferisce alla
possibilità di integrare diversi codici e produrre in questo modo oggetti comunicativi in cui
coesistono e si contaminano a vicenda immagini fisse e in movimento, testi scritti e suoni. Essa
si realizza grazie alla possibilità di ricondurre tutte queste espressioni comunicative ad una
serie di sequenze binarie lette e manipolate dal computer.
L’altro tratto cruciale della comunicazione plasmata dai nuovi media è l’interattività. Con
questo termine si fa riferimento al fatto che tutti i soggetti partecipanti alla comunicazione
possono intervenire direttamente nella costruzione del testo comunicativo, in un tempo
brevissimo, definito “tempo reale”, che convenzionalmente è quantificato in due secondi.
La comunicazione interattiva è una comunicazione pluridirezionale, in cui le figure
dell’emittente e del ricevente, così nettamente distinte nei media di massa tradizionali, finiscono
per perdere una fisionomia distinta dei rispettivi ruoli, avvicinandosi al modello di
comunicazione faccia a faccia3.
Non c’è più insomma una fonte del messaggio che confeziona il testo nella sua interezza,
una volta per tutte, prevedendo e formattando il tipo, le forme e i tempi della fruizione. Il
ricevente partecipa attivamente alla costruzione4 del testo via via che la comunicazione si
sviluppa. Questo significa che il destinatario recupera un notevole potere nel processo ai danni
dell’emittente.
Il ruolo attivo che i nuovi media attribuiscono al fruitore può essere sintetizzato da quella
che qui viene definita come questione della scelta.
Il destinatario in questo caso può, deve scegliere come interagire con il testo alla cui
stesura egli collabora. Senza scelta da parte dell’utente la comunicazione realizzata dalle nuove
tecnologie non funziona, non si attua.
Il ruolo attivo, necessariamente attivo, che il fruitore dei nuovi media gioca consiste
quindi non solo in delle conquiste - un miglioramento di ruolo e di status rispetto al tradizionale
lettore o telespettatore - ma anche nella responsabilità, nel rischio e nella riflessione che il
dover operare delle scelte generalmente comporta. Eccoci dunque al punto intorno a cui è
incentrata tutta questa ricerca.
Qual è il soggetto che la comunicazione interattiva contribuisce a creare? Come si
comporta il destinatario rispetto alle nuove opportunità che questi mezzi gli offrono?
2F. Colombo La comunicazione sintetica in G. Bettetini, F. Colombo (a cura di) Le nuove tecnologia della comunicazione
Bompiani 1993, p. 266.
3La fonte da cui è tratta questa definizione di “interattività” è ancora G. Bettetini Tecnologia e comunicazione in G.
Bettetini, F. Colombo (a cura di) Le nuove tecnologia della comunicazione Bompiani 1993, p.15 - 16.
4Un intervento attivo del destinatario si verifica anche nella fruizione dei testi tradizionali, come dimostrano le
riflessioni sulla cooperazione testuale e sulla neotelevisione.
7
La possibilità di partecipare alla comunicazione in modo attivo, presumibilmente,
svilupperà delle pratiche effettive e simboliche che non sono automaticamente deducibili dalla
costatazione della maggiore libertà che viene assegnata ai fruitori. La comunicazione
pluridirezionale creerà probabilmente lo spazio per interazioni che non potranno essere
codificate e previste in modo da costruire una sorta di idealtipo di utente. Il rapporto con i nuovi
media e con gli ambienti che essi modificheranno e da cui insieme verranno modificati,
vedranno un fruitore che è assai più sfuggente di quanto oggi possano essere i destinatari dei
messaggi veicolati dai mezzi di comunicazione di massa.
Di questo soggetto utente per ora non si conosce quasi nulla, se non che, molto
probabilmente, sarà difficile da fissare in canoni generali. Vale la pena allora di analizzare
diversi processi di fruizione reale dei nuovi media per poi tentare di disegnare un quadro
complessivo delle pratiche di comunicazione che essi vanno ad istituire. In questa prospettiva di
ricerca, l’ottica psicologica è senza dubbio fondamentale per arrivare a comprendere il
significato5 delle innovazioni apportate dalle nuove tecnologie della comunicazione.
Il riequilibrio tra emittente e ricevente ha anche delle implicazioni culturali più ampie di
quelle già notevoli che esistono nel campo della comunicazione. In termini più generali infatti,
può essere pensato come un riequilibrio tra l’individuo e le strutture di socializzazione. Non si
tratterebbe, nemmeno in questa ottica, di limitarsi a decantare la rivincita del singolo nei
confronti delle strutture sociali e culturali. I new media spingono invece a delineare una nuova
antropologia che superi quindi l’ambito degli studi della comunicazione. Provando ad individuare
i tratti di questa nuova antropologia si potranno riscontrare i nessi con la questione
generazionale a cui ho accennato sopra e che sarà chiarita meglio in seguito.
