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potuta vivere in prima persona, raccontando in questo modo, attraverso le
immagini perché a Silicon Valley ci siano delle caratteristiche uniche che
difficilmente possono essere esportate ex-novo, come ha dimostrato il tentativo
in Arizona che più di una decina di anni fa diventò il “Silicon Desert”, oppure
la “Silicon Forest” in Oregon o il “Silicon Glen” in Scozia ed altri ancora.
Attraverso un video si otterrebbe un risultato visibile in movimento, anche se
dal punto di vista metodologico, continuerebbe a presentare dei limiti che
possono essere superati dal concetto di ipertesto.
La comunità di Silicon Valley è la prima al mondo in cui virtualmente l’intera
società ruota intorno alle tecnologie dell’informazione; ci sono miriadi di
avvocati, a S. Francisco e a Palo Alto, che come prima attività sono interessati
alle “start-ups” che iniziano la propria attività; la ricerca medica utilizza le
ultime bio-tecnologie; il costo della casa è molto alto (il 37% in più della media
nazionale) perché la sinergia è tangibilmente palpabile; i ristoranti non sono
solo luoghi in cui si consumano i cibi, ma diventano studi legali in cui si
conducono affari in un clima estremamente informale. Solo nel 1999, in questa
regione californiana, sono stati generati 21 mila e 200 nuovi posti di lavoro ed
essa si trova a detenere il primato di luogo più ricco degli USA; il PIL della
California, infatti, è superiore a quello del Canada e del Brasile.
A Silicon Valley i filosofi speculano sul locus in cui gli studi di fisica
s’intersecano con quelli di teologia, e molta parte della reputazione delle
istituzioni accademiche deriva dalle loro scuole di business e ingegneria
elettrica e elettronica. Le nuove tecnologie, quindi, abbracciano l’interezza
della vita delle persone che fanno parte di organizzazioni e la maggior parte del
loro tempo, ma non per questo si può definire Silicon Valley come “product
oriented” nel senso tradizionale del termine. Infatti, elemento fondamentale
sono i processi: processi di collaborazione in seno a quelli di competizione,
processi di sviluppo della famosa “business idea” che poi si trasforma in una
pluralità di ditte con un volume d’affari da milioni di dollari, processi di
“learning” che investono università, organizzazioni e tempo libero, processi di
“visioning” e meetings informali, complessivamente radicati nelle pratiche
organizzative quotidiane. Processi quindi, che portano alla costruzione e alla
convivenza con la forma tecnologica con cui a Silicon Valley si ha a che fare
24 ore al giorno.
Le limitazioni messe in evidenza precedentemente e cioè il fenomeno della
“costrizione” di un testo, non sviliscono tuttavia, l’esito finale del mio lavoro
che intende dimostrare proprio come a Silicon Valley l’ipertesto sia un “way of
life”, costantemente costruito e rinegoziato da parte dei collettivi organizzativi
nei loro processi di “organizing” di ogni giorno, allo scopo di produrre
tecnologia (prodotti e servizi) di tipo intelligente.
L’ipertesto informa la mia tesi di laurea; ipertesto come metodologia, ipertesto
in quanto metafora derivante da un approccio culturale di tipo visivo, ipertesto
quale prodotto, ipertesto inserito nel cyberspazio, nel quale tutta la comunità si
trova a ruotare.
Il concetto di collettivo organizzativo che è scaturito dagli approcci culturali
alle organizzazioni e ne rappresenta in parte una delle ricchezze, mi ha
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permesso, secondo quanto sostenuto da Alvesson e Berg, di considerare le
organizzazioni come cellule sociali e non semplicemente quali aggregazioni
semplici di più individui, cellule sociali però viste però in tutta la loro
complessità dovuta all’elemento ontologico, epistemologico e di phatos.
Silicon Valley ora è certamente simile alla valle di 20 anni fa, ma alcuni aspetti
fondamentali si sono modificati, soprattutto per quanto riguarda il senso di
responsabilità che essa ha assunto e che l’ha portata a divenire una comunità
innovativa.
In questa regione californiana si fa riferimento soprattutto alla componente
della creazione, dell’amore per la creazione, in ogni modo, con ogni mezzo,
imparando a volte addirittura dall’ovvio. La chiave per amare gli affari a
Silicon Valley è il concetto di crescita; crescita in dimensioni, crescita in
profitti, crescita nelle proprie responsabilità. Se questo succede, si ottiene
credito e reputazione; se non avviene, si riesce facilmente a trovare un alibi e
un nuovo punto di partenza da cui ricominciare. Arriva un momento in cui una
persona, un team, un CEO (Chief Executive Officer), una nuova impresa
realizzano che non stanno lavorando unicamente per accumulare denaro.
E’ stato detto da alcuni che gli USA sono la terra dei miti; prima il mito del
conquistatore, poi quello del “cowboy” ed ora quello dell’inventore.
Certamente questo è vero a Silicon Valley, ma l’inventore non sta da solo,
isolato nel suo laboratorio, né è un genio incompreso estraniato dalla società,
ma anzi promuove, insieme agli altri collettivi organizzativi, la costruzione di
un ambiente estremamente fluido e ricco.
