7
1.1 L’avvento del restauro scientifico
Con il termine restauro si indicano in generale tutte le operazioni volte a restituire
piena fruibilità ad un manufatto che abbia subito alterazioni o danneggiamenti per
cause storiche o naturali. Al giorno d‟oggi è assodato che esiste una connessione
imprescindibile tra manualità e ricerca scientifica, eppure si è atteso molto prima di
arrivare a tale consapevolezza.
Fin dall‟antichità classica si hanno notizie di interventi successivi a quello dell‟artista
volti a riparare i danni subiti da opere o manufatti di rilevante valore sacrale o civile:
si tratta per lo più di azioni mirate alla salvaguardia del materiale costituente l‟opera e
al mantenimento della sua funzione
[1]
.
Nel medioevo la volontà di mantenere immutato l‟uso liturgico e la leggibilità delle
immagini sacre ne consente talora il rifacimento fedele, altre volte invece ne determina
l‟ammodernamento per adeguarle a mutamenti di gusto o a innovazioni di culto
[1]
.
Nel rinascimento, con la riscoperta del mondo antico, l‟attenzione si sposta sul valore
storico e artistico dell‟opera in sé, degna di essere conservata come modello
esemplare; ma appunto il senso della continuità con quel mondo e la volontà di
emulazione portano con sé la pratica dell‟integrazione o del completamento delle
statue antiche, per restituire loro la piena leggibilità, con criteri non certo filologici ma
piuttosto interpretativi e mimetici
[1]
.
Ancora nel ‟500-„600 i restauratori sono degli artigiani che utilizzano gli strumenti
tipici delle botteghe: non intervengono con analisi di alcun genere ed indagano le
superfici solo visivamente, talvolta senza rispettare il senso o la forma dell‟opera. Solo
l‟esperienza aiuta il restauratore ad intuire le patologie ed i problemi conservativi delle
opere.
I primi esempi di rinnovamento in ambito restaurativo si devono a Carlo Maratta
(Camerano 1625 - Roma 1713), un pittore e restauratore che esegue numerosi
interventi a Roma: l‟innovazione da lui introdotta consiste nell‟effettuare eventuali
integrazioni di zone determinate di dipinti murali con pastello unito a gomma. Il
Maratta utilizza questi materiali, diversi e reversibili rispetto agli originali, lasciando
una traccia evidente dell‟intervento pur rimanendo rispettoso nei confronti dei lavori
sui quali opera.
Un altro “riformatore” è stato Pietro Edwards (Plympton, Devonshire,1723 - Londra
1792), pittore, professore e poi direttore del Restauro delle Pubbliche Pitture a
8
Venezia: anch‟egli come il Maratta raccomanda l‟utilizzo di materiali reversibili ed
inoltre impone ai suoi collaboratori che i ritocchi, ove necessari, non vadano ad
intaccare i colori originali. Non va nemmeno dimenticato il suo progetto di istituire
una scuola per restauratori, non realizzato a causa della mancata comprensione
dell‟importanza di quel progetto da parte dei suoi successori
[2]
.
John Ruskin (1819-1900) è uno dei teorici dei nuovi filoni che si propongono di
individuare il metodo di restauro più idoneo per la trasmissione delle opere ai posteri:
egli sostiene che non sia lecito intervenire con un‟alterazione visibile del tessuto
originale, poiché ritenuta una falsificazione e che dunque sia ammesso unicamente il
consolidamento dell‟opera. Strenuo oppositore di questa idea fu invece E. Viollet-le-
Duc (Parigi 1814 - Losanna 1879), il quale introduce la tecnica del ripristino
interpretativo che rappresenta una delle correnti maggiormente seguite fino agli inizi
del „900
[2]
.
Fino al XIX secolo, nel campo del restauro o della conservazione, non si è dato un
grande spazio allo studio scientifico: si pensava, infatti, che tale ambito fosse
unicamente di competenza di personale dall‟elevata capacità manuale anche se del
tutto incapace di comprendere che le opere d‟arte sono costituite da materia e, proprio
per questo, il deterioramento è intrinseco nella loro natura.
G. Secco Suardo si avvicina alle attuali teorie e negli ultimi anni del 1800 scrive il
“Manuale ragionato per la parte meccanica dell’arte del Ristauratore di dipinti”, un
libro che denota un orientamento lontano dalle semisegrete pratiche trasmesse da una
bottega all‟altra e fondato su un approccio all‟opera di stampo più chimico
[3]
.