Una nuova antropologia
Sarebbe prima di tutto il caso di chiedersi se “antropologia” sia il termine più adatto per
provare ad interpretare lo scenario che i nuovi media tendono a disegnare davanti ai nostri
occhi. Non si tratta infatti di costruire un discorso intorno all’uomo, ma di sforzarsi di concepire
delle entità complesse in cui le tecnologie, l’uomo - le sue attività cognitive e sociali - e gli
ambienti si contaminano fino a diventare inscindibili, al punto che uno studio che volesse
scomporre queste entità nelle sue componenti finirebbe per dissolvere quei legami che ne
costituiscono la caratteristica essenziale e fondante.
5
Il tema del significato è di recente tornato all’attenzione degli psicologi grazie al saggio di J. Bruner La ricerca del
significato Bollati Boringhieri 1992 e al tentativo di definizione di una “ecologia cognitiva” di cui parla P. Levy -
nell’ambito di una antropologia del cyberspazio - in P. Levy L’intelligenza collettiva Feltrinelli 1996.
8
In questo caso dunque “antropologia” indicherà la dimensione dell’uomo in rapporto con
ciò che è fuori di lui. Si tratta, in altri termini, di un percorso da seguire nell’ambito della
psicologia culturale6, con particolare riferimento ai media della comunicazione interattiva.
Le identità, vale a dire la produzione interazionale di un sè, collettivo e individuale,
vengono costruite sulla base di visioni del mondo mutuate da universi simbolici, linguaggi,
agenzie di socializzazione che sono al di sopra dell’individuo e quindi gli forniscono gli strumenti
con cui interpretare la realtà e ricercare un equilibrio mediato ma sostanzialmente stabile con
essa.
Tenere insieme le esperienze che direttamente o indirettamente viviamo, trovare un
senso al tutto e individuare il nostro posto nel mondo, sapere cosa e come fare per sentirci
presenti e partecipi non è certamente un qualcosa di automatico e naturale. A ciò che si chiama
cultura spetta infatti il compito di orientarci nel marasma in cui veniamo gettati.
Il filo conduttore degli eventi in grado di spiegarceli, non perché ce ne sveli un senso
oggettivo e nascosto che sta sotto le esperienze comuni, ma perché crea esso stesso un senso
nel momento in cui viene accettato e condiviso come criterio di interpretazione della reltà, ha
avuto, per così dire, diverse edizioni nella storia.
Lyotard ha definito “metanarrazioni”7 quei grandi paradigmi che hanno fornito un quadro
d’insieme essenziale per la faticosa attività di orientamento e che hanno indicato una direzione
della storia fondando così l’idea moderna di progresso. Sembra che la condizione che viviamo
ora sia caratterizzata dal fatto che nessuna di queste grandi narrazioni sia più sufficientemente
legittimata da essere in grado di aiutarci nella costruzione di un significato delle nostre
esperienze. «Nella società e nella cultura contemporanee, società postindustriale, cultura
postmoderna, il problema della legittimazione si pone diversamente. La grande narrazione ha
perso credibilità, indipendentemente dalle modalità di unificazione che le vengono attribuite: sia
che si tratti di racconto speculativo, sia di racconto emancipativo»8.
La postmodernità è una condizione che sebbene affondi le sue radici in un periodo
lontano dal nostro - Gianni Vattimo9 la mette in relazione con la “presa di congedo dalla
modernità” di Nietzsche e di Heidegger - è divenuta più evidente, anche in funzione
dell’egemonia dei mass-media, e sempre più spesso oggetto di riflessioni filosofiche negli ultimi
decenni. L’attenzione verso queste tematiche quindi - devo sottolinearlo prima che si abbia di
me l’impressione di una specie di filosofo della domenica - mi deriva dall’appartenenza ad una
certa generazione più che da una riflessione teorica basata su determinate letture.
6
Il riferimento recente è ancora a J. Bruner La ricerca del significato Bollati Boringhieri 1992. Ma la prospettiva di
un’analisi psicologica rivolta alla definizione del soggetto in relazione al mondo in cui vive, appartiene alla scuola
storico-culturale che si è sviluppata in Russia nei primi decenni di questo secolo intorno alla figura di L. Vigotskij.