Una delle più vecchie e curiose caratterizzazioni di Silicon Valley è che le
persone della valle non lavorano per una ditta individuale, quale può essere per
esempio l’Intel, la Hewlett Packard, la Apple, la Silicon Graphics ed altre
ancora, sebbene, per esempio, succeda che esse parcheggino le proprie
automobili nei posteggi adibiti a tal scopo di queste aziende. Con un ricambio
del personale del 20% circa, combinato ad una possibilità di continua fioritura
di nuove “start-ups” (imprese, cioè, appena nate), ognuna di queste persone
lavora realmente per una compagnia virtuale, la “Silicon Valley Incorporated”,
seguendo la definizione dello studioso e uomo di business Cristopher Mayer.
Potremmo quindi esplicitamente far riferimento pure al concetto di
“organizzazione senza mura”, come vedremo nella trattazione, accolto dal dott.
Antonio Strati. per caratterizzare alcuni processi di “organizing”
Gli skills degli ingegneri e dei professionisti sono talmente abbondanti e in
costante crescita che molti lavoratori, in aziende high-tech, possono dare il loro
contributo nello stesso momento a più imprese presenti nella valle; si stima che
lo stipendio medio di chi è impiegato nelle aziende high-tech sia di 180 milioni
l’anno. I benefici e lo stipendio sono stimoli essenziali nella scelta dell’impresa
per cui lavorare, ma non sono sufficienti a comprare la lealtà e la disponibilità a
lungo termine. Nei termini di Maslow e la sua famosa gerarchia dei bisogni, la
maggior parte degli occupati a Silicon Valley sono ben lontani dalla necessità
di assicurarsi sopravvivenza e sicurezza, aspetti prioritari invece ai tempi di
Ford e nel periodo della prima industrializzazione.
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Silicon Valley rappresenta una sintesi molto riuscita tra organizzazione e
società, tra aspetti virtuali e aspetti reali, tra simboli e business, tra cultura e
innovazione, tra villaggio globale e regionalità all’interno del mondo
statunitense.
I giochi di potere a Silicon Valley si tramutano e traslano dal punto di vista di
che cosa il lavoratore offre all’azienda a che cosa l’azienda offre al lavoratore e
viceversa, in un continuo processo di crescita e di ricchezza civile.
I leaders delle varie compagnie devono generare una sorta di magnetismo che
attragga le persone verso le varie opportunità offerte e verso i benefici che si
possono realizzare lavorando per quella specifica impresa sia come individui
che come professionisti, due concetti spesso riuniti insieme, dal momento che
una delle maggiori identificazioni del soggetto è proprio in riferimento alla
sfera lavorativa.
Una delle figure importanti che andrò a considerare è quella degli “imprenditori
civici”, definiti in tal modo a causa del particolare ruolo che essi assumono
all’interno del tessuto organizzativo di Silicon Valley, un ruolo di vero e
proprio “ponte di raccordo” tra quello che è il business e la sfera economica in
generale con i loro rischi e opportunità e ciò che invece rappresenta il “way of
life” e l’orientamento civico della valle.
Ho preferito optare per una non netta sequenza e differenziazione tra parte
teorica e parte empirica di ricerca in quanto, prima di tutto, questa
caratterizzazione permette meglio di esplicitare che cosa io intenda per
ipertesto formato da varie connessioni e “links” che possono essere messe in
atto in qualsiasi momento per collegare concetti anche apparentemente lontani,
quali Rinascimento e comunità virtuale, musica jazz e struttura di management,
e in secondo luogo perché il mio lavoro, nel proseguo della realizzazione,
modificava me e sinergicamente modificava pure i problemi su cui ponevo la
mia attenzione, richiedendo così un costante “colpo d’occhio” agli studi teorici.
Ho sostenuto che l’ipertesto informa la tesi di laurea e che, come analizzerò
nella parte teorica, una delle caratteristiche salienti del modello ipertestuale è
quello di essere una costruzione personale del soggetto che lo redige, fatto “ad
arte e fatto di arte”, derivante da un approccio visivo allo studio delle
organizzazioni. Esso è un testo dai movimenti non sequenziali di chi lo usa, ma
che invece può procedere per salti, per diramazioni, per ripetizioni. Provate a
collegarvi a Internet per un lasso di tempo e capirete a cosa mi riferisco: sullo
schermo del computer appaiono svariate finestre relative all’argomento che si
procede a conoscere; ognuna di essere è “visitabile” spostando il “mouse” di
pochi centimetri, ognuna di esse è legittima in base al disegno complessivo
dell’argomento che si vuole ottenere, ognuna di esse porta ad un nuovo tassello
di informazione, che si può trasformare in conoscenza oppure no, o che può
diventare solo una perdita di tempo se le informazioni ricavate dal nuovo
“click” ci allontanano da quanto volevamo sapere in realtà. Anche per
un’esigenza di coerenza ho quindi dotato la mia ricerca di numerose immagini
che potessero servire al lettore come “un servizio in più” offertogli per
comprendere il senso del disegno ipertestuale.
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Per esigenze di chiarezza vorrei, in fase introduttiva, aiutare il lettore a
comprendere nel profondo il senso della costruzione ipertestuale, anche se,
come metterò in evidenza successivamente, il suo punto di vista e le relative
implicazioni possono divergere dalle mie.