Nel Novecento sono stati fatti enormi passi in avanti per quanto riguarda le normative
vigenti nel campo del restauro; nel 1931 venne elaborata al Carta di Atene, il primo
testo dall‟eco internazionale che pone l‟attenzione sull‟importanza degli interventi
preventivi sulle opere piuttosto che improvvise operazioni di restauro. L‟obiettivo che
si vuole raggiungere attraverso la manutenzione ordinaria è quello di evitare
interpretazioni personali degli addetti ai rifacimenti e, non da meno, stress eccessivi
indotti nei materiali costituenti l‟opera. In Italia, nel medesimo anno, fanno
immediatamente seguito la prima Carta del Restauro (ampliata e rivista nel 1964 e nel
1972) e la creazione dell‟ Istituto Centrale del Restauro diretto inizialmente da C.
Brandi e poi G. Urbani fino al 1983. Il primo è l‟autore di una rigorosa teoria del
restauro che unisce alla sensibilità artistica e stilistica nei confronti delle opere un
attento studio analitico dei loro costituenti; il secondo si presenta come sostenitore di
9
un‟attività costante di «conservazione programmata», che conduce alla tendenza a
risparmiare il più possibile le opere all‟intervento
[2]
.
La possibilità di disporre di conoscenze scientifiche è fondamentale nell‟attività del
restauro e della conservazione dei beni culturali: studi approfonditi sui materiali che li
costituiscono e sulle loro caratteristiche devono sempre precedere qualsiasi tipo di
intervento.
La scienza del restauro negli ultimi decenni ha assunto un carattere spiccatamente
interdisciplinare, coinvolgendo un‟ampia pletora di competenze. Nuovi metodi di
analisi non distruttiva (spettroscopia ai raggi X, indagini riflettografiche e termovisive,
etc…), che si aggiungono a quelli definiti distruttivi (per es. analisi chimica e
microchimica mediante prelievo di campioni) permettono di condurre una campagna
diagnostica dell‟opera da restaurare e quindi di indirizzare l‟intervento di restauro
verso metodologie efficaci e rispettose dell‟opera e del suo messaggio originale.
La scienza chimica ha avuto e continua ad avere un ruolo primario in questo settore
sia fornendo le basi teoriche delle tecniche diagnostiche, sia nel settore della sintesi
dei materiali che possono essere utilizzati nel restauro con finalità diverse che vanno
dalla pulitura al consolidamento, alla protezione, all‟incollaggio delle opere d‟arte. Tra
i materiali impiegati i polimeri di sintesi possiedono un ruolo di rilievo.
Il termine polimero si trova per la prima volta in una pubblicazione di Berzelius del
1883, tuttavia assume un preciso significato solo a seguito degli studi di Staudinger. A
lui ed ai suoi collaboratori della scuola di Friburgo si devono studi fondamentali sulla
chimica e la struttura dei polimeri (i quali inizialmente furono chiamati colloidi
molecolari). Si identificò nel polimero una struttura molecolare che ripeteva n volte la
molecola del composto dal quale traeva origine (che fu chiamato monomero) e si
definì polimerizzazione il processo mediante il quale “un numero variabile di
molecole bi- o polifunzionali si legano insieme mediante valenze principali dando
luogo ad edifizi molecolari di grandi dimensioni”
[4]
.
Oggi sappiamo che i polimeri sono sostanze, naturali o sintetiche, formate da molecole
di elevato peso molecolare, simili tra di loro ma non necessariamente tutte identiche;
ciascuna di queste macromolecole è a sua volta formata dalla ripetizione di molte
piccole unità strutturali legate tra loro con legami covalenti. Il termine polimeri è di
norma riferito a sostanze con valori elevati di peso molecolare, mentre si utilizza il
termine oligomeri per indicare polimeri a basso peso molecolare, formati da poche
unità ripetenti.
10
1.2 Il degrado dei materiali lapidei
I materiali lapidei subiscono un primo deterioramento già dall‟estrazione dalla cava a
causa degli sforzi meccanici necessari per ricavare i blocchi, che continua con le
successive operazioni di lavorazione: prima le semplici operazioni di formatura, poi
quelle che l‟artista svolge per ottenere la forma desiderata. Tali operazioni possono
portare alla formazione di microfratture dovute alla modificazione degli strati
superficiali e danno origine ad ulteriori variazioni e difetti nel materiale; tali eventuali
danni una volta che l‟opera viene posta nella sua definitiva collocazione si sommano a
quelli dovuti alle interazioni tra questa e l‟ambiente circostante, sia che si trovi in
luogo chiuso sia all‟aperto e dunque esposta agli agenti esogeni
[5]
.