7
JF. Lyotard La condizione postmoderna Feltrinelli, 1981
8
Ibidem, p. 69
9G. Vattimo La fine della modernità Garzanti 1985
9
Vedrò di farmi capire meglio con un esempio. Prendiamo la guerra nella ex Jugoslavia e
la guerra in Vietnam. I due avvenimenti drammatici più rappresentativi vissuti, entrambi
indirettamente, da chi ha vent’anni e da chi li aveva vent’anni fa.
La differenza nel tipo di esperienza che le due generazioni hanno fatto di questi eventi
consiste, fondamentalmente, nel fatto che la guerra in Vietnam era in qualche modo
interpretabile, se ne poteva trovare una ragione.
Per quanto assurda e crudele come tutte le guerre, essa rispondeva a dei canoni
interpretativi che funzionavano in quel momento. Anzi, probabilmente è più giusto dire il
contrario e cioè che quei canoni rispondevano ai tratti di quel conflitto perché erano in grado di
ordinare, mettere a fuoco le vicende, meglio le rappresentazioni delle vicende - le notizie - che
arrivavano dal Sud-Est dell’Asia.
Chiunque insomma fosse venuto a conoscenza della guerra poteva spiegarsela
inquadrandola nel panorama dello scontro Est-Ovest, eventualmente schierarsi da una parte o
dall’altra e, in questo modo, sentirsi in qualche misura partecipe di ciò che accadeva dall’altra
parte del mondo. Ecco quindi che le vicende del Vietnam contribuivano a costruire o
confermare le identità di coloro che entravano in contatto con essa in maniera mediata.
Della guerra nella ex Jugoslavia invece che cosa possiamo dire? Di quale criterio
avremmo mai potuto avvalerci per capire il perché di quei massacri? Più banalmente: chi erano
i “buoni” e chi i “cattivi”? E noi come avremmo potuto intervenire, se non decidendo di cambiare
o meno canale?
La tragedia dei Balcani dunque è anch’essa intervenuta nelle nostre identità e lo ha fatto
evidenziando quanto poco ci resti di quegli strumenti che in un modo o nell’altro ci sono serviti
per interpretare il mondo e dare una consistenza unitaria al discorso storico. «La “dissoluzione”
della storia, nei vari sensi che possiamo attribuire a questa espressione, è del resto
probabilmente il carattere che più chiaramente contraddistingue la storia contemporanea
rispetto alla storia “moderna”. La contemporaneità è quell’epoca in cui, mentre con il
perfezionamento degli strumenti di raccolta e di trasmissione del’informazione, sarebbe ormai
possibile realizzare una “storia universale”, proprio questa è divenuta impossibile. Ciò dipende
dal fatto che il mondo dei media diffusi su tutto il pianeta è anche il mondo in cui i “centri” di
storia - le potenze capaci di raccogliere e trasmettere le informazioni in base a una visione
unitaria che è anche sempre il risultato di scelte politiche - si sono moltiplicati. Ma anche
questo, forse, non indica solo che non è possibile una “storia universale” come storiografia,
come historia rerum; bensì forse che sono venute meno le stesse condizioni per una storia
universale come effettivo corso degli eventi, come res10».
La crisi di questi strumenti interpretativi - la “dissoluzione della storia” - ci lascia in una
condizione simile a quella di un miope che ha perso i suoi occhiali e per questo è costretto a
10
Ibidem, pp. 17- 18
10
procedere a tentoni poiché intorno a lui non vede che macchie sfocate da non riconoscere
nemmeno gli ambienti e le cose che prima gli erano più familiari.
Dico subito che non mi interessa assolutamente entrare nel merito storico e politico di
quei conflitti. Meno ancora mi interessa giudicare se sia o meno conveniente affidarsi a dei
paradigmi ideologici per valutare la realtà e reagire ad essa. Quello che intendo sottolineare,
attraverso gli esempi che ho appena fatto, è la difficoltà cognitiva e sociale di chi deve
continuare ad interpretare il mondo senza però poter poggiare su identità, simboli e linguaggi
coerenti preesistenti. Questa difficoltà è senza dubbio generale, ma riguarda segnatamente le
nuove generazioni. Noi dobbiamo disegnare una mappa di quello che ci succede intorno
procedendo a mano libera, senza linee guida poiché non abbiamo fatto in tempo a mutuare
quelle visioni del mondo che hanno interessato le generazioni passate.
Naturalmente c’ è un aspetto positivo in questa condizione: la possibilità di non
dogmatizzare determinati criteri di interpretazione e quindi di sviluppare un senso critico
maggiore. Ma anche tenendo presente quest’ultimo punto, il disorientamento cognitivo e sociale
resta. Il bisogno di identificazione si scontra con la difficoltà di aderire in qualche modo ad un
universo simbolico e culturale che appare quanto mai frastagliato e composito. Le strutture di
socializzazione tradizionali hanno smarrito gran parte della loro capacità di attivare
un’identificazione collettiva.