La fase di ricerca vera e propria inizia espressamente considerando gli artefatti
fisici, cioè alcuni “buildings” in cui vi dimorano imprese quali l’Apple
computer, l’Intel, il museo di alta tecnologia presente a S.Josè, la piantina del
campus dell’università di Stanford e la problematica dei “cubicles”, partendo,
in quest’ultimo caso, proprio dall’analisi di che cosa sia dal punto di vista
materiale, un “cubicle” stesso.
Il mio percorso di ricerca parte da questo punto per due ordini di ragioni;
innanzitutto per un motivo estremamente pratico: dal momento che in Silicon
Valley lo skill linguistico è particolarmente importante per riuscire a muoversi
fluidamente all’interno dell’ambiente e delle aziende che desideravo visitare,
all’inizio dal mio soggiorno californiano ho dovuto utilizzare “il senso della
vista” per controbilanciare le mie carenze dovute ad un inglese squisitamente
scolastico. Non avrei comunque immaginato che Silicon Valley potesse essere
così proficua da questo punto di vista ricollegandosi, infatti, perfettamente al
concetto di ipertesto che proviene da un concetto di cultura visuale. Studiare
quindi gli artefatti fisici in chiave simbolica mi è sembrato un buon punto di
partenza per presentare le mie tesi.
Incontreremo quindi le sedi aziendali che riflettono un determinato
temperamento nella conduzione del “business” aziendale, ci inoltreremo
all’interno del museo, che oltre ad essere una gigantesca struttura architettonica
rappresenta un catalizzatore del senso di comunità e della storia della valle,
vedremo che i cubicles riflettono l’apertura strutturale e organizzativa delle
aziende, non nascondendo motivi di frustrazione, in taluni casi, da parte degli
occupati. Li considereremo uno degli esempi pratici del concetto di
organizzazione senza mura ed infine, ricollegandomi a vari studi condotti sulle
sedi universitarie, proverò a dimostrare se anche alla Stanford university di
Palo Alto le divisioni dipartimentali, all’interno del campus, riflettano o meno
delle differenziazioni più profonde relative al prestigio che esse rivestono.
Questa fase iniziale, per così dire visiva, rispecchia i miei sforzi di non dare
nulla per scontato e di addentrarmi nelle maglie di quel tessuto organizzativo
che è Silicon Valley.
Il secondo “blocco” di argomenti, è relativo al concetto di visione e di
missione. La figura di Einstein, presente sulla facciata principale della sede
aziendale della Apple computer, mi ha portato a comprendere in che senso i
buildings, considerati nel punto sopra, siano una rappresentazione indiretta del
concetto di “visioning” e di missione, cioè di come dietro alla rappresentazione
simbolica si trovi l’anima dell’azienda stessa, la sua personalità costruita dalla
personalità di molti uomini e donne che agiscono organizzativamente in vista
del successo e del bene dell’azienda stessa. Visione e missione, infatti, sono
due parole chiave per la comprensione di ciò che avviene a Silicon Valley.
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L’intervista con un alto dirigente della Apple mi ha permesso di comprendere
ciò che significa “Think different” per l’azienda stessa e mi ha inoltre permesso
di avere una panoramica generale sui vari business aziendali di Silicon Valley.
Il concetto di “H.P. Way” mi ha inoltre fornito un ulteriore esempio di ciò che
si intende con visione e missione, ma esso ha rappresentato un esempio
emblematico perché “il modo della Hewlett Packard” ha plasmato il futuro
della valle e delle aziende che vi nascevano, data la su tendenza a diventare uno
strumento di management. Il “H.P. Way” diviene quindi un modo
paradigmatico di condurre gli affari e nello stesso tempo, alla luce del fatto che
il tessuto organizzativo di Silicon Valley è supportato dal suo contesto, una
parte di questo contesto è rappresentato proprio da questa ditta, che tutti noi
conosciamo.
Fatto bagaglio di queste nuove conoscenze, arriviamo, a questo punto del mio
percorso, ad un salto concettuale e quindi mi interrogo su quale sia l’attività
che qualifica Silicon Valley e su ciò che permette che questa sia una regione
americana dal benessere diffuso e un esempio vincente di New Economy.
Considererò quindi il processo di innovazione: come esso si manifesti, come
venga implementato e come si traduca all’interno di Silicon Valley stessa.
L’innovazione verrà analizzata da un punto di vista globale e da un punto di
vista interno all’azienda stessa, in quest’ultimo caso attraverso le possibilità e
opportunità che ora sono offerte dagli “intranets”. Il processo di innovazione
metterà in evidenza in modo concreto il modo di operare delle aziende e
l’importanza del processo stesso che conta diverse fasi, tutte ugualmente
importanti, in cui l’idea creativa è condizione necessaria ma non sufficiente per
la sua messa in atto. In questa fase esporrò per la prima volta i concetti di
leadership e management, di processi di “learning” organizzativo, tutti
argomenti strettamente correlati al processo di innovazione, ma che, per
l’importanza che rivestono, analizzerò dettagliatamente in separata sede.
Il processo di innovazione, l’attività prevalente di Silicon Valley, porta alla
formazione di nuove aziende, le così chiamate “start-ups”, in un certo senso le
protagoniste che permettono la continuità di Silicon Valley nel futuro.
Descriverò grazie all’intervista con Raviola G., recentemente scomparso, la
comunità degli “angels” e dei “ventur capitalists”, cioè degli angeli e dei
capitalisti di ventura quali due dei soggetti “a monte” che permettono il fiorire
e la riuscita delle nuove aziende sul territorio. E’ all’interno di questo capitolo
che il concetto di “way of life” si manifesta per la prima volta ed è all’interno
di queste considerazioni che si comprende come mai a Silicon Valley maturi
una nuova generazione di miliardari.