Fenomeni chimici, fisici e biologici interessano il materiale singolarmente o anche in
modo combinato.
Le piogge acide intaccano la pietra e penetrandovi determinano una serie di reazioni a
catena: causano la sua disgregazione e la formazione di croste nere che peraltro
agevolano l‟aggressione da parte dei batteri.
I composti più dannosi nei confronti della pietra sono l‟anidride solforosa, gli ossidi di
azoto, il biossido di carbonio ed il particellato.
La CO
2
presente nell‟aria può solubilizzarsi nell‟acqua meteorica dando origine ad
una soluzione debolmente acida.
Le rocce carbonatiche sono particolarmente vulnerabili all‟azione di composti acidi e
subiscono una serie di reazioni successive che conducono alla formazione di gesso
(solfato di calcio biidrato) ed al conseguente sgretolamento della superficie
[5]
, come
schematizzato dalle reazioni sotto riportate:
Il gesso è più solubile del CaCO
3
e può essere trasportato all‟interno della pietra
continuando, sotto le croste nere, quel processo di trasformazione del materiale sano in
uno incoerente e disaggregato. La superficie e la zona sottostante alla crosta diventano
fragili e friabili, a causa della perdita di coesione dei cristalli di CaCO
3
. In un secondo
momento le parti più sporgenti si staccano e cadono, esponendo la superficie
CaCO
3
+ CO
2
+ H
2
O Ca(HCO
3
)
2
CaCO
3
+ H
2
SO
4
+ H
2
O CaSO
4
2 H
2
O + CO
2
CaCO
3
+ 2 HNO
3
Ca(NO
3
)
2
+ H
2
O + CO
2
11
2 NO
2
+ H
2
O HNO
3
+ HNO
2
sottostante a un nuovo processo di deterioramento. Le zone che presentano fratture o
crepe sono soggette ad un maggior assorbimento di acqua e rimanendo più a lungo
bagnate sono maggiormente esposte a queste trasformazioni
[6]
.
Gli NO
x
(prevalentemente NO
2
e NO
3
) presenti nelle zone interessate da inquinamento
fotochimico possono generare gli acidi nitrico e nitroso
[5]
:
L‟SO
2
viene introdotta nell‟atmosfera dalla combustione di combustibili contenenti
composti solforati. In presenza di umidità e di altri inquinanti solidi (metalli e loro
composti, particelle carboniose) e gassosi (ozono e ossidi di azoto) o di radiazioni
solari (raggi UV) la SO
2
può subire un‟ossidazione catalitica e portare alla formazione
di acido solforico tramite una delle seguenti reazioni
[5]
:
Il ciclo gelo/disgelo dell‟acqua è un‟ altra causa di deterioramento della pietra: l‟acqua
assorbita, passando dallo stato liquido a quello solido subisce una variazione
volumetrica di circa il 10%. La pressione che il ghiaccio esercita sulle pareti dei
capillari della pietra causa delle profonde fratture, desquamazione e sfaldamento della
superficie
[5, 6]
. I danni provocati dal ciclo gelo/disgelo dell‟acqua sono differenti a
seconda del tipo di pietra e dipendono fortemente dalle proprietà mineralogiche, dalla
porosità e dalla posizione nella quale essa si trova.