I mezzi di comunicazione di massa, in questo contesto, sono riusciti a raggiungere
l’egemonia e a diventare una struttura di socializzazione molto potente fino a porsi come
l’interfaccia principale delle persone con il mondo.
La realtà si è ridotta ad essere quello che i mass-media ci mostrano; quella di cui
facciamo esperienza è sempre più una realtà mediata.
Le caratteristiche di questo modo di strutturare l’esperienza sembrano essere
paradossali. I mass-media, la televisione in particolare, insistono sul mostrarci il mondo come
esso è, riducendo il più possibile l’aspetto di costruzione, di artefatto. L’ambizione della diretta
è di esibire una realtà “naturale”, sulla quale cioè non si è intervenuti. I media di massa,
segnatamente la TV, non discorrono sull’esistente, semplicemente lo riportano. Tutto ciò però
si scontra con l’effettiva produzione dei testi veicolati da questi strumenti. Le operazioni di
montaggio e di selezione fanno sì che la presentazione im-mediata della realtà sia, al contrario,
il frutto di processi di elaborazione che non sono immediatamente evidenti al fruitore. « I media
non comunicano la realtà in quanto tale, ma rappresentazioni di essa, cioè versioni incomplete
e più o meno ideologicamente connotate. La parzialità ed incompletezza è più evidente nel
campo narrativo, dove la finzione è esplicita (ed attesa e ammessa - ma non per questo priva
di conseguenze), ma sussiste anche nell’ambito informativo/giornalistico, dove non è altrettanto
nota, attesa e soprattutto gradita ai fruitori [...] Date tali condizioni è difficilmente negabile che
i mass-media contribuiscono a formare quella che Shiller chiama una consapevolezza
11
prefabbricata11». Recentemente sono state pubblicate delle riflessioni di Jacques Derrida su
questo tema della costruzione mediale dell’oggetto della nostra esperienza che il filosofo
francese indica con il termine artefactualité: « l’actualité, précisément, est faite: pour savoir
de quoi elle est faite, il n’en faut pas moins savoir aussi qu’elle est faite. Elle n’est pas donnée
mais activement produite, criblée, investie, performativement interprétée par nombre de
dispositifs factices ou artificiels, hiérarchisants et sélectifs, toujours au service de forces et
d’intérets que les “sujets” et les agents (producteurs et consommateurs d’actualité - ce sont
aussi parfois des “philosophes” et toujours des interprètes) ne perçoivent jamais assez. Si
singulière, irréductible, tetue, douloureuse ou tragique que reste la “realité” à laquelle se réfère
l’”actualité”, celle-ci nous arrive à travers une facture fictionelle. On ne le peut analyser qu’au
prix d’un travail de résistance, de contre-interprétation vigilante, etc.»12.
I testi dei mass-media sono dunque costruiti a priori, prima cioè che il processo
comunicativo si attui. Considerando ora l’importanza che le produzioni mediali, così costruite,
hanno per l’attività cognitiva e le pratiche sociali delle persone - in quanto costituiscono la
principale modalità di esperienza del mondo - resta evidente il ruolo giocato dai media di
massa nel fornire strumenti di interpretazione della realtà, sebbene il loro funzionamento sia
diverso da quello di altre strutture di socializzazione. Queste ultime infatti hanno fondato
generalmente la loro legittimazione su un meta-criterio di base: l’ideologia, la religione ecc. Si
trattava comunque di un meta-discorso sulla realtà che quindi la trascendeva. La legittimazione
che regge i mass-media invece non deriva da un discorso sulla realtà, ma dalla capacità di
riportarla con la minima differenza possibile - intendendo per differenza sia cambiamento che
rimando temporale.
In ogni caso, sia con le strutture di socializzazione tradizionali che con i mass-media, le
produzioni culturali erano sostanzialmente confezionate, dunque la realtà era presentata con
una sua coerenza già dall’inizio.
Mi rendo conto di averla presa un po' alla lontana, ma è solo da queste considerazioni
che si può partire per comprendere le trasformazioni che avranno origine dai nuovi media.
Vengo ora al punto “antropologico” della questione.
Le strutture di socializzazione - mass-media compresi - hanno un ruolo fondamentale
nella costruzione delle identità singole e collettive degli individui. D’altra parte la novità dei
nuovi media, racchiusa nella questione della scelta, consiste nel richiedere al fruitore un’attività
costruttiva svolta alla pari con l’emittente.
Nel caso delle nuove tecnologie della comunicazione quindi, il soggetto è chiamato a
scegliere in base alle sue esigenze, ai suoi gusti, in definitiva in base alla sua stessa identità.