Risolto a monte il problema di come possa nascere una nuova azienda, mi
accingo poi a considerare gli altri protagonisti del processo innovativo e
prendendo spunto da un articolo di Saxenian, considero innanzitutto la
dimensione internazionale delle aziende high tech di Silicon Valley, in quanto
una vasta parte degli ingegneri, dei professionisti e dei fondatori di nuove
aziende provengono dall’India e dalla Cina, ma non solo. Il CEO della Cypress
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Semiconductor, un’azienda di microprocessori candidata a prendere il
testimone del gigante Intel, ben esprime a questo proposito le problematiche
inerenti al comportamento del governo federale a proposito della
regolamentazione dell’immigrazione. L’immigrazione a Silicon Valley
rappresenta un punto di forza per il processo innovativo e la stessa Intel, che
analizzerò dal punto di vista culturale, è stata fondata da un profugo ungherese.
Quindi ci siamo addentrati per la prima volta nei chips, nei microprocessori,
elementi che hanno permesso la fortuna della valle alle sue origini e le hanno
dato il nome, e mi è parso, a questo punto, opportuno analizzare le
caratteristiche della Cypress come esempio d’impresa vincente. La Yahoo!
invece rappresenta un ulteriore esempio di imprenditorialità straniera, anche se
il suo dominio di affari è il software e i servizi correlati a Internet. L’IBM
infine, quale esempio da me citato, rappresenta nella sua interezza il concetto di
diversità, non solo quindi da un punto di vista prettamente razziale.
L’universo femminile è inserito a questo punto del mio percorso di tesi perché
esso rappresenta un ulteriore soggetto organizzativo di Silicon Valley e, come
verrà poi dimostrato, sebbene le donne a Silicon Valley non siano alle posizioni
di vertice in percentuale significativa come il concetto di meritocrazia
suggerirebbe, ciò che traspare dall’analisi globale è invece come un modello di
conduzione di “business al femminile” a Silicon Valley sia particolarmente
prolifico ed efficace.
A questo punto si inserisce un fatto strettamente personale, cioè l’esperienza di
una giornata intera trascorsa al Santa Clara Convention Center in occasione
della “West Career”, cioè di un enorme ufficio di collocamento in cui in tempo
reale le aziende e gli aspiranti dipendenti si incontrano per i mutui interessi di
lavoro. Evidenzio, quindi, per un breve tratto la mia storia personale perché
l’ipertesto lo si costruisce anche in questo modo, cioè in base all’interazione
con il testo, pure il soggetto ne risulta modificato per effetto dell’interazione
stessa.
Questa esperienza si è dimostrata un esempio, quasi paradigmatico, di “vissuto
del tessuto organizzativo” di Silicon Valley, perché all’interno di un’unica
realtà, quale una convention, ho potuto osservare una confluenza di tematiche
diverse, di spezzoni di idee, di rinvii concettuali, che mi hanno permesso di
ricostruire ancora un po’ le maglie del tessuto che interessano la valle.
Quindi ho intervistato delle persone appartenenti a razze diverse riguardo la
convention stessa, ho appurato che cosa significhi per la prima volta il concetto
di orario flessibile e di organizzazione del tempo e dello spazio per i
professionisti di Silicon Valley, ho rivisitato le diversità tra un tipo di ricerca
qualitativa ed una di tipo quantitativa, come se fossero stati complessivamente
parti, un “flash” di spunti e di suggerimenti che potevano essere colti oppure no
al fine del mio disegno complessivo.
Il concetto di immagini in movimento e di ipertesto, all’interno della tesi di
laurea, investono di profondi significati il disegno che mi accingo a delineare,
sia da un punto di vista teorico che da un punto di vista pratico. Da
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quest’ultimo punto di vista, il concetto di grafica al computer, ovvero di
“computer graphics” rappresenta uno degli sbocchi importanti sul quale si
indirizza il futuro delle tecnologie informatiche e quindi un intero nuovo settore
ancora non del tutto esplorato che guida l’innovazione: Da un punto di vista
teorico invece, la grafica al computer ha permesso, attraverso l’unione di
immagini, parole e suoni, di permettere di utilizzare la metafora dell’ipertesto
per studiare le organizzazioni. In occasione di uno scambio di idee con la
studiosa Czarniawska, lei a Guthenberg ed io a Silicon Valley, entrambe ci
siamo dichiarate d’accordo sul fatto che l’uomo per rappresentare e per studiare
l’organizzazione si avvale degli strumenti e delle metafore che derivano
direttamente dalla vita quotidiana, semplicemente osservandola.
Quindi, da un punto di vista sostanziale, il computer graphics è uno specchio
del metodo che ho scelto per studiare Silicon Valley.
Questa valle, però, rappresenta pure un esempio, forse uno dei più riusciti, in
cui l’ipertesto si cala nella vita di tutti i giorni dei collettivi organizzativi e nei
processi che essi mettono in atto. Per questo motivo, attraverso un’operazione
che sposa insieme realtà, organizzativa e teoria, concetto di processo e quello di
risultato ottenuto (similmente a ciò che avviene tra il networking ed il
network), tra computer e dimensione umana, ho voluto offrire una panoramica
generale della geometria frattale, esemplificandone la bellezza grafica e
l’estetica, il concetto di “scaling” e la sua vicinanza, più di quanto possa
sembrare, al modo di pensare e di organizzarsi dell’uomo.