Incrementi di pressione all‟interno dei pori della pietra possono essere provocati anche
dalla cristallizzazione dei sali solubili. Questi ultimi sono talvolta presenti nella roccia
prima della sua messa in opera o derivare dalla decomposizione del materiale stesso o
ancora provenire da fonti esterne, come i materiali di giuntura o di sostegno, il suolo e
l‟atmosfera; in alcuni casi, i sali possono derivare da metodi errati di pulitura e
conservazione
[6]
. Se nel materiale lapideo è presente una soluzione salina in seguito
all‟evaporazione dell‟acqua si possono verificare condizioni di saturazione o
sovrasaturazione, che portano alla formazione di cristalli di sale dentro i pori. Tali
cristalli si alimentano con la soluzione presente nella rete capillare e si accrescono
NO NO
2
NO
3
N
2
O
5
2 HNO
3
O
3
O
3
NO
2
H
2
O
SO
2
H
2
SO
3
H
2
SO
4
SO
2
SO
3
H
2
SO
4
H
2
O O
2
O
2
H
2
O
12
esercitando una forte pressione sulle pareti dei pori stessi. Il sale inoltre può
precipitare sulla superficie esterna o interna della pietra: se la velocità di evaporazione
dell‟acqua è bassa, come nel caso di scarsa ventilazione, i cristalli si formano
principalmente all‟esterno dei pori (efflorescenza) e l‟effetto distruttivo è minimo. Se
invece l‟evaporazione avviene rapidamente, e la velocità con cui la soluzione si muove
verso l‟esterno non raggiunge quella del vapor d‟acqua che si allontana dalla
superficie, la cristallizzazione avviene all‟interno dei pori provocando
alternativamente la decoesione dello strato superficiale della pietra, la formazione di
cavità immediatamente sotto tale strato o l‟insorgere di fenomeni di esfoliazione
[5]
.
Un‟altra causa di degrado dei materiali lapidei è la crescita di organismi viventi: anche
in questo caso l‟acqua ha un ruolo fondamentale, essendo indispensabile al loro
sviluppo. Alghe microscopiche e licheni sono i biodeteriogeni più diffusi: spesso si
posizionano sulla superficie di materiali molto porosi oppure penetrano dentro le
microfratture dando luogo a corrosione a causa dell‟acidità contenuta nei loro
composti metabolici, soprattutto nel caso di materiali calcarei . Tra gli organismi
macroscopici, le piante infestanti rappresentano un ostacolo alla conservazione di
strutture lapidee, in quanto, grazie all‟azione delle radici penetrate tra le pietre,
possono provocare gravi sollecitazioni meccaniche.
Data la molteplicità delle cause dell‟alterazione dei manufatti lapidei e vista l‟esigenza
di eseguire restauri conservativi, è evidente la necessità di effettuare trattamenti
consolidanti sugli edifici e altri manufatti, per ristabilire il più possibile le
caratteristiche originarie di tali materiali, soprattutto dal punto di vista della coesione e
della resistenza meccanica. A tale scopo sono stati usati e si usano tuttora, prodotti
polimerici sintetici i quali, avendo proprietà idrorepellenti, funzionano talvolta anche
da protettivi nei confronti dell‟acqua.
1.3 Principali prodotti per la conservazione dei materiali lapidei
I protettivi e consolidanti organici più utilizzati attualmente sono prodotti polimerici,
riconducibili alle categorie seguenti:
- resine acriliche;
- resine siliconiche;
- polimeri fluorurati, tra cui i fluoroelastomeri;
13
- cere microcristalline;
- resine epossidiche.
Sul mercato sono presenti numerosi prodotti delle classi sopra riportate identificati
spesso con nomi di fantasia o da sigle; si possono trovare prodotti caratterizzati dalla
medesima composizione chimica ma con nomi diversi a seconda della ditta produttrice
o soltanto del distributore
[7]
.
1.3.1 Resine acriliche
Le resine acriliche sono fra i materiali più utilizzati e noti nel campo del restauro.
Sono polimeri e copolimeri termoplastici con struttura amorfa, derivanti dalla
polimerizzazione radicalica degli esteri dell‟acido acrilico CH
2
=CHCOOH (Figura 1)
e metacrilico CH
2
=C(CH
3
)COOH (Figura 2) con alcoli di lunghezza diversa:
CH
2
C
H
COOCH
3
n
CH
2
C
COOCH
3
CH
2
C
H
COOCH
3
H
Figura 1: Reazione di polimerizzazione del metilacrilato (PMA)
CH
2
C
CH
3
COOCH
3
n
CH
2 C
CH
3
COOCH
3
CH
2
C
COOCH
3
CH
3
Figura 2: Reazione di polimerizzazione del metilmetacrilato (PMMA)
Hanno generalmente un peso molecolare compreso fra i 30.000 e i 100.000, sono
trasparenti con una trasmissione della luce bianca del 92%. In generale, gli acrilati
presentano caratteristiche di maggior flessibilità rispetto ai metacrilati mentre i
metacrilati presentano caratteristiche di maggior resistenza a trazione (e quindi
durezza) rispetto agli acrilati. Inoltre la lunghezza del residuo alcolico dell‟estere,
influenza molte delle proprietà chimico-fisiche, meccaniche, la resistenza chimica, la
solubilità e la viscosità della resina
[7]
.