Questo significa dunque che si presuppone un’identità del fruitore che è data a monte
rispetto alle interazioni comunicative attuate grazie ai new media. Ma, se l’identità è il frutto di
una serie di interazioni - quelle centrate sui media particolarmente influenti - possiamo
11E. Cheli La realtà mediata F. Angeli 1992, pp. 169 -170.
12
accettare l’idea che essa sia, al contrario, un presupposto della comunicazione attuata con le
nuove tecnologie?
Negroponte13 usa una dicotomia per illustrare la differenza tra mass-media e nuovi
media: quella di spingere/tirare. Secondo il professore del MIT i media tradizionali spingono le
informazioni verso il destinatario, mentre con i nuovi media egli potrà tirarle verso di sé.
Bene, ma quali informazioni tirerà a sè il destinatario?
Infondo, i nostri gusti, le nostre esigenze, le nostre scelte non hanno una giustificazione
“ontologica” - sono quelle che sono perché siamo fatti in un certo modo - ma vengono fuori
dall’intreccio delle culture e delle situazioni di cui partecipiamo.
Se l’universo simbolico di cui facciamo parte, segntamente quello offertoci dai nuovi
media, si presenta estremamente decostruito, fatto di tanti pezzetti sparsi e non collegati tra
loro, quale sarà alla fine il criterio delle scelte che siamo chiamati ad operare?
Le modificazioni antropologiche che i new media potranno avviare si configurano quindi
come un problema aperto e non già risolto in nome dell’autodeterminazione dell’utente.
L’ipertesto come tecnologia e come metafora
Se il parallelo a cui mi sono riferito ha un qualche fondamento, allora l’ipertesto può
essere visto come il simbolo sia della condizione postmoderna - nella quale è poi possibile
riscontrare la questione generazionale posta più sopra - sia della comunicazione strutturata
dai nuovi media.
Nel primo caso l’ipertesto diviene una metafora. Nel contesto della postmodernità ci si
trova di fronte alla necessità di costruire un legame tra gli eventi, piccoli e grandi, che invece
appaiono come sostanzialmente sconnessi. Questa attività di “cucitura” somiglia un po' a quella
della fruizione di un ipertesto che consiste nel costruirsi un percorso personale tra i tanti messi
a disposizione dai nodi e dai link. Il tentativo di ricavare un’organicità accomuna le due
situazioni fondando così la metafora.
Nel secondo caso invece, l’ipertesto è la tecnologia che sembra sintetizzare le novità
maggiori introdotte nella comunicazione dai nuovi media, almeno relativamente ai temi
dell’interattività e del riequilibrio tra emittente e destinatario. Si tratta infatti di un testo in cui il
lettore, scegliendo i nodi che gli interessano, diventa in qualche misura egli stesso autore.
Se il concetto di ipertestualità sembra essere così ricco di suggestioni e di spunti, che
oltrepassano il campo di studi a cui più direttamente si lega, è possibile che uno studio della
fruizione dell’ipertesto offra spunto per riflessioni più generali. E’ il caso quindi di cominciare a
chiarirsi un po' meglio le idee su che cosa è esattamente un ipertesto.
12
J. Derrida e B. Stiegler Echographies de la télévision Galilée 1996, pp. 11 - 12.
13N. Negroponte Essere digitali Sperling & Kupfler 1995.
13
Capitolo 2
Che cos’è un ipertesto
Che cos’ è un ipertesto? Niente di difficile.
Prendiamo la nostra memoria, ad esempio. Possiamo starcene tranquilli a chiacchierare
dottamente sull’opportunità di rimettere in funzione le centrali atomiche che, proprio nel
momento di maggiore passione, ci passa per la testa il terribile dubbio di aver lasciato, a casa,
il rubinetto del gas aperto. Oppure magari, eccoci lì a dibattere intorno alle responsabilità delle
multinazionali nella situazione politico-economica dell’America Latina quando, improvvisamente
e senza alcun motivo apparente, ci ricordiamo di non aver più telefonato ad un amico che
somiglia sfacciatamente a W. Allen - autore, quest’ultimo, de “Il dittatore dello stato libero di
Bananas”.
La memoria umana, insomma, può venir ben descritta come un meccanismo associativo
tale da mettere in connessione i ricordi che possiede. La velocità nei collegamenti e il numero e
la varietà di rimandi possibili ne fanno un qualcosa di straordinario e di non riproducibile
artificialmente - almeno per ora.