Qual è l’azienda che a Silicon Valley procede ad investire e a innovare, per il
proprio business, riguardo la grafica al computer? Essa è la Silicon Graphics;
per questo ho ritenuto saliente delinearne le principali caratteristiche.
A questo punto si approda alla similitudine, che inizialmente potrebbe apparire
azzardata, tra il periodo rinascimentale in Italia ed in Europa avvenuto tra il
1400 ed il 1500 e quello che ormai sta avvenendo a Silicon Valley da circa un
secolo, cioè dalla fondazione dell’università di Stanford a Palo Alto alla fine
del 1800. Il Rinascimento in fondo risulterà essere la grande storia che la
comunità di Silicon Valley sta cercando di raccontarsi, con testimonianze
illustri da parte dei CEO’s più famosi e dello stesso rettore dell’università.
Quattro aspetti principali emergono da questo confronto: innanzitutto il
concetto di mito organizzativo che sprona tutti coloro che agiscono a Silicon
Valley a fare riferimento ad esso come un modo paradigmatico per far sì che
Silicon Valley sia ricordata e tramandata ai posteri attraverso la produzione
della “forma tecnologica” che diventa, nelle sue varie manifestazioni, una
forma di arte.
Il Rinascimento è invenzione, scoperte geografiche, ma anche e soprattutto
arte.
Il concetto quindi di arte viene messo in primo piano, dato che l’innovazione è
una nuova forma d’arte, e questo spiega perché il Rinascimento sia legittimato,
da un punto di vista culturale, quale la massima espressione delle forme
artistiche. Inoltre, lo stesso ipertesto è fatto “ad arte e di arte” e snodandosi sul
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tempo presente, passato e futuro, collega i diversi tempi organizzandoli in
storia compiuta.
Il concetto di storia quindi, è l’altro elemento fondamentale, necessario per
dare un senso di continuità all’operare di Silicon Valley e per legittimare la
storia relativamente breve di una regione e un’intera nazione, che abbiamo
scoperto proprio noi europei nel periodo rinascimentale.
Il quarto elemento di rilievo che emerge dal confronto è quello della diffusione
delle idee e di una nuova forma di orientamento culturale e civile che ha
permesso una maggiore libertà di azione a tutti i partecipanti al grande “gioco
complessivo”, come Silicon Valley ama definirsi.
Il paragone tra Silicon Valley e il Rinascimento mi ha portato a riflettere, in
termini globali, per grandi numeri e per grandi concetti, cercando di capire fino
in fondo su che cosa si basi l’idea di comunità intelligente, che vuole essere un
esempio per il mondo intero, come lo è stato il periodo rinascimentale. La
narrazione, la storia, il mito non rappresentano una singola impresa, ma la
comunità nel suo complesso.
A questo punto della tesi di laurea, il concetto di comunità si presenta ancora
come ibrido ed incompleto, mancando fino a questo punto dei tasselli necessari
all’approdo verso la comunità economica.
Quali sono questi tasselli? Effettuando un salto all’indietro nel mio ipertesto,
abbiamo parlato del motore che legittima Silicon Valley, e cioè l’innovazione
costante di prodotti e servizi massa a punto dalle varie imprese in un ambiente
altamente competitivo come è il contesto high-tech. Alla luce poi delle
riflessioni emerse dal paragone rinascimentale, che lasciavano intravedere un
disegno unitario e collaborativo al fine di perpetuare le bellezze, l’armonia e la
prosperità nella valle, mi sono interrogata su un problema ormai antico
all’interno degli studi organizzativi, e cioè se l’innovazione e l’individualismo
tipicamente americano potessero essere in contrasto con il modello
collaborativo che, alla luce di quanto fin qui descritto, pareva essere molto
importante e che in ultima analisi poteva giustificare la nascita di un mito
collettivo.
Si approda quindi alla descrizione di che cosa sia un “teamwork” di tipo “cross-
functional” e di che cosa esso rappresenti per i partecipanti del team stesso, per
l’azienda stessa e per la collettività in generale.
Vedremo che il teamwork all’interno del quale si svolgono la maggior parte
delle pratiche organizzative quotidiane delle aziende di Silicon Valley è il
luogo ideale in cui si manifesta il concetto di “learning organizzativo”,
importante al punto che la stessa innovazione è stata definita un
comportamento di learning e la stessa Silicon Valley è stata chiamata da molti
“una grande azienda generative learning”.
A questo punto mi è parso doveroso dedicare un intero capitolo a questo
concetto organizzativo, formulando ipotesi teoriche che si connettessero a
quello che stavo sperimentando in prima persona nella valle californiana. Il
processo di learning a Silicon Valley investe tutto e tutti, non a caso sono
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partita da una considerazione privata fattami ai bordi di una piscina da una
bambina di circa cinque anni riguardante il “guru” della Microsoft.
Chiuso il cerchio teorico inerente al concetto di learning, mi accingo poi ad
interpretare, alla luce degli studi organizzativi svolti nel passato, due figure
fondamentali che guidano sia i teamswork, all’interno dei quali si mette in atto
il processo, potremo definire ora, di “apprendimento all’innovazione”, sia
l’intera azienda, con le caratteristiche che poi differenziano un’impresa
dall’altra. L’approccio simbolico allo studio delle organizzazioni aveva cercato
di mettere in evidenza, infatti, anche come il leader o il top- manager d’impresa
in realtà operasse una sorte di sottile sfruttamento, sia concreto che ideologico,
verso gli appartenenti alle posizioni di livello inferiore. Questo è vero anche a
Silicon Valley? Per la maggior parte dei casi no, perché si scoprirà invece che
la leadership ed il management sono dei ruoli e non delle posizioni nella scala
gerarchica dell’organigramma aziendale, con l’implicazione, quindi, della
precarietà della stessa “posizione” aziendale, una volta ricoperta.
Il leader, a Silicon Valley, si comporta maggiormente come un musicista di
jazz, oppure come il capitano di una squadra di calcio europea piuttosto che
come il direttore di un’orchestra sinfonica, metafore care agli studi del
simbolismo e cognitivismo organizzativo; il suo è un ruolo svolto allo scopo di
conquistare la fiducia e la fedeltà dei dipendenti dell’azienda, di cui spesso è il
CEO, e quindi di rendere ricca e innovativa l’azienda a lui o a lei riferita.
Ci avviciniamo a questo punto al concetto di imprenditore civico, che fonda
insieme le idee del business con quelle che orientano l’azione verso la sfera
comunitaria allargata, e ne scopriremo le caratteristiche principali, il motivo per
cui questa figura agisce e come agisce. Lo scopo della creazione di una
comunità economica, che fonda insieme i concetti di collaborazione e
competitività, di regionalità sposata ad un mondo che sta diventando sempre
più globale, grazie proprio alle nuove tecnologie che Silicon Valley promuove,
permette di capire quale possa essere la ricchezza effettiva della regione
californiana, fatta di nuovi talenti emergenti e di sinergie che si manifestano a
livello regionale e che derivano da un nuovo tipo di collaborazione tra gli
ambiti politici, economici, civili.
In una parola, si fondano insieme l’economia e la società raggiungendo un
“way of life” di alto livello.
Inizierò poi l’argomento del “networking”, esponendo la funzione
dell’università di Stanford dalle sue origini ad oggi e introducendo due dei
progetti che attualmente stanno investendo l’università.
L’incontro con Fearey S., uno dei dirigenti attuali del progetto per lo sviluppo
della comunità economica, mi ha permesso di comprendere come ormai ci
stiamo allontanando da una visione di parco tecnologico, come normalmente si
sono definite le regioni specializzate in high-tech, per approdare invece al
concetto di comunità economica poc’anzi delineato.
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L’occasione che mi ha spinto a contattare il dirigente è stato un articolo Internet
in cui l’autore stesso, nella presentazione di uno schema riassuntivo, non
prendeva in considerazione l’area di Boston e il MIT, come università di
riferimento dell’intero corridoio industriale, all’interno delle tipologie che
raggruppavano sia i parchi industriali sia le comunità innovative.
Per questo motivo, decisi di comprendere, almeno per sommi capi, questa
particolarità, anche perché c’è stato un lungo dibattito inerente al MIT ad alla
sua funzione di catalizzatore high-tech, accennato da me nella stessa parte
teorica, in occasione del lavoro svolto da Perulli e pubblicato dieci anni or
sono. Scopriremo che ci sono, infatti, molti ingegneri e professionisti che sono
passati da una costa all’altra degli USA e ne spiegheremo le ragioni.
Verrà quindi dimostrato che la zona di Boston ed il MIT stesso incarnano un
modello industriale profondamente diverso da quello che esiste a Silicon
Valley, basandosi su unità industriali del tutto autonome e con un livello di alta
gerarchizzazione aziendale, invece che su un network regionale di tipo
collaborativo. La stagnazione, che ormai investe la costa orientale degli USA,
rendendola non competitiva e restia ad attrarre i capitali di ventura e quindi le
“start-ups”, potrebbe essere fermata mediante un processo di
“responsabilizzazione”, arduo da compiere, ma non impossibile.
In questo capitolo, appare per la prima volta il concetto di network, nella fase
di ricerca, e vorrei sottolineare fin da ora la necessità di non confondere il
concetto di tessuto organizzativo con quello di network, perché, come verrà
ampiamente discusso nella parte teorica, il network è un risultato ottenuto dal
processo di networking, che si alimenta grazie al tessuto organizzativo di
Silicon Valley.
Nella parte finale della tesi, metterò in evidenza la situazione europea e del
resto del mondo in contrapposizione a quella staunitense, soprattutto per quanto
riguarda il futuro del Web, di cui tanto oggi si parla, inteso come fondamento
della New Economy. Le implicazioni saranno prima di carattere concettuale,
per poi passare direttamente all’analisi di una statistica che confronta i vari
luoghi attorno al mondo. Nell’approciarmi a stendere le conclusioni, analizzerò
le nuove tendenze economico-sociali in atto nella valle e cercherò quindi di
riformulare i concetti importanti scaturiti dal mio lavoro di ricerca.
Ognuno di questi insiemi di argomenti non si colloca nel proseguo della tesi
come un comparto indipendente ed a sé stante, ma è collegato ai successivi ed
ai precedenti in modo continuo ed evocativo, in quanto questa
schematizzazione rappresenta solo il mio modo di creare l’ipertesto
organizzativo di Silicon Valley; all’interno dei vari blocchi “c’è molto di più di
quanto traspare da questa lettura iniziale”, per le caratteristiche della resistenza
alla teorizzazione di concetti organizzativi quali “tessuto”, secondo gli
insegnamenti offerti da Pepper nel 1942 e rielaborati da altri, e di “ipertesto”,
concetto questo recentemente apparso sulla scena degli studi organizzativi.
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Per citare solo due esempi, all’interno dell’argomentazione inerente al Tech
Museum di S. Josè sarà presentato un insieme di domande formulate
all’ingresso del museo stesso attraverso le quali, nella primavera del 1999 si
eleggeva il “nerd” dell’anno, in collaborazione con il quotidiano S. Josè
Mercury News.
Oppure, parlando della leadership e degli imprenditori civici, si constaterà
anche come la mia idea di ipertesto si discosti da quella adottata dagli autori
giapponesi Nonaka e Takeuchi del 1995, in cui l’enfasi principale è posta
invece sulla figura del “middle-management”.
Questi due esempi illustrano bene come poi, ognuno dei lettori possa, in ultima
analisi, approfondire altre forme di conoscenza rimaste in qualche modo in
ombra nella mia creazione ipertestuale, senza per questo considerare il mio
disegno complessivo vero o falso.
Desidero ringraziare in modo particolare mio fratello Egi che mi ha dato
l’opportunità di intraprendere questo viaggio, James March. che mi ha ricevuta
diverse volte all’università di Stanford e mi ha accompagnata con i suoi
preziosi consigli, Seth Fearey che mi ha fornito degli esempi concreti di come
si lavori a Silicon Valley tra tensione civica e mondo di miliardari, e ringrazio
inoltre tutti coloro che mi hanno appoggiata e rincuorata soprattutto nei primi
momenti davvero difficili a causa della barriera linguistica.
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CAPITOLO I
LO SVILUPPO DELL’APPROCCIO CULTURALE E SIMBOLICO PER
UNA NUOVA CONOSCENZA DEL TESSUTO ORGANIZZATIVO
Un pesce scopre il suo bisogno dell’acqua solo quando non sta più in essa.
La cultura è come l'acqua per il pesce. Ci sostiene. Noi viviamo e respiriamo
attraverso di essa.
“Che cosa significa il concetto di cultura per te? Puoi differenziare all’interno
un certo numero di componenti?” oppure meglio, (dopo varie interviste) “Mi
sai nominare qualunque cosa che non appartenga al concetto di cultura per te?
(Interviste al Santa Clara Convention Center)
Affrontare il ventaglio di idee che interessarono la sociologia
dell'organizzazione dagli anni 80 in poi, rivolgendo l'attenzione alle
componenti culturali del suo oggetto di studio, rappresenta una parte del
viaggio che ci si approccia a fare nell’universo delle idee (Czarniawska, in
Bachacach, 1996). Le idee, infatti, viaggiano nello spazio e nel tempo e si
concretizzano in modo svariato, pronte ad essere accolte e modificate nei
contesti in cui attecchiscono e a viaggiare, di nuovo, attraverso prodotti, servizi,
nuove idee, o addirittura si esplicano attraverso i paradigmi che le
imprigionano e che da essi poi riottengono nuovo vigore nella direzione del
cambiamento.
In questo lasso di tempo, l’approccio culturale alle organizzazioni è nato, si è
sviluppato in modo esorbitante e, a parere di alcuni, è addirittura morto (Calas,
Smircich, in Gherardi, 1988). Come mettono in evidenza Alvesson e Berg, già
nel 1990 gli articoli catalogati con l’etichetta di “cultura” erano 2550. Non è,
infatti, facile definire che cosa sia l’approccio culturale proprio perché è
diventato un campo di studi in cui è più facile tracciare differenze e distinzioni
piuttosto che mettere in risalto quali siano i tratti comuni o unificanti.
Il corpo della conoscenza che usualmente definiamo “sociologia
dell'organizzazione”, è un artefatto culturale prodotto da una comunità
scientifica nazionale ed internazionale (Gherardi, 1989). Nella comunità
scientifica quindi, attraverso un processo di negoziazione sociale, si produce
una diversa rappresentazione del mondo che può andare ad arricchire le
rappresentazioni precedenti.
Durante gli ultimi vent’anni, a partire dalla crisi dell’”one best way” di Taylor,
si è manifestato nella comunità scientifica un rinnovato interesse per i metodi
di ricerca qualitativi in cui il ricercatore è impegnato in compiti interpretativi
piuttosto che prescrittivi (Gherardi, Turner, 1988). Ciò non significa che la
ricerca qualitativa sia nata a questo punto; infatti, si può ipotizzare che ogni
studio di caso abbia fatto uso di tecniche di tipo qualitativo, anche quando di
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esse non vi è traccia nella descrizione della metodologia di ricerca. Secondo la
studiosa, il fatto che noi possiamo descrivere l’organizzazione in esame come
un teatro, una macchina o un testo dipende dall’interazione tra il ricercatore e il
suo oggetto di conoscenza, il che significa che si rendono reali alcune
possibilità di ricerca, lasciandone altre indicibili (Morgan, 1983 in Gherardi,
1989).
1. La classificazione di Burrell e Morgan
Burrel e Morgan, nella loro opera "Sociological paradigms and Organiziational
Analysis", propongono una chiave di lettura generale delle scienze sociali e
della teoria dell'organizzazione. Vengono messi in evidenza i quattro paradigmi
fondamentali (il funzionalismo, il paradigma interpretativo, lo strutturalismo
radicale e l’umanesimo radicale) che illustrano non solo “ciò che c’è stato”
nelle teorie classiche delle organizzazioni, ma pure gli sviluppi attuali
contrastanti con l'ortodossia dominante. Per esempio, il paradigma
interpretativo si inserisce entro una sociologia del consenso e sul versante del
soggettivimo, sfociando, quindi, all’interno del dominio della sociologia della
regolazione. Il funzionalismo, con le teorie dell’azione, dei sistemi sociali,
delle disfunzioni burocratiche, appartiene sempre alla sociologia della
regolazione, ma si differenzia dal paradigma interpretativo perché il versante su
cui focalizza la sua attenzione è l’oggettivismo. Il paradigma dell’umanesimo
radicale è soggettivista, ma si indirizza verso il cambiamento radicale, per cui
verrà collocato all’interno della sociologia del mutamento radicale.
Infine, lo strutturalismo radicale, farà parte, allo stesso modo, della sociologia
del mutamento radicale, solamente dal versante dell’oggettivimo.
Tutto ciò può essere definito quale una mappa intellettuale, in cui all’interno
dei vari territori paradigmatici si collocano i diversi approcci allo studio delle
organizzazioni.
SOGGETTIVIMO OGGETTIVISMO
Approccio soggettivo
alle scienze sociali
Approccio oggettivo alle
scienze sociali
NOMINALISMO ONTOLGIA REALISMO
ANTI-POSITIVISMO EPISTEMOLOGIA POSITIVISMO
VOLONTARISMO NATURA UMANA DETERMINISMO
IDEOGRAFICO METODOLOGIA NOMOTETICO
Schema per l'analisi degli assunti sulla natura delle scienze sociali
(Burrell, Morgan, 1979, pag 3).
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Per la comprensione dei quattro paradigmi è necessario analizzare le assunzioni
di una filosofia della scienza che si articola lungo un asse che va dal
soggettivismo all'oggettivismo e che è costituita dagli assunti che riguardano i
seguenti livelli: ontologico, epistemologico, metodologico, ed uno relativo alla
natura umana. Gli scienziati sociali, a livello ontologico, cercano di rispondere
al quesito che segue: “Esiste una realtà sociale esterna all'individuo che si
presta ad indagine, oppure la realtà è il prodotto della cognizione umana ?".
A livello epistemologico la domanda e le assunzioni riguardano il modo
attraverso cui è possibile conoscere la realtà e comunicare questa esperienza ai
propri simili. Il terzo livello riguarda la natura delle relazioni fra gli uomini ed
il loro ambiente, e quindi ci si sposta da una visione deterministica ad una
caratterizzata dal libero arbitrio, il che poi determina posizioni e assunti
metodologici differenti.
Ci sono quindi metodologie che trattano la realtà sociale come hard, esterna e
misurabile, altre invece che la considerano come soft, e quindi soggettiva,
focalizzando in questo modo l'analisi, invece che sui rapporti e sulle regolarità
che sfociano in leggi generali, sul modo in cui l'individuo crea, modifica ed
interpreta il mondo in cui si trova. Il concetto di tessuto organizzativo che
analizzerò successivamente permette di sorvolare questa dicotomia (Strati,
1996).Per quanto riguarda invece il modo di considerare la società, le tematiche
sono orientate all'ordine o al conflitto, a seconda se si considerino gli elementi
di coesione o di rottura.
2. La crisi del paradigma dominante all'interno degli studi organizzativi
Il campo della cultura organizzativa trova le sue radici in alcuni problemi che
si sono sempre rivelati centrali all'interno della sociologia dell'organizzazione,
cioè la tensione, da sempre esistita tra chi preferisce occuparsi di ciò che è
maggiormente caotico e difficile da razionalizzare e chi invece preferisce lo
studio di ciò che nelle organizzazioni si presenta come esplicito, razionale e
capace di creare ordine.
Tutte le tematiche che contribuiscono allo studio culturale delle organizzazioni,
cioè lo studio dei miti e dei rituali, derivati dall'antropologia, l'interazionismo
simbolico di Goffman e Blumer, l'etnometodologia di Garfinkel, volta alle
procedure interpretative utilizzate per conferire un senso al mondo sociale e
importanti poi per lo sviluppo del concetto di learning in ambito organizzativo
(Gherardi et altri, 1997) e per aver favorito ex-post la concettualizzazione dei
ricchi apporti del simbolismo organizzativo, lo studio delle organizzazioni in
quanto dotate di missione, possono essere accomunate dalla comune tensione di
occuparsi dell'implicito. L'interesse, quindi, per lo studio della cultura
organizzativa, espresso nel 1985 dagli autori, rifletteva lo stadio "di un ciclo
intellettuale" che andava avanti da generazioni di sociologi.
Il paradigma razionale industriale che imponeva alle scienze sociali di trovare
una soluzione scientifica alle “apparenti assurdità” che si potevano manifestare
all'interno della vita organizzativa, quali, per esempio, l'identificazione di