Queste caratteristiche però hanno anche ispirato l’idea di ipertesto. Ted Nelson, che
coniò il termine negli anni Sessanta, ne fornisce la seguente definizione: «Con “ipertesto”
intendo scrittura non sequenziale, testo che si dirama e consente al lettore di scegliere;
qualcosa che si fruisce al meglio davanti a uno schermo interattivo. Così come è comunemente
inteso, un ipertesto è una serie di brani di testo tra cui sono definiti legami che consentono al
lettore differenti cammini14». Una definizione diversa, che mette maggiormente in luce il ruolo
attivo del lettore, è di Francesco Antinucci: «Un ipertesto è un testo virtuale; esso costituisce,
cioè, una classe di testi possibili, generalmente molto più ampia ma strettamente determinata,
uno dei cui membri diviene attuale al momento della lettura (o, meglio, ciascuno dei cui
membri diviene attuale soltanto attraverso l’operazione “lettura”) effettuata da un utente15». Un
ipertesto dunque non è organizzato in modo lineare e sequenziale, ma procede per associazioni
interne attivate dall’utente tramite legami prestabiliti.
Proverò ad essere più chiaro. Pensiamo ad un testo organizzato in maniera tradizionale:
il libro. Esso inizia con la prima pagina e termina con l’ultima, strutturando, al suo interno, in
maniera definitiva e fissa, le parti di cui si compone, cioè i vari capitoli.
Il lettore, a questo punto, può fare ben poco per disporre diversamente le informazioni
contenute nel libro e, meno che mai può collegare quelle informazioni ad altre in suo possesso,
includendole in una versione “modificata” del testo.
14
T.H. Nelson Literary Machine 90.1 Muzzio 1992, p. 0/2
15
F. Antinucci Sulla natura dell’ipertesto in Golem anno 3, n.5 maggio ’91, p. 22.
14
Il libro stampato è concepito con una struttura e con un contenuto determinati, a cui
l’utente deve sostanzialmente adeguarsi.
Un ipertesto invece non funziona così. Qui le parti hanno una struttura plurima,
molteplice che presenta diversi collegamenti possibili a disposizione dell’utente, attivati se e
quando quest’ultimo lo desidera. Non esistono più, quindi, nè una linearità intrinseca, nè una
sequenzialità unica delle parti, ma un insieme di nodi di testo interconnessi che, in linea di
principio, possono venire modificati in qualsiasi momento sia con l’aggiunta di nuovi nodi, sia
con la predisposizione di nuovi legami. Un ipertesto non è un’entità definitivamente stabilita, ma
è una galassia di nodi collegati e collegabili nuovamente a discrezione del lettore.16
Questa nuova concezione obbliga a sottolineare due questioni fondamentali che entrano
nella definizione di ipertesto: il computer come supporto necessario della scrittura ed il
riequilibrio nel rapporto di potere tra autore e lettore, tra fonte e destinatario della
comunicazione. Affronterò qui di seguito il primo punto, riservandomi di includere il secondo
nella breve storia dell’idea di ipertesto.
Il computer e la dimensione iper
Non potrerebbe esserci ipertesto senza il supporto “virtuale” del computer. E’ il caso, a
questo punto, per giustificare la radicalità dell’affermazione precedente, di illustrare come
materialmente si presenta un ipertesto e in cosa consiste la lettura ipertestuale.
Sullo schermo del computer appare un primo blocco di testo; esso presenta, tra l’altro,
delle icone o delle parole calde - parole colorate diversamente dalle altre, sottolineate o
altrimenti identificabili - tali che, quando le si raggiunge con il puntatore e si preme il tasto del
mouse, esse attivano un particolare legame previsto dall’ipertesto in quel punto, il quale porta
sul video il blocco di testo relativo all’icona o alla parola calda selezionata.
La lettura consiste quindi nello scegliere tra i blocchi che via via vengono messi a
disposizione dall’ipertesto.
Un’operazione del genere però non è realizzabile su supporto cartaceo, o almeno è
impossibile raggiungere gli stessi risultati. Il computer invece realizza l’ipertestualità poiché
trascende la fisicità della scrittura. Le parole, così come le immagini e i suoni, quando vengono
mediati dalla tecnologia informatica, non sono più delle cose tangibili, ma diventano entità
virtuali che, in quanto tali, acconsentono ad essere plasmate e riplasmate.
La fluidità di cui l’ipertesto si avvale era già stata introdotta dai programmi di
videoscrittura. Le potenzialità notevoli di gestione del testo proprie di questi strumenti non sono
16A conclusione di questo paragrafo definitorio dell’ipertesto non può mancare un rinvio all’opera di G. Bettetini e F.
Colombo che, insieme ai collaboratori della Scuola di Specializzazione in Comunicazioni Sociali dell’Università
Cattolica di Milano, costituiscono uno dei gruppi di ricerca più importanti in Italia per quanto riguarda i new media e
le loro implicazioni culturali e sociali. I testi sono citati in bibliografia.
15
semplicemente un ampliamento delle possibilità offerte dalla macchina da scrivere, ma un
qualcosa di qualitativamente differente, soprattutto per gli effetti “psicologici” che tali
programmi producono sull’utente. Tagliare blocchi di testo per incollarli altrove, cancellare e
riscrivere senza il fastidio di dover ricominciare da capo, modificare il carattere e
l’impaginazione automaticamente sono solo alcuni esempi di quelle innovazioni con cui i word
processor hanno modificato profondamente la concezione e la pratica della scrittura.
L’ipertesto va addirittura oltre, eliminando i confini rigidi dei prodotti della tecnologia a
stampa, riportando la scrittura ad una struttura plastica molto più vicina al meccanismo
associativo della memoria umana.
La possibilità di istituire connessioni e la capacità di gestirle sono tra le caratteristiche
fondanti di quella che si può definire la dimensione iper, una dimensione che non avrebbe
possibilità di essere senza il tipo di supporto offerto dal computer. Si può dunque concordare
con Conklin quando dice che «le connessioni supportate dalla macchina sono la caratteristica
essenziale dei sistemi a ipertesto, ed è la capacità di gestire connessioni che permette una
organizzazione non lineare del testo17».
Ipertesto ed Ipermedia
L’ipertesto, come ogni nuova tecnologia che si propone di entrare nell’uso comune
modificando alcune concezioni ed alcune abitudini, introduce una propria terminologia che non
sempre risulta chiara poiché le imprecisioni nell’uso, almeno all’inizio, si verificano
frequentemente. Per facilitare la vita a chi è così gentile da leggere questo lavoro, ho allegato,
alla fine del capitolo, un piccolo glossario che comprende i termini nuovi collegati alla fruizione
dell’ipertesto; in realtà si tratta di significati nuovi dati a termini che vengono qui usati in senso
metaforico come “navigare”, “nodo” ecc.
Il caso di “ipertesto” e “ipermedia” è particolare. Non si tratta di una mera precisazione
terminologica, ma di una distinzione concettuale, per questo va esplicitata nell’ambito della
definizione di questi oggetti.
Per “ipertesto” si intende un testo che ha una struttura molteplice, che si dirama cioè
tramite dei legami che connettono blocchi di testo, richiamati man mano dall’utente che
seleziona le parole calde o le icone di cui dispone. “Ipermedia” invece denota - questo è il suo
significato più comune, ma meno preciso - un ipertesto le cui parti non sono esclusivamente
scritte, ma anche costituite da suoni, immagini fisse o in movimento. Un ipermedia, in questo
senso, si differenzierebbe per il fatto di avvalersi di una pluralità di codici diversi da quello
verbale. Senza dubbio preferibile a questa è la definizione più precisa che del termine ha
fornito Antinucci: «Ipermedia è l’integrazione dei media in un unico, nuovo oggetto
comunicativo non riferibile a, nè comprensibile in, nessuno dei singoli media specifici
17
J. Conklin Hypertext: An introduction and survey “Computer Magazine”, Sett. 1987, tr. it. in “Informatica Oggi”, Ott.
1988.
16
concorrenti ». Antinucci intende sottolineare come la sintesi dell’idea di ipertesto (iper) e la
tecnologia della multimedialità (media) determini un’integrazione nuova tra codici diversi, tale
da superare la differenza tra struttura della conoscenza e struttura della comunicazione. In
altre parole, viene resa possibile la comunicazione di un certo argomento o di una certa
materia, mantenendo la struttura propria dell’argomento e della materia in questione, senza la
necessità di ridurli alle forme di un codice avente una struttura diversa.
Ma tralasciando il tema delle applicazioni in campo educativo della ipermedialità, si può
concludere con la presa d’atto della peculiarità ipermediale.
Breve storia dell’idea di ipertesto
Se, dopo quanto si è detto sopra, è chiaro che cos’è un ipertesto, si può ora volgere lo
sguardo all’indietro per ricostruire, in maniera molto veloce e sommaria, l’origine dell’
ipertestualità.
Proverò a ripercorrere la storia di questa idea seguendo - come fa Landow nel suo ormai
celebre saggio18 - due binari: il primo, che si è sviluppato negli Stati Uniti, riguarda l’evoluzione
tecnologica; il secondo, di origine francese, fa riferimento alla teoria letteraria post-
strutturalista.
Due campi così diversi, infatti, hanno in comune l’aver concepito, in forme e tempi
differenti, una trasformazione radicale della scrittura.
Il contributo del versante tecnologico americano, più esattamente il pensiero e l’opera di
tre ricercatori statunitensi: Bush, Engelbart, Nelson, consiste nel tentativo di superare quello
che può essere definito come il doppio livello di archiviazione dei dati. Barthes, Derrida e
Foucault invece hanno posto il tema della riconfigurazione del testo, dei ruoli e delle figure del
lettore e dell’autore.
Il MEMEX di Vannevar Bush
Nel 1945 Vannevar Bush, già professore al MIT e consigliere scientifico del presidente degli
USA, pubblica un articolo su due riviste: “Atlantic Monthly” e “Life”. Il saggio pone una
questione che, secondo l’autore, è di vitale importanza e di cui gli scienziati, in tempo di pace,
dovranno occuparsi: «un nuovo rapporto tra l’uomo pensante e la somma del nostro sapere19».
Il titolo è “As we may think” (Come possiamo pensare).
18G. P. Landow Ipertesto. Il futuro della scrittura Baskerville 1993
19
V.Bush Come possiamo pensare in J. Nice, N. Kahn Da Memex a Hypertext Muzzio, 1992 pg. 42
17
Questo scritto è da tutti considerato come la prima formulazione dettagliata dell’idea di
ipertesto e, insieme, il primo progetto di realizzazione pratica.
Bush parte da una costatazione preoccupante: il sapere scientifico aumenta, di continuo,
in maniera esponenziale. Pertanto nessun ricercatore, per quanto si sforzi di mantenersi
aggiornato con i risultati degli studi realizzati dai colleghi in un certo settore, può riuscire a
reperire, consultare e ricordare una massa di dati enorme ed in continua crescita. «La somma
dell’esperienza umana viene estesa a una velocità portentosa, e i mezzi che usiamo per
orientarci in questo labirinto per arrivare all’informazione che ci interesa in quel momento sono
gli stessi che si usavano al tempo delle navi con attrezzatura a vele quadre20».
Bush sostiene che la radice del problema stia nei sistemi di archiviazione dei dati. La loro
artificiosità ne fa qualcosa di assolutamente diverso dalla memoria umana, molto più agile,
veloce ed efficiente, sebbene limitata in quanto a chiarezza e resistenza al tempo. Citiamo
ancora l’autore che è particolarmente esplicito su questo punto: «La nostra incapacità ad
accedere alle informazioni è in gran parte dovuta all’artificiosità dei sistemi di indicizzazione.
Quando dati di qualsiasi tipo vengono immagazzinati, essi vengono archiviati alfabeticamente o
numericamente, e l’informazione viene trovata (quando ciò effettivamente accade) scendendo
di sottoclasse in sottoclasse. Essa può trovarsi in un solo posto, a meno che non si faccia uso di
duplicati; bisogna avere delle regole che permettono di trovare il percorso che la individuerà, e
le regole sono macchinose. Quando si è trovata un’informazione, bisogna però uscire dal
sistema e rientrarvi seguendo un nuovo percorso».21
Le tecnologie esistenti, e soprattutto gli sviluppi che esse fanno presagire, convincono
Bush dell’opportunità di passare ad un sistema diverso di gestione delle informazioni. Il modello
a cui rifarsi è chiaro: bisogna realizzare una tecnologia che prenda spunto dal funzionamento
della memoria umana. «Essa funziona per associazione. Con una sola informazione in suo
possesso, essa scatta immediatamente alla prossima che viene suggerita per associazione di
idee, conformemente ad una intricata rete di percorsi sostenuta dalle cellule del cervello22».
Naturalmente la memoria umana presenta dei limiti: la deperibilità delle informazioni col
passare del tempo e la scarsa nitidezza del ricordo, ma si tratta comunque di un modello da cui
prendere spunto per inventare una tecnologia che, ad un tempo, risolva i problemi posti dagli
attuali sistemi di archiviazione e permetta anche di superare le limitazioni della memoria
umana.
Ma allora come avvalersi nel migliore dei modi della tecnologia a disposizione per
arrivare a costruire una sorta di “memoria meccanica”? Ecco il progetto di Bush: il Memex.
Una macchina analogica - Bush non conosceva bene la tecnologia digitale che, tra l’altro,
era agli inizi - fatta di una scrivania con sopra uno schermo da cui leggere le informazioni e su
cui eventualmente apportare modifiche al testo. Il materiale informativo, immagazzinato tutto
20
Ibidem pg.44
21
Ibidem pg 54/55
22V.Bush “Come possiamo pensare” in J. Nice, N. Kahn Da Memex a Hypertext Muzzio, 1992, pg